Platone
Il filosofo delle idee
Platone è – insieme al suo grande allievo, Aristotele – il più importante pensatore dell’antichità. Per comprendere l’ispirazione della sua filosofia, che esercitò un profondo influsso sulla cultura occidentale, si può osservare La scuola di Atene di Raffaello. In questo splendido dipinto Platone e Aristotele occupano il centro della scena: ma mentre Aristotele stende la mano davanti a sé, indicando la terra, Platone la leva in alto, indicando il cielo. Egli si volge al cielo, cioè alle idee, perché considera imperfetta la realtà di questo mondo: non gli interessa descriverla così come essa appare, ma additare un modello ideale al quale conformarla. Il filosofo incarnato da Platone è quindi essenzialmente un educatore e un politico
Nato ad Atene nel 428 a.C., da una famiglia di antica nobiltà, Platone manifestò sin da giovane il desiderio di prendere parte alla vita politica. Ma la natura faziosa e violenta dei regimi succedutisi ad Atene durante la sua giovinezza lo deluse profondamente. La delusione si trasformò infine in sdegno, quando il regime democratico, nel 399, condannò a morte Socrate, di cui Platone era amico e discepolo.
La morte del maestro rappresentò per Platone la prova più evidente della drammatica crisi in cui versava il mondo greco, causata dal completo distacco tra politica, sapere e giustizia. Nacque così in lui l’idea secondo la quale soltanto un governo di filosofi avrebbe potuto realizzare uno Stato giusto.
Nel 388 Platone fece un lungo viaggio nell’Italia meridionale, che si concluse a Siracusa: qui le sue idee politiche suscitarono l’irritazione del tiranno Dionisio il Vecchio, che lo fece vendere come schiavo.
Tornato fortunosamente ad Atene da uomo libero, Platone vi fondò nel 387 l’Accademia (dal nome dell’eroe Academo, cui era dedicato il luogo), che ben presto divenne la scuola filosofica più celebre della Grecia.
Ma nel 367, dopo vent’anni dedicati allo studio e all’insegnamento, la passione per la politica attiva si ridestò nell’animo di Platone, anche perché Dionisio il Giovane, succeduto al padre, lo invitò a Siracusa, manifestando interesse per le sue idee. L’anziano filosofo fece così altri due viaggi nella città siciliana, che si conclusero con un completo fallimento e che per poco non gli costarono la vita.
Rientrato nella sua città natale nel 360, Platone rimase alla direzione dell’Accademia sino alla morte, avvenuta nel 347.
Socrate occupò un posto decisivo nella formazione di Platone: ne ispirò la riflessione politica, che sta al centro del suo pensiero, e gli trasmise la concezione della filosofia e del suo metodo.
Anche per Platone la filosofia consiste nella ricerca ininterrotta della verità: di qui la durissima polemica verso i sofisti (sofistica), che insegnavano l’arte di argomentare le tesi più diverse, persino opposte. Il relativismo implicito in questa posizione – ossia la convinzione che non esista la verità, ma soltanto opinioni egualmente valide a seconda dei diversi punti di vista – era la causa principale, secondo Platone, della decadenza morale e politica in cui versava il mondo greco.
Platone riprese da Socrate anche il metodo del dialogo, ma a differenza del maestro – che non aveva lasciato nulla di scritto – scrisse molte opere. Egli tuttavia conservò in esse la forma del dialogo, dando vita a un vero e proprio genere letterario; inoltre rivelò che sulle questioni supreme (il bene, l’uno e così via) non aveva mai scritto niente, perché la verità, in questi argomenti, può scaturire soltanto dopo lunghe discussioni tra chi condivide la medesima passione per la ricerca.
Nei suoi primi dialoghi (Apologia di Socrate, Protagora, Gorgia) Platone riprese gli insegnamenti di Socrate. Ben presto, tuttavia, sentì il bisogno di andare al di là del maestro: se è vero, infatti, che Socrate cercava con passione la verità, è altrettanto vero che i suoi dialoghi non approdavano a conclusioni certe e stabili. Per raggiungere tale risultato Platone sviluppò una riflessione sulla scienza.
Partendo dal presupposto che il sapere rifletta l’essere – cioè che la mente umana sia come un specchio – Platone si chiese quale fosse l’oggetto proprio della scienza o epistème, cioè di un sapere stabile e immutabile. È chiaro che tale oggetto non può essere costituito dalle cose di questo mondo, che sono mutevoli e imperfette: da esse deriva infatti l’opinione o dòxa, che è un sapere soggettivo e instabile. L’oggetto della scienza dovrà quindi essere costituito da entità stabili e perfette, che Platone individua nelle idee (da èidos «forma»).
Nel mondo, per esempio, esistono cose più o meno belle, più o meno giuste; ma noi le possiamo definire tali – e coglierne il grado più o meno elevato di bellezza e giustizia – soltanto perché possediamo le idee della giustizia e della bellezza in sé. Le idee di cui parla Platone non sono quindi rappresentazioni mentali, ma entità perfette e autonome, che egli colloca in un luogo al di là della realtà fisica (detto Iperuranio). Esse costituiscono il criterio di giudizio delle cose (ciò che ci permette di pensarle) e il fondamento del loro essere: le cose sensibili sono infatti copie imperfette delle idee.
Alle idee l’uomo accede tramite il puro ragionamento, perché esse si trovano già nella nostra anima. Facendo sue le dottrine orfico-pitagoriche (Orfeo), Platone ritiene che l’anima sia immortale e che si incarni più volte nei corpi: prima di incarnarsi essa contempla le idee nell’Iperuranio e le ricorda grazie allo stimolo delle cose esterne. Conoscere equivale dunque a ricordare.
Una delle ragioni che hanno contribuito alla fortuna del pensiero di Platone è la sua straordinaria capacità di elaborare miti per illustrare i concetti più importanti della sua filosofia. Il più celebre è il mito della caverna, che illustra la dottrina delle idee e l’intima connessione tra filosofia e politica.
Platone immagina dei prigionieri che, fin dall’infanzia, siano incatenati in una caverna, con la faccia rivolta verso il fondo, e che possano guardare soltanto davanti a sé. Alle loro spalle vi è un muricciolo, dietro il quale passano uomini che portano sulle spalle delle statuette, che sorpassano il muro e raffigurano ogni genere di cose, le cui ombre si proiettano sul fondo della caverna. I prigionieri sono convinti che quelle ombre siano l’unica e vera realtà. Ma se uno di loro riuscisse a liberarsi, scoprirebbe che si tratta soltanto di ombre; e oltrepassando il muro capirebbe che anche le statue sono soltanto imitazioni degli oggetti reali che si trovano fuori della caverna. L’ex prigioniero deciderebbe allora di tornare dai suoi compagni, per renderli partecipi della verità e liberarli; ma disabituato al buio, egli apparirebbe goffo e quasi cieco ai suoi compagni, che infastiditi dai suoi discorsi lo ucciderebbero.
La caverna rappresenta il nostro mondo e i prigionieri sono gli uomini. Il prigioniero che si svincola dalle catene (cioè dall’ignoranza) simboleggia l’azione della filosofia, che dapprima libera l’uomo dalla credenza nelle ombre e poi gli fa capire che anche le statuette (cioè le cose sensibili) sono soltanto copie degli oggetti reali (le idee), che si trovano fuori della caverna (cioè nel mondo delle idee). Il ritorno dell’ex prigioniero nella caverna rappresenta il ruolo politico della filosofia, che è in grado di liberare gli uomini indicando loro la verità; ma la disabitudine del filosofo al buio (al mondo delle cose sensibili) lo rende poco credibile ai suoi simili, suscitando la loro derisione e la loro aggressività, esattamente come era accaduto a Socrate.
Non a caso, il mito della caverna si trova al centro della Repubblica, il dialogo più famoso di Platone. Scopo del dialogo è definire la giustizia, al fine di delineare il modello dello Stato giusto. E poiché la giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo, sarà giusto quello Stato in cui ogni individuo occuperà il posto adatto alle sue caratteristiche: gli individui più sapienti (i filosofi) dovranno governare, quelli più coraggiosi si occuperanno della difesa e quelli che hanno soltanto doti fisiche provvederanno alla produzione dei beni.
Fissata chiaramente la gerarchia dei ruoli, Platone insiste sulla profonda unità che deve regnare nello Stato e sull’assoluta preminenza del bene comune su quello dei singoli individui: e poiché è convinto che l’egoismo sia la radice di tutti i mali e che la proprietà privata costituisca la sua massima espressione, egli teorizza la comunanza dei beni e dei figli per i governanti e per i guerrieri (ai produttori è concessa una piccola proprietà, ma solo in usufrutto).
Nella sua ultima opera, le Leggi, Platone – dopo le fallimentari esperienze di Siracusa – sceglie un approccio più realistico: egli accetta di basare lo Stato sulle leggi e non sulla sapienza dei filosofi, affida a questi ultimi il compito di definire tali leggi, ma non quello di governare, e ammette infine la proprietà privata, ma entro limiti assai ristretti.