plebe
Termine che indica quella parte del popolo di Roma antica che non godeva di tutti i diritti cittadini, dei quali era invece investito il patriziato. La divisione della cittadinanza in patrizi e plebei traeva origine, secondo gli antichi, dall’opera del legislatore, attribuendosi a Romolo la creazione di cento senatori, che si dissero patres, i cui discendenti furono detti patrizi. Presso i moderni la questione è stata molto dibattuta: alcuni adottarono come criterio della separazione la differenza etnica e videro nella p. i popoli soggiogati (secondo B.G. Niebuhr i latini sottomessi da Anco Marcio; altri contrapposero a un patriziato sabino o etrusco una p. latina o a un patriziato albano una p. sabina); secondo T. Mommsen la p. deriva dalla clientela che in un dato momento si rese autonoma dai patrizi. Storici successivi hanno ritenuto che la distinzione tra patriziato e p. sia secondaria e conseguenza della differenziazione economica e sociale: il patriziato era una nobiltà fondata sulla ricchezza terriera, che poteva per la sua superiorità economica armarsi meglio e in compenso aveva di fatto il governo dello Stato, riuscendo poi ad averlo anche di diritto; di fronte a questa nobiltà rimase la massa (plebs) formata da piccoli proprietari, artigiani, commercianti, che dovette conoscere un particolare incremento sotto la monarchia etrusca dei Tarquini. La sanzione definitiva della separazione degli ordini si ebbe col divieto di diritto di connubio tra patrizi e plebei. Dopo la serrata del patriziato la p. si organizzò come un’altra comunità a sé e ricorse, con le secessioni, alla minaccia di separarsi addirittura dalla comunità romana. L’elemento motore di questa organizzazione fu il tribunato della p., che ebbe origini nel 5° sec. (data tradizionale: 494 a.C.); la p. eleggeva i tribuni e si era impegnata con giuramento a procedere con ogni mezzo contro chiunque li offendesse: essi erano perciò sacrosancti e intangibili e il loro intervento (intercessio) arrestava gli atti dei magistrati. Dai tribuni la p. era convocata in assemblee (concilia), nelle quali eleggeva i propri capi e prendeva deliberazioni, scita (plebiscita): queste avevano valore per la sola p., ma in base alla legge del dittatore Ortensio, del 286 a.C. (che seguì l’ultima secessione della p. sul Gianicolo), esse obbligavano l’intero popolo (tale diritto, secondo la tradizione, sarebbe stato già consacrato nelle leggi dei consoli Valerio e Orazio, del 449, e dal dittatore Publilio Filone, nel 339, ma queste leggi, e soprattutto la prima, sono messe in dubbio dai moderni). La storia interna di Roma repubblicana è in buona parte la lotta della p. per il raggiungimento della parità di diritti col patriziato. Fin da tempo molto antico i plebei potevano essere ufficiali dell’esercito (tribuni militum), e membri aggiunti del senato (conscripti), senza diritto però a partecipare all’approvazione degli atti dei comizi. La codificazione delle XII tavole (450) sottrasse l’interpretazione del diritto consuetudinario ai magistrati patrizi. Il plebiscito Canuleio (445) abolì il divieto di connubium tra plebei e patrizi. L’ammissione alla magistratura si iniziò nel 444 col deferimento della potestà consolare a tribuni militum consulari potestate che potevano essere anche plebei; le leggi Licinie-Sestie (367) riservavano ai plebei uno dei posti di console e aprirono quindi anche le altre magistrature: il primo dittatore è del 356 (ma è dubbio; forse il primo fu nel 314), il primo censore plebeo del 351, il primo pretore del 337; nel 172 si ebbero per la prima volta entrambi i consoli plebei, nel 131 due censori plebei. Più difficile fu l’accesso alle cariche sacerdotali: vittoria decisiva si ebbe col plebiscito Ogulnio (300 a.C.) che aumentò i pontefici da 4 a 8, stabilendo che 4 fossero plebei, mentre gli auguri passarono da 4 a 9, dei quali 5 dovevano essere plebei; nel 254 si ebbe il primo pontefice massimo plebeo. Così si arrivò non a un pareggiamento degli ordini, ma a un sistema di deroghe ai privilegi dei patrizi e all’affermazione di speciali diritti della p., che le dettero, sul piano tecnico-giuridico, una superiorità sul patriziato. Contemporaneamente le aspirazioni in campo sociale furono soddisfatte con altre leggi (particolarmente quelle per la limitazione dell’usura) e soprattutto con l’assegnazione delle terre conquistate. Le famiglie plebee salite alle massime magistrature e riconosciute come illustri (nobiles) formarono la nuova nobiltà patrizio-plebea.