PLAUTO (Plautus)
Il maggiore dei commediografi latini. Della vita di P., se non teniamo conto, com'è doveroso, di vicende evidentemente leggendarie, sappiamo ben poco. Tutte le notizie tramandate risalgono a Varrone, il quale aveva studiato gli atti delle rappresentazioni (e tutto quello che da esse riportava sarà probabilmente vero); ma anche ricavava particolari biografici dalle commedie stesse, riferendo all'autore vicende che colà sono narrate dai personaggi, secondo una ricetta della biografia alessandrina che non inganna ormai più nessuno studioso ragionevole: evidentemente notizie di tal fatta non hanno alcun valore, perché, mentre si presentano quale tradizione, sono in realtà combinazione arbitraria e fantastica. Che P. abbia prima fatto danari con la sua professione di attore, li abbia poi perduti in speculazioni commerciali transmarine e si sia dovuto guadagnare la vita girando la mola, che abbia, mentre girava la mola, composto tre commedie, il Saturio, l'Addictus e un'altra (tutte e tre perdute), è un tessuto d'invenzioni: Varrone ha riferito a P. quel che in quelle tre commedie era detto di qualche personaggio!
Sicuro è che P. nacque a Sarsina (o Sassina), una cittadina umbra non lontana dal confine gallico: a Sarsina si parlava certamente ancora umbro, se pure si sarà inteso bene il latino (ché non è lontana la colonia latina di Rimini, fondata tra la guerra tarantina e la prima punica); e non è escluso che quell'umbro fosse mescolato di elementi gallici. Il maggiore commediografo latino imparò probabilmente il latino, non l'ebbe quale lingua materna o fu almeno bilingue. Né questo è caso, ché si ripete per Livio Andronico e per Nevio, per Ennio e per Pacuvio, per Cecilio e per Terenzio. Sappiamo inoltre da fonte documentaria (didascalie conservate) che lo Stichus fu rappresentato nel 200, lo Pseudolus nel 191; da allusioni ad avvenimenti contemporanei induciamo che il Miles Gloriosus cade poco innanzi al 204, la Cistellaria poco innanzi al 201. Già meno sicura è la data della morte: che Varrone la registrasse sotto il 184, significa in primo luogo soltanto che il nome del poeta scompariva da quell'anno in poi dai protocolli delle rappresentazioni.
Anche l'onomastica non è pienamente sicura. Un tempo si soleva chiamare il poeta M. Accius; il più venerabile tra i codici di Plauto, il palinsesto ambrosiano (v. sotto), rivelò una forma più genuina, T. Maccius (la forma M. Accius deriva da un Maccius non inteso). Ma è questa poi davvero la forma assolutamente genuina? Plauto chiama sé stesso nei prologhi talvolta Plautus, spesso (in genitivo) Macci Titi; una volta (Asin., 11) Maccus. Si chiamava T. Maccius Plautus o T. Maccus Plautus? E portò egli il triplice nome già in Sarsina dove l'onomastica, come mostrano le epigrafi, era etruscoide, dove quindi erano in uso, prima che a Roma, i tre nomi e dove il gentilizio spesso non aveva la desinenza romana in -ius? È poco probabile, perché sarebbe un bel caso che un Sarsinate, il quale portava un nome che contrassegnava anche una figura scenica, Maccus (a un dipresso Pulcinella), diventasse poi in Roma proprio attore. O piuttosto un Tito umbro (gl'Italici, più antichi avevano un nome solo, il cosiddetto prenome, e il patronimico) chiamato già in patria Plautus, cioè probabilmente "piede piatto", si sarà a Roma, dal mestiere che esercitava, fatto chiamare Maccius, e quel passo dell'Asinaria conterrà un'allusione al nome e nello stesso tempo al mestiere dal quale il nome deriva?
Non molto più si può dire sulla vita di P. e sulla sua cronologia. Da un passo delle Bacchides nelle quali cita l'Epidicus (v. 214): "io amo l'Epidico quanto me stesso, ma nessun'altra commedia vedo tanto di mala voglia quanto questa, quando la rappresenta Pellione", ricaviamo che P., almeno da un certo punto in poi, non fu l'impresario di sé stesso, che l'attore Pellione aveva acquistato questa commedia, come secondo le testimonianze delle didascalie aveva acquistato lo Stichus. Ricaviamo ancora che parecchio tempo dev'essere passato fra Stichvs (anno 200) ed Epidicus dall'un canto e le Bacchides dall'altro. Il confronto tra due narrazioni di sogni, nel Mercator e nel Rudens, mostra che il Rudens è più antico. Di recente, dal confronto tra due monologhi, si è voluto ricavare che i Captivi sono posteriori alla Mostellaria. Ma termini assoluti non si trovano.
Certo, importa più vedere come in anni pieni di guerre, negli anni della conquista della Gallia cisalpina e della Spagna e delle terribili lotte contro Filippo di Macedonia e Antioco, un umbro di bassa condizione imparò tanto di greco da sentire direttamente la commedia nuova e tanto di latino da riprodurla in questa lingua, adattandola al gusto del pubblico romano, senza scrupoli di filologo, ma con intuizione profonda di artista e di uomo di teatro.
Secondo una testimonianza di Gellio, la quale deriva da Varrone, a P. erano attribuite circa centotrenta commedie. Ma già Accìo (v.; nato il 170 a. C.) tentava nei suoi Didascalica, a. quel che pare fondandosi principalmente su criterî stilistici, di distinguere, nel gran numero delle fabulae tramandate, quelle che presentavano garanzia di autenticità, e non si peritava di rigettare anche commedie che portavano il nome dell'autore nel prologo, considerandole, almeno in parte, quali rifacimenti di commedie precedenti. Varrone prosegue a distanza di quasi due secoli l'opera di Accio, e, servendosi di schemi alessandrini, divide le commedie in "autentiche" (genuinae), quelle la cui autenticità nessun critico aveva messo in dubbio, false (spuriae) e controverse (ambiguae). Questa divisione ebbe influsso decisivo sulla conservazione di P.: quantunque Varrone non abbia, a quel che pare, dato un testo di P., a noi è giunta una raccolta che conteneva originariamente tutt'e ventuna le genuinae di Varrone e solo queste: e cioè Amphitruo, Asinaria, Aulularia, Bacchides, Captivi, Casina, Cistellaria, Curcitlio, Epidicus, Menaechmi, Mercator, Miles gloriosus, Mostellaria, Persa, Poenulus, Pseudolus, Rudens, Stichus, Trinummus, Truculentus, Vidularia.
Per vero, di una, la Vidularia, leggiamo in questa raccolta solo il titolo, e, per i casi della tradizione, è andata perduta l'ultima parte dell'Aulularia e la prima delle Bacchides e la parte centrale della Cistellaria; anche altrove il testo è lacunoso.
Le faoulae di Plauto appartengono tutte alla palliata (v. commedia), cioè derivano da esemplari greci: l'azione ha luogo in Grecia o nel mondo greco (per lo più ad Atene; per l'Amphitruo a Tebe per i Captivi in Etolia, per il Curculio a Epidauro, per i Menaechmi a Epidamno, per il Poenulus a Calidone, per il Rudens a Cirene); greci sono i personaggi; greci, in massima, i costumi e le istituzioni giuridiche e sociali presupposte. Le commedie che P. ridusse per il teatro romano appartengono tutte alla "commedia nuova"; non fa eccezione, come pure si è creduto per parecchio tempo, il Persa. Una posizione speciale ha soltanto il modello dell'Amphitruo: mentre tutte le altre commedie sono esclusivamente umane, e dei (o piuttosto, per lo più, personaggi allegoríci) non hanno parte se non quali recitatori del prologo, l'Amphitruo è parodia mitologica. La parodia mitologica è considerata in genere quale caratteristica della "commedia media". Ma essa è insieme anche più antica e più recente: noi possediamo da anni un lungo tratto di un sommario del Dionysalexandros di Cratino (v.), e i personaggi dell'Amphitruo sono, nonostante i nomi divini e la potenza di operare prodigi, personaggi della "commedia nuova", il padrone, la matrona, particolarmente il servo. Non c'è alcuna ragione di ritenere che anche la fonte dell'Amphitruo non appartenga alla "nuova".
Il nome dell'autore dei modelli è talvolta tramandato e determinato con certezza: l'originale dell'Asinaria è di un ignoto poeta Damofilo. Di Filemone sono gli originali del Trinummus, del Mercator, della Mostellaria; di Difilo quelli della Casina e del Rudens; di Menandro quelli dello Stichus, delle Bacchides, del Poenulus, dell'Aulularia, della Cistellaria; per questa l'identificazione è stata di recente confermata dalla lettera, scoperta a Bamberga, di un chierico dell'età degli Ottoni, il quale attinge titoli di commedie da un Festo più completo di quello giunto a noi.
In certo senso, si può dire che P. traduce le sue commedie da esemplari greci, così come buona parte della drammatica latina arcaica da Livio Andronico in poi consiste di versioni. Già questo non sarebbe poco: i poeti romani del periodo arcaico hanno inventato la versione artistica, hanno imparato e insegnato a riprodurre un'opera d'arte letteraria in una lingua diversa da quella nella quale era stata concepita, e, possiamo dire, a creare nella lingua nuova opere d'arte materialmente corrispondenti a quelle concepite in greco. La civiltà greca non conosce se non versioni a fine pratico (tali sono, p. es., quelle dall'assiro di testi astrologici; tali in certo senso anche i Settanta) o scientifico (come le versioni di documenti e opere documentarie egiziane e assire). A tale opera i poeti romani erano predisposti da condizioni personali, perché tutti, da Livio Andronico sino a Terenzio, erano sin dall'infanzia bilingui o trilingui. E quei poeti, inventando la traduzione artistica, davano a Roma un istrumento prezioso per la sua missione di diffonditrice della cultura greca, occidentale, tra le genti.
Ma P. ha fatto di più. Lo stile delle sue traduzioni è eminentemente personale, tant'è vero che esso, nonostante la varietà dei modelli, è uno. E non ha nulla di esotico: i grecismi che vi s'incontrano sono evidentemente non peculiari di P., ma attinti alla lingua latina del tempo. Gli originali, se possiamo giudicare anche gli altri poeti della "nuova" alla stregua di Menandro di cui possediamo ormai moltissimo, erano scritti in linguaggio della conversazione, alieno da ogni retorica: Menandro, quando diventa retorico, è parodico. I trimetri di Menandro sono dimessi: l'enjambement è quasi ininterrotto: il poeta desidera che i suoi personaggi diano quasi l'impressione di parlare in prosa. L'enfasi in Menandro, quando c'è, è qúasi sempre parodia (fa eccezione qualche scena molto mossa, in momenti culminanti dell'azione). Si è spesso parlato di verismo e di naturalismo, sebbene non del tutto con ragione. I versi recitativi di P. s'imprimono subito all'orecchio e alla memoria, tanto sono sonori. Mentre Menandro evita le figure, P. ne ha ad ogni verso, di parole e di suono, "dicola", "tricola", allitterazione e così via. Ma questa, se si voglia, retorica egli non ha appresa da maestri greci che, secondo ogni probabilità, a Roma a quel tempo non c'erano. La prosa sacrale romana, la poesia popolare romana anteriori a Livio Andronico erano appunto carattaizzate da quelle figure. P. traduce la commedia ellenistica in uno-stile che mentre è originale e suo, continua la tradizione dello stile nazionale romano. In Menandro dicono frizzi soltanto personaggi secondarî, di condizione per lo più servile o a ogni modo umile; in P. lo scoppiettio dei giuochi di spirito è continuo, anche se alcuni si direbbero meglio freddure. Anche i lazzi appartengono allo stile nazionale: Palum acetum. Menandro è poeta, nelle sue cose migliori e più caratteristiche, serio, verrebbe voglia di dire malinconico; P. è con Aristofane il comico più allegro di tutte le letterature antiche e moderne.
È caratteristica essenziale della "commedia nuova" greca (rispetto all'arte, p. es., di Aristofane) che la parte lirica è in essa ridotta a ben poca cosa, a nulla. Alla vita di ogni giorno il canto corale è estraneo, né la gente riversa la piena dei suoi sentimenti in cantate liriche. Inoltre, la commedia di Menandro vuol essere una: non che manchino oscillazioni di tono; vi sono e virtuosissime, ma esse sono comprese nei limiti di una gamma poco estesa. Buona parte di ogni commedia di P. (tranne una, quella che delle poche databili è la più antica, il Miles) è costituita di cantica. Dond'egli abbia ricavato i metri di questi cantica, è dubbio: se da lirica ellenistica o non piuttosto, attraverso la tragedia romana, dalla tragedia greca (v. metrica). Ma v'è anche rispetto alla tragedia greca una differenza essenziale: anche nella tragedia greca vi sono come in Plauto parti liriche non solo monologiche, ma dialogiche, "commi", dialoghi tra uno o più attori e il coro; ma queste scene non fanno mai o quasi mai progredir l'azione. In P. buona parte dell'azione si svolge nei cantica. Quest'è qualcosa di nuovo. P., si è detto non senza ragione, è l'inventore dell'opera buffa. S'intende che sia così: P. fu uno spirito musicale, un genio musicale, e come tale lo ammirò il suo popolo: un epigramma composto subito dopo la sua morte (Varrone e, sull'autorità di Varrone, Gellio lo attribuiscono al poeta medesimo) afferma che per essa gl'innumerevoli ritmi tutti insieme si misero a piangere: et numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt. Orazio non sente più quei versi; ma non possiamo accettare il suo giudizio, perch'egli non si rendeva conto che il testo di P. che aveva dinnanzi agli occhi era modernizzato, non sapeva dei mutamenti fonetici e prosodici che nel periodo tra P. e Cicerone aveva subito la lingua latina. È strano che critici italiani, pur sapendo, com'è naturale, di tali mutazioni trovino i versi di P. "dimessi". Dimessi sono i ritmi di Menandro, non quelli di P.
Abbiamo detto che la lingua di P. è una: questo non significa ch'egli non faccia differenza tra le parti recitative (diverbia) e le cantate (cantica), anzi tra l'uno e l'altro verso recitativo. Essa è una e insieme varia, com'è sempre nei grandi artisti.
Di P. abbiamo sin qui valutato l'arte stilistica e metrica; l'abbiamo, cioè, considerato essenzialmente quale traduttore. Ma è evidente che una traduzione che trasforma così l'originale, che di un'elocuzione unita, normale, conversativa fa un fuoco d'artificio di frizzi, è insieme riduzione. P. deve aver capito e sentito gli originali greci in tutte le loro sfumature; ma egli non fu un filologo alessandrino in terra latina (come fu solo mezzo secolo dopo un altro poeta scenico, L. Accio), e non si propose intenti filologici. Non volle rendere lo stile degli originali, ma volle imprimere un sigillo romano e proprio sulla materia da essi trattata: volle, uomo musicale, infondervi lo spirito della lirica musicale; volle, uomo di teatro, piacere al pubblico. Il pubblico romano era ancora al tempo di Terenzio umile e popolare; è possibile che nell'età di P. (diversamente che in quella di Terenzio) anche le classi più alte della popolazione partecipassero dei gusti del popolo. A un tal pubblico l'arte raffinata ma un po' stanca di Menandro non poteva piacere: un tal pubblico non poteva, p. es., sorridere, come il Menandro degli Epitrepontes, di schiavi che hanno fiutato un po' la cultura e si dànno l'aria di persone colte: i Romani di P. non avevano probabilmente ancora un termine che corrispondesse a Παιδεία. Erano gente di gusto non raffinato, ma sano, e avevano bisogno, per divertirsi, di stimoli forti. P. condisce la "commedia nuova" di una buona dose di pepe di Caienna.
Non intendiamo, con questa espressione, oscenità; le quali anche nei modelli non mancavano del tutto (non mancavano, p. es., nell'originale difileo della Casina), e in P. stesso sono rade e per lo più quasi ingenue; ma appunto frizzi, lazzi, massime ridicole e simili.
P. non si fa scrupolo, dunque, di sostituire e di aggiungere pur di far ridere; queste parti "plautine in Plauto", cioè non desunte da modelli, sono quasi sempre scurrili ma per lo più spiritose. Le aggiunte sono spesso talmente inorganiche che un lettore attento riesce a delimitarle, notando come azione e dialogo corrano lo stesso e meglio, tolti certi versi o gruppi di versi. Altre aggiunte e sostituzioni si tradiscono per le allusioni a istituzioni romane o a costumi romani. Altre rientrano in categorie determinate: spesso una scena comincia con una comparazione: il personaggio dichiara di superare (o che altri supera) una personalità storica o mitologica o anche un altro oggetto per un qualche rispetto. Talvolta la comparazione diviene addirittura identificazione: "il mio padre è una mosca: non gli si può tener nascosto nulla". O l'identificazione si presenta quale trasformazione: "farò di te un pallone per esercizî di pugilatore e, appesoti in alto, ti assalterò a pugni" oppure (parla uno che vuole uccidersi) "farò della spada una coltre e mi ci butterò sopra". L'avvicinamento è sempre tra cose disparate, sicché verrebbe voglia di confrontare le celebri domande che sono o erano ìn voga qualche anno fa: "Che c'è di simile tra.....?". E notevole quanto spesso in tali aggiunte figuri mitologia per lo più triviale; quanto spesso in esse ricorrano grecismi. Evidentemente il pubblico romano anche più modesto doveva avere conoscenza di leggende greche non foss'altro da oggetti dell'arte figurata; e proprio le classi inferiori, delle quali liberti che avranno saputo il greco fin da quando erano schiavi, anzi forse fin dalla nascita, erano un elemento numericamente importante, avranno parlato un latino più variegato di grecismi che le classi alte, che i proprietarî terrieri: questi saranno stati puristi, perché avevano più tradizione.
Ma le riduzioni di P. penetrano ancor più profondamente, non si limitano ad aggiunte o a mutamenti formali. Da quando noi possediamo moltissimo di Menandro, sappiamo che questi si preoccupa pochissimo dell'invenzione, evidentemente schematica e tradizionale. Anzi egli negli Epitrepontes, celiando su sé stesso, confessa per bocca di un suo personaggio caro e un po' buffo, di avere attinto alla tragedia moltissimi dei caratteri, moltissimi dei problemi etici. Gli Epitrepontes trattano appunto il problema se la donna che rompe, per lo più senza volerlo, l'obbligo della castità sia lei degna di dispregio e non l'uomo che le ha fatto violenza. Drammi di tal genere, P. non ne ha tradotti: il suo pubblico da una parte s'interessava per avventure fantastiche in terre lontane (Rudens) o per riconoscimenti che gli Ateniesi avevano considerato solo un mezzo comodo per sciogliere il nodo, dall'altra si compiaceva di beffe ben riuscite. Si può giurare che al poeta il senso per i problemi della vita, per la problematicità della vita stessa mancava altrettanto quanto al suo pubblico: P. non è pensatore né per forza propria né per virtù d'influssi filosofici. P. ha scelto dalla produzione ricchissima della "nuova" quelle commedie il cui argomento, il cui intreccio egli sapeva che sarebbe piaciuto al pubblico romano con cui il poeta era unito da vera congenialità: di Menandro, p. es., l'Aulularia, dove il tipo dell'avaro anche senza i ritocchi di P., è irresistibilmente ridicolo. Ma neppure queste commedie egli ha potuto o voluto lasciare quali erano.
Menandro, lo abbiamo detto, impiega molta cura nel delineare i caratteri: egli ha sì qualche macchietta ben riuscita di popolano o di schiavo, ma ha nel resto solo caratteri individuali, non tipi, non maschere. Di P. (come di Aristofane) si potrebbe dir l'opposto: egli ha soltanto tipi. In questa distinzione così netta s'incarna una concezione totalmente diversa della vita, non solo una diversità di temperamento umano e artistico: da una parte italicità, romanità genuina, che s'affaccia fresca alla cultura, dall'altra civiltà attica, vecchia, ripiegata su sé stessa, dubitosa. Gli altri poeti della "nuova" è certo che somigliavano più a Menandro che a P., se pure erano personalità meno spiccate, più ligie alla tradizione comica. Chi vuol caratterizzare personaggi, non vi può in una commedia riuscire se non per mezzo di un dialogo lento e persino strascicato. Un tale dialogo sarebbe riuscito intollerabile ai Romani del tempo di P. Questi ha evidentemente abbreviato, tagliato senza scrupoli. Una sola volta egli si è sbagliato nello scegliere: ha tradotto una commedia appunto di Menandro, lo Stichus, nella quale due figure squisitamente menandree, due sorelle sposate a due fratelli, che vogliono rimanere fedeli ai loro mariti, assenti, scomparsi, mentre il padre le vorrebbe risposare con uomini ricchi, esigevano (e avevano avuto in Menandro) un trattamento molto delicato. In P. esse fanno un effetto molto convenzionale. Ma i tagli non servono soltanto a "sveltire" il dialogo: la Casina, come attesta sia l'epilogo stesso sia il prologo (che, se nella forma presente deriva da una rappresentazione postuma, risale nella parte essenziale al poeta stesso), è stata privata di un personaggio e, in conseguenza di questo, troncata di tutta l'ultima parte: "egli, non lo aspettate, oggi in questa commedia non ritornerà in città: P. non lo ha voluto, ha spezzato un ponte ch'era sulla sua strada"; "spettatori, vi diremo quello che avverrà dietro le scene: Casina qui presente sarà riconosciuta figlia qui del vicino e si sposerà con Eutinico, figliuolo del nostro padrone". P. ha svolto qui tanto ampiamente la parte lirica che questa volta non gli è rimasto spazio per condurre a fine l'azione e l'ha troncata.
Non si potrebbe confessare con più disinvoltura quell'arbitrarietà che è propria del vero uomo di teatro (che la parte lirica, eccezionalmente lasciva, sia qui libera invenzione di P. o derivi dalla farsa romana di origine campana, l'Atellana, non è né dimostrato né credibile).
Tagli, dunque, in un caso speciale ma non isolato: anche l'Epidicus è troncato in fine: evidentemente, il pubblico romano, quando vedeva dove l'azione andava a parare, diveniva impaziente. Nell'Epidicus il taglio serve anche a eliminare il matrimonio tra due fratelli consanguinei, lecito agli Ateniesi, per i Romani incestuoso.
I tagli sono per lo più compensati da aggiunte. La maggior parte di esse serve, come abbiamo veduto, al fine comico; altre al fine lirico musicale: sono, si direbbe, librettistiche. Tutto un gruppo è indirizzato a dare spicco alla parte del servo. Un servo che organizza tiri birboni ed è orgoglioso della sua maestria e potenza e ne mena vanto, e, alla fine, scoperto, è piuttosto premiato che punito (l'Epidicus finisce: "questi è colui che si è conquistata la libertà con la sua malizia") era estraneo ai Romani, popolo in questo tempo ancora di severa disciplina familiare e sociale; ma, appunto perché estraneo, riusciva loro interessante e divertente. E proprio nelle parti di servi gli accenni a istituzioni, particolarmente militari, romane tradiscono l'aggiunta sistematica: molto spesso lo schiavo furbo confronta sé stesso con un generale vittorioso cui è stato o sarà decretato il trionfo: proprio in queste parti abbondano solenni formule sacrali romane. Qui, e spesso anche altrove, P. ha aggiunto di suo o allargato monologhi dell'originale. Le aggiunte di P. non investono, di solito, la struttura della commedia; ma vi sono eccezioni: non forse la Casina, ma, com'è stato dimostrato di recente, il Rudens: l'originale di Difilo è stato qui trattato da P. e, con molta maggior libertà ch'egli non soglia, rifatto; e parimenti lo Pseudolus: qui le aggiunte drammatiche servono appunto a dare più spicco alla parte del servo furbo.
Il pubblico romano doveva essere, lo abbiamo veduto, assetato di azione quanto di musica. La "nuova" offriva molta caratteristica, molta raffinatezza psicologica, anzi psicologistica, non molta azione, o azione che si svolge un po' a rilento. Dall'un canto, P. taglia spesso personaggi ed episodî: il che solo a prima giunta può sembrare contraddire a quel che osserviamo: tali tagli rendono l'azione più rapida, più spedita; mirano cioè a quel fine d'intensificazione che domina il procedimento del poeta rispetto agli originali. Dall'altro, egli osa talvolta inserire in una commedia scene tratte da un altro originale o anche combinare l'azione di due originali. I nemici di Terenzio, rinfacciandogli questa stessa operazione, usano per essa l'espressione oltraggiosa contaminare, qualcosa come "confondere": quest'espressione è rimasta senza più intenzione ingiuriosa nell'uso filologico anche odierno, perché non ve n'è altra tramandata dall'antichità. Terenzio e i suoi nemici sanno che avevano contaminato Nevio, Ennio, Plauto: la contaminatio non è dunque un'invenzione di Plauto, ma è antica, si può dire, quanto la commedia latina, perché risponde a un bisogno che tanto era più forte nel pubblico romano quanto più si risale nel tempo.
Le testimonianze terenziane sono a noi preziose, ma è certo che, mentre il lettore comune non scorge le suture, la filologia classica avrebbe scoperto certe contaminazioni plautine anche senza bisogno di documenti. In una delle più celebri delle sue commedie, il Miles gloriosus, P. adopra quasi in pari misura un 'Αλαζών (Vantatore) e una commedia in cui la trovata principale era un'apertura celata che congiungeva due case, sicché una donna potesse figurare alla svelta presente o assente nell'una e nell'altra: nel Miles è inserita anche, ed è caso unico, una scena da un terzo originale. Così pure due originali paiono sfruttati con pari o quasi pari larghezza nel Poenulus (uno dei due è il Καρχηδόνιος, "Cartaginese", menandreo). Questi due sono gli esempî insieme più sicuri e più chiari, e il loro studio, mentre rende possibile una ricostruzione, se non completa, molto estesa degli originali, lumeggia anche bene l'arte drammatica di Plauto, la quale affronta problemi difficili e li risolve, se non totalmente, almeno abilmente. In limiti più ristretti, la contaminazione si tiene nelle Bacchides: dei tre inganni del servo Crisalo (Chrysalus), due derivano dall'originale menandreo che si chiamava appunto Δὶς (Bis decipiens) "il due volte ingannatore" e non "il tre volte ingannatore"; il terzo inganno deriva da un altro originale. Dubbia è la contaminazione per lo Pseudolus; da negare, sebbene sia stata affermata, per lo Stichus e l'Amphitru.
Evidenti e confessate aggiunte dell'impresario nei prologhi dell'Amphitruo, del Mercator, del Poenulus mostrano che le commedie di Plauto furono rappresentate di nuovo dopo la sua morte; il prologo della Casina, sebbene strutti il prologo autentico, è nel complesso la réclame o, per parlare in modo più antico, la conciliatio benivolentiae di un impresario per una rappresentazione tenuta verso il 160. In questo tempo, evidentemente, lo stato romano, rappresentato nei giuochi scenici dagli edili, accettò dai Greci del periodo ellenistico l'uso di unire con rappresentazioni di commedie nuove quelle di una commedia antica (παλαιά). Che qualche decennio dopo queste rappresentazioni M. Accio dovesse faticare per distinguere le commedie autentiche di P. dalle infinite che gli erano attribuite, mostra quanto valesse quel nome.
Quel che Accio tentò, riuscì a Varrone (v. sopra), gli riuscì forse oltre i suoi desiderî. È possibile che a noi, per colpa dell'indice varroniano, siano andate perdute commedie di Plauto autentiche, solo perché contestate da qualche critico. Ancora Cicerone ammira P.; Orazio, lo abbiamo veduto, lo aborre. Per lui, esteta raffinato, gli scherzi plautini sono troppo rozzi: per la metrica egli, che compone esclusivamente strofe semplicissime, schematiche, non ha simpatia, non ha forse neppure comprensione: la tradizione della polimetria e insieme dello stile musicale era a Roma durata ancor meno che in Grecia (v. metrica); essa era già morta al tempo di Terenzio, che poetò soltanto in metri recitativi. E i metri recitativi di P. dovevano a Orazio riuscire incomprensibili. Ma Orazio non dovette essere il solo del suo gusto: nell'età augustea rappresentazioni di drammi arcaici, specialmente così abbondanti di musica, è probabile che non si dessero; e P. scompare anche dalle mani dei lettori. Nelle quali ritorna nell'età dell'arcaismo antoniniano di Frontone e di Gellio: a questa risalgono gli argomenti premessi alle commedie. Un nuovo rifiorire d'interesse per P. si nota nella letteratura galloromana del sec. V. Poi P. scompare, per ricomparire nel Rinascimento; dapprima le commedie, che sono le prime otto nell'ordine (alfabetico, se pure non senza qualche spostamento) dell'edizione che ce le ha conservate; poi e altre dodici dal 1429 in poi. Plauto durante il Rinascimento domina di nuovo il teatro fino, si può dire, alla rivoluzione francese; lo domina negli originali e più ancora in imitazioni. Imitazione di P. è, si può dire, tutta la commedia italiana del Cinquecento; Molière s'ispira a P. nell'Avare e nell'Amphitryon. Nel sec. XIX egli non sembra esercitare grande influsso sulla cultura: meno comprensione che ogni altro hanno per lui i classicisti italiani della seconda metà del secolo, grettamente ciceroniani e intesi tutti a riprodurre, non a intendere, gli scrittori latini. Dispiace che in Italia sia troppo poco studiato lo scrittore latino più ricco di aceto italico.
Storia del testo e degli studî plautini. - Fonte ultima del testo di P. sono per noi non gli originali ma copioni: l'edizione a cui i nostri manoscritti in ultima analisi risalgono, contiene non solo, come abbiamo detto, prologhi modificati o scritti per rappresentazioni postume, ma anche doppie redazioni di versi singoli o d'intere scene. Essa è evidentemente stata condotta sui copioni con metodo alessandrino (v. edizione), cioè non eliminando i doppioni, ma allineandoli gli uni agli altri. La filologia romana si forma per opera di greci liberti di nobili famiglie, trasportando a Plauto i metodi inventati dagli Alessandrini per Omero e per il dramma attico. Quest'edizione dev'essere molto antica, perché non si può credere che copioni si conservassero a lungo anche dopo che le commedie non si rappresentavano più. Eppure la lingua di P. vi doveva già apparire falsata. Caratteristico è che le condizioni linguistiche sono diverse da commedia a commedia: vale a dire che modernizzazioni devono essere avvenute ancor prima che le commedie fossero raccolte in un'edizione. È probabile che i maggiori mutamenti siano avvenuti già tra P. e Accio, quando il testo non era ancora difeso dalle cure dei grammatici.
P. è a noi arrivato in un gruppo di manoscritti carolingi (sec. X-XII), la cosiddetta famiglia palatina, derivata per trascrizione meccanica da un capostipite medievale, e in un palinsesto ancora appartenente all'antichità (sec. IV?), l'Ambrosiano, spesso illeggibile e inutile. Tra questi manoscritti e l'edizione principe s'interpongono infiniti anelli. I due manoscritti presentano differenze notevolissime, non meccaniche, ma si accordano poi in corruttele anche meccaniche. Esse derivano da un'edizione commerciale della tarda antichità, sfigurata già da errori. Che questa derivi a sua volta da un'edizione dell'illustre filologo della fine del sec. I dell'era volgare, Valerio Probo, è per lo meno verosimile. Ma ognuno dei nostri due esemplari, come l'esemplare adoprato dal grammatico Nonio (v.) hanno lezioni peculiari, che devono avere preso da altre fonti. Ciascuno di questi tre codici rappresenta una mistura dell'edizione di Probo con lezioni, genuine o spurie, conservate quale dall'uno, quale dall'altro dei numerosi esemplari di Plauto che circolavano nell'età imperiale. Tali lezioni estravaganti (in parte, come si è detto, genuine) possiamo dimostrare che sussistevano non solo nell'età di Frontone e di Nonio ma in quella del grammatico Prisciano (sec. VI). Altre si sono al contrario perdute assai presto: uno dei più splendidi versi di Plauto si ricostruisce casualmente da una citazione di Varrone.
La filologia del sec. XIX (antesignano F. Ritschl) ha trovato m0d0 di ricostruire metodicamente il testo di P. ben oltre le testimonianze della tradizione diretta e indiretta. Questo lavoro si fonda per buona parte sulla osservazione dell'ordine delle parole, che in P. non è mai arbitrario. La fonetica e la morfologia sono state restituite sul fondamento delle epigrafi arcaiche. Nell'ultimo venticinquennio del secolo la considerazione sempre più accurata delle particolarità metriche e prosodiche, specialmente dei versi recitativi, ha fatto grandi progressi: benemeriti sono stati particolarmente A. Luchs, F. Skutsch, F. Marx e, sovra ogni altro, F. Leo, nella cui edizione si rispecchia l'attività filologica di molti decennî. Il lavoro è proseguito, oltre il Leo, per opera dei suoi scolari, particolarmente H. Jacobsohn, G. Jachmann, E. Fraenkel, e di scolari di scolari, H. Drexler, A. Thierfelder, O. Skutsch. La metrica conferma spesso l'emendazione suggerita dalla grammatica storica, e nel tempo stesso le segna limiti precisi; suggerisce anche essa stessa emendazioni. Ma il Leo ha insegnato anche a ricostruire con sicurezza gli originali attici delle riduzioni plautine, e ha così spianato la via a valutare l'arte di P. Questa è stata intesa, più profondamente che da ogni altro, da E. Fraenkel, il quale ha chiarito e al tempo stesso delimitato magistralmente quanto in essa sia di originale. Ha intrapreso ora a caratterizzare, con sicurezza di gusto, gli originali attici G. Jachmann. Lo studio di P. è altrettanto importante per intendere lo spirito dei Romani del principio del sec. II in tutta la sua gioconda freschezza, come per capire il mondo attico dell'età ellenistica nella sua umanità stanca ma raffinata.
Ediz.: L'edizione migliore di P. è quella del Leo (Berlino 1895-96), esaurita; è meno buona, sebbene disponga di nuovi sussidî manoscritti quella di W. M. Lindsay, Oxford 1903. Mantiene, accanto a queste, il suo valore per la raccolta della tradizione la maior di Ritschl, G. Götz, G. Löwe, Fr. Scholl (Lipsia 1871-94). Le edizioni commentate sono per lo più di valore modesto; così quella di tutto P. con commento latino del danese J. L. Ussing (Copenaghen 1875-86). La migliore edizione scolastica è quella dei Captivi di W. M. Lindsay, Londra 1900; ricchissima quella commentata del Rudens di Fr. Marx, Lipsia 1928, ma è necessario adoperarla con vigile senso critico.
Bibl.: Nei manuali P. è trattato in modo insoddisfacente: anche l'art. di P. Sonnenburg in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIV, 95-126 non è del tutto sufficiente Ottima valutazione della sua arte solo in F. Leo, Geschichte der römischen Literatur, I, Berlino 1913, p. 93 segg. Dei lavori di R. Ritschl sono ancora capitali, Parerga plautina et terentiana, Lipsia 1845 e i Prolegomeni al Trinummus, ivi 1848; altri scritti minori, sono raccolti negli Opuscula, ivi 1866-1879. Orientano sul problema generale plautino e, si può dire, su ogni singolo problema, F. Leo, Plautinische Forschungen, Berlino 1895; 2ª ed., 1912; E. Fraenkel, Plautinisches im Plautus, ivi 1922; G. Jachmann, Plautinisches und Attisches, ivi 1931: non vi è nella letteratura nessun altro scrittore sul quale siano state pubblicate opere di tanta importanza che si continuano e s'integrano a vicenda così felicemente. - Sul nome di P., oltre a Leo, in Abhandl. d. Ges. d. Wiss. zu Göttingen, Phil.-Hist. Kl., n. s., V, 2 (1904), p. 81 segg. e E. Fraenkel, ibid., p. 32; v. anche W. Schulze, Zur Geschichte d. lateinisch. Eigennamen, ibid., p. 298. - Sulla relazione cronologica tra Mostellaria e Captivi, G. Pasquali, in Riv. di fil. class., LV (1927), p. 24 segg. La lettera del chierico ottoniano (v. sopra), in Philologus, LXXXVII (1932), p. 114 segg. (ne ha tratto conseguenze per la Cistellaria E. Fraenkel, ibid., p. 117). - Sull'unità e sulla varietà dello stile, H. Haffter, Untersuch. zur altlatein. Dichtersprache, Berlino 1934. Sulla composizione delle Bacchides, E. Fraenkel, De media et nova comoedia quaetiones selectae, Gottinga 1912, p. 100 segg.; su quella dello Pseudolus, da ultimo F. Klingner, in Hermes, LXIV (1929), p. 110 segg.; G. Jachmann, in Philologus, LXXXVIII (1923), p. 443 segg.; H. Fuchs, ibid., LXXXIX (1934), p. 258 segg. Sul Rudens (dopo Jachmann), H. Drexler, in Philologus, suppl. XXVI, ii (1934), p. 41 segg. Sulla mescolanza di concezioni religiose greche e romane in P., particolarmente nella Mostellaria, G. Pasquali, in Studi it. di fil. class., n. s., VII (1929), p. 314 segg.; L. Banti, ibid., VIII (1930), p. 67 segg. (non del tutto soddisfacente). Servirsi di P. quale fonte per la storia del diritto romano è compito singolarmente difficile, perché istituzioni indigene figurano solo in aggiunta agli originali o in sostituzione d'istituzioni greche citate negli originali: O. Fredershausen, De iure plautino et terntiano, Gottinga 1906 e in Hermes, XLVII (1912), p. 190 segg. e il saggio esemplare sul Persa del giurista J. Partsch, in Hermes, XLV (1910), p. 595 segg. La bibliografia sui cantica di P., sulla prosodia e la metrica, in metrica, XXIII, p. 106; aggiungi colà: H. Jacobsohn, Studia plautina, Gottinga 1904; F. Skutsch, Plautinisches und Romanisches, Lipsia 1892 e Kleine Schriften, ivi 1914; O. Skutsch, Prosodische und metrische Gesetze der Jambenkürzung, Gottinga 1934. - Sulla storia del testo, G. Pasquali, Storia della tradiz. e critica del testo, Firenze 1934, p. 331 segg.