Plotino
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Vissuto nel III secolo, Plotino considera se stesso come un interprete di Platone, alla cui autorità riporta le sue dottrine più importanti. Tra queste, la distinzione di tre principi metafisici caratterizzati da diversi livelli di unità (l’Uno assolutamente semplice, l’Intelletto, l’anima). Con la sua opera Plotino dà forma nuova ai temi tradizionali del pensiero classico (ad esempio l’intellettualismo o l’indagine sulle cause), preparando così la filosofia dei secoli che lo seguiranno.
Plotino è il maggiore filosofo della fine dell’antichità. A lui è usualmente ricondotta la nascita del neoplatonismo, l’orientamento filosofico che caratterizza i secoli dal III al VI; inoltre, la sua influenza (spesso indiretta) ha cruciale importanza nella trasmissione della filosofia classica alle epoche successive, tanto nel Medioevo arabo e latino quanto nell’età rinascimentale e moderna. L’edizione degli scritti plotiniani risale al 301 ca. ed è opera del discepolo Porfirio. Porfirio fa precedere all’edizione uno scritto che contiene la biografia di Plotino e il catalogo dei suoi scritti (comunemente noto sotto il titolo di Vita di Plotino [VP]). Da Porfirio sappiamo che Plotino non rivelava dettagli sulla sua vita: lo stesso luogo e la data di nascita sono ignoti (VP, 1.2-4). Fonti posteriori identificano la città natale di Plotino in Lico, o Licopoli, in Egitto; inoltre, a partire da informazioni contenute nella Vita di Plotino, si fissa la data di nascita al 205. A 28 anni Plotino si reca ad Alessandria (VP, 3.6-13); qui entra nella scuola di Ammonio Sacca dove rimane per undici anni (232-243). A 39 anni segue l’imperatore Gordiano III nella sua spedizione contro i Persiani. Dopo la sconfitta e la morte di Gordiano in Mesopotamia, trova rifugio ad Antiochia per poi arrivare a Roma (244), dove resta fino agli ultimi tempi della sua vita quando, malato, si stabilisce presso Minturno (VP, 2.15-23).
Negli anni della permanenza a Roma Plotino fonda un circolo intellettuale che raccoglie filosofi, letterati, ma anche politici e personalità influenti. È amico dell’imperatore Gallieno e della moglie Salonina; grazie alla loro influenza, cerca senza successo di costruire in Campania una città di filosofi retta secondo le leggi di Platone (Platonopoli). Plotino comincia a scrivere molto tardi (intorno ai 50 anni): per lungo tempo, infatti, egli si sente legato al voto di non divulgare per iscritto l’insegnamento di Ammonio Sacca che univa i suoi condiscepoli. Quando, nel 263, Porfirio arriva trentenne alla sua scuola, Plotino ha 59 anni e ha composto 21 trattati. Porfirio rimane cinque anni presso di lui, e a questo periodo risale la parte maggiore della produzione plotiniana (ossia i trattati 22-45). Gli ultimi trattati (46-54) sono composti dopo che Porfirio (consigliato da Plotino per combattere la melanconia che lo aveva condotto a meditare il suicidio, stando a quanto riferisce Porfirio stesso, ma forse anche per disaccordi con il proprio maestro) ha lasciato la scuola, nel 268, per recarsi in Sicilia. Plotino muore nel 270. A quanto sembra, Plotino non si reca mai ad Atene: anche da questo dettaglio si può misurare come egli viva in un mondo ormai del tutto mutato rispetto a quello della filosofia antica “classica”.
Porfirio riunisce gli scritti di Plotino in sei gruppi di nove trattati (le Enneadi), ordinati secondo il loro argomento. Inoltre, ciascun trattato è preceduto da un titolo che non risale a Plotino (come testimonia Porfirio, egli non apponeva titoli ai propri lavori). Nelle intenzioni dichiarate di Porfirio (VP, 24-26) la prima Enneade include i trattati di prevalente argomento morale, la seconda gli scritti di fisica, la terza i trattati cosmologici, la quarta gli scritti sull’anima, la quinta quelli sull’Intelletto e la sesta trattati che vertono principalmente sull’Intelligibile e sull’Uno (anche se Porfirio non fornisce un’indicazione riassuntiva dell’argomento dell’ultima Enneade). Inoltre, Porfirio indica scrupolosamente anche l’ordinamento cronologico in cui i trattati sono stati composti (VP, 4-6). Insieme a Platone, Plotino è dunque l’unico filosofo antico di cui siano pervenuti tutti gli scritti; tuttavia, diversamente da ciò che accade per Platone, l’ordine di composizione dei trattati plotiniani è perfettamente noto: questo permette di interpretare la sua opera in condizioni estremamente favorevoli (e senza uguali per gli autori antichi). Porfirio informa di aver raggruppato gli scritti del maestro in tre codici (somatia: VP, 26.3): il primo comprende le Enneadi I-III, il secondo le Enneadi IV-V e il terzo l’Enneade VI. Questa divisione è riprodotta nelle due edizioni critiche di riferimento apprestate da Paul Henry e Hans Rudolf Schwyzer (Plotini opera, editio maior, 3 voll., 1951-1973; editio minor, 3 voll., 1964-1982). Il metodo usuale di citazione degli scritti plotiniani tiene conto sia dell’ordine cronologico sia di quello sistematico e include le seguenti informazioni: il primo numero (romano) indica l’Enneade, il secondo numero il trattato; segue, tra parentesi, l’indicazione del numero che corrisponde all’ordine cronologico; quindi, viene indicato il capitolo (la divisione in capitoli risale alla traduzione latina di Marsilio Ficino, 1492) e, infine, sono riportate le linee (la numerazione delle linee segue l’editio minor di Henry Schwyzer).
Plotino presenta se stesso come un “esegeta”: in V 1 [10], 8.10-14 egli afferma, in rapporto alla sua teoria dei tre principi metafisici, che si tratta di “riflessioni” (logoi) enunciate fin dall’antichità, anche se in modo soltanto “implicito”: le riflessioni che egli presenta adesso sono l’interpretazione (exegetai) di quelle antiche e la testimonianza che conferma l’antichità di esse sono gli scritti di Platone. In IV 8 [6], 1.23-28 è addotta un’altra ragione per spiegare il lavoro esegetico, ossia l’apparente contraddizione sussistente nelle affermazioni di Platone, il quale in più luoghi (il passo contiene richiami a Fedone, Fedro, Cratilo e Repubblica) biasima l’arrivo dell’anima nel corpo, mentre nel Timeo loda il cosmo sensibile, a cui l’anima è stata data dal demiurgo affinché fosse dotato di intelligenza. Plotino risolve il dilemma distinguendo la condizione rispetto al corpo dell’anima cosmica da quella dell’anima individuale. I due passi ora richiamati mostrano come Plotino riporti all’esegesi di Platone alcune delle sue tesi più significative (la distinzione dei principi metafisici e la relazione dell’anima con il corpo). In IV 8 [6] e V 1 [10] non è d’altronde soltanto Platone a essere invocato come autorità: Plotino si richiama a un’intera serie di filosofi “antichi” al cui interno, tuttavia, Platone ha una posizione privilegiata (significativamente, in numerosi trattati Plotino prende esplicitamente le mosse da questioni relative alla dottrina di Platone o dall’interpretazione di passi o formule problematici).
Questo atteggiamento di fondo, nel quale filosofia ed esegesi sono unite in modo particolarmente stretto, si impone gradualmente tra le tradizioni filosofiche di età imperiale e tardo-antica (in particolare il platonismo e l’aristotelismo) a partire dal I secolo a.C. All’epoca di Plotino la “svolta esegetica” è ormai un fatto compiuto: per questo Plotino ritiene che “innovare” sia una pratica sostanzialmente negativa (cfr. le osservazioni polemiche contro gli gnostici in II 9 [33], 6.5-12) e che la vera filosofia consista nell’interpretazione corretta di Platone. Tutti questi elementi collegano Plotino agli autori platonici o platonizzanti che lo avevano preceduto almeno dal I secolo a.C. in poi (si tratta dunque degli esponenti di quella generale corrente di pensiero che gli interpreti moderni chiamano “medioplatonismo”, al fine di distinguerla tanto dal platonismo di Platone e dei suoi immediati discepoli, quanto dal neoplatonismo). La filosofia plotiniana è stata spesso messa in parallelo con quella di autori precedenti, che sembrano per più versi anticiparne le principali acquisizioni: è questo il caso di Numenio di Apamea, le cui dottrine metafisiche sono percepite già dagli antichi come somiglianti a quelle di Plotino, tanto che questi è accusato di plagio (VP, 17-1-6) e di Moderato di Gades, un autore pitagorizzante del I secolo che, stando a quanto riporta Simplicio nel suo commento alla Fisica di Aristotele (in Phys. 230.34 sgg.), avrebbe anticipato l’interpretazione del Parmenide di Platone in senso teologico, poi fatta propria da Plotino. D’altra parte, sebbene nessun autore posteriore a Epicuro (cfr. II 9 [33], 15.8) sia menzionato esplicitamente nelle Enneadi, Porfirio (VP, 14.10-14) testimonia del fatto che nelle lezioni di Plotino erano letti gli scritti dei maggiori filosofi e commentatori platonici e aristotelici.
Un elemento che indubbiamente unisce Plotino ai platonici dei secoli precedenti è la polemica contro il corporalismo degli stoici, attaccato soprattutto nei primi trattati enneadici, quelli che più sembrano vicini a un comune retroterra “scolastico” condiviso da Plotino (si veda in particolare la discussione polemica della teoria stoica dell’anima in IV 7 [2], 8). Anche la figura di Ammonio Sacca, l’enigmatico maestro di Plotino ad Alessandria, potrebbe avere un ruolo rilevante per spiegare la genesi della filosofia plotiniana. In realtà, nulla di sicuro si sa del suo insegnamento, e il riferimento di Porfirio ad alcune “dottrine” di Ammonio non aiuta molto a chiarire la situazione. Tuttavia, secondo la testimonianza di Ierocle neoplatonico conservata dal patriarca bizantino Fozio, Ammonio avrebbe preso posizione sulla questione, dibattuta soprattutto nel platonismo del II secolo, di stabilire se vi fosse accordo tra le filosofie di Platone e di Aristotele, dirimendo il problema e dando alla questione una risposta affermativa. Il punto è di grande rilievo, poiché la filosofia aristotelica ha nelle Enneadi una posizione centrale. Plotino in realtà si esprime più volte polemicamente contro le tesi principali sostenute da Aristotele (per esempio sullo statuto dell’anima; sulla qualificazione del primo principio come “pensiero di pensiero”; sulla dottrina dell’essere e delle categorie; sulla concezione del tempo come “misura del movimento” ecc.), tuttavia l’uso di tesi e nozioni formulati da Aristotele e (come si può dimostrare attraverso l’analisi di passi paralleli) di commentatori peripatetici (in particolare Alessandro di Afrodisia) è costante nelle Enneadi. Per quanto possiamo ricostruire, Plotino sembra essere stato il primo filosofo platonico ad aver avuto una conoscenza estesa e profonda dei trattati aristotelici e delle opere dei commentatori di Aristotele. Se questo fatto dipenda dall’insegnamento di Ammonio Sacca è questione destinata a restare aperta (nulla comunque induce a credere che Ammonio avesse un’approfondita conoscenza di Aristotele). Sicuramente un’importanza decisiva per la costruzione della filosofia plotiniana ebbe l’interpretazione di Aristotele elaborata dal commentatore Alessandro di Afrodisia, le cui tesi spesso costituiscono l’ossatura delle argomentazioni plotiniane, anche quando Plotino ne respinge le conclusioni (si veda per esempio IV 3 [27], 20 sul rapporto anima-corpo, oppure VI 3 [44], 5-8 sulla concezione della sostanza sensibile).
Due ultimi aspetti vanno considerati. Sicuramente Plotino conosce bene le correnti religiose e spirituali del suo tempo e, in particolare, Porfirio (VP, 16) attesta che le sue lezioni a Roma sono frequentate anche da gnostici, identificati da Porfirio come degli “eretici cristiani”. In base a queste notizie, e paragonando passi enneadici con i trattati gnostici superstiti, alcuni dei quali contengono effettivamente allusioni a dottrine platonizzanti, si è talora supposto che temi distintivi della filosofia plotiniana (la stessa lettura metafisica del Parmenide) siano “anticipati” dalla spiritualità gnostica. La questione rimane controversa, sia per l’incerta datazione delle fonti gnostiche, sia per la difficile valutazione del loro contenuto. Tra tante ipotesi proposte, l’unico fatto certo è che Plotino dedica agli gnostici un trattato (II 9 [33]) nel quale ne critica le speculazioni teologiche alla luce della sua metafisica platonica, in quanto sarebbero portatrici di opinioni irrazionali e rozzamente antropomorfiche: se è vero dunque che gli gnostici si richiamano a Platone, lo fanno però in modo fuorviante (II 9 [33], 6). Non sembra dunque corretto esagerare l’importanza dello gnosticismo nella genesi della filosofia plotiniana. Uguale (e anzi maggiore) prudenza è necessario usare quando si mettono in luce possibili contatti tra Plotino e le tradizioni orientali. Come si è visto, Porfirio testimonia dell’interesse di Plotino per le filosofie dei Persiani e degli Indiani. In passato, alcuni interpreti (Émile Bréhier in particolare) sono arrivati a postulare l’esistenza di un decisivo influsso orientale sulla filosofia plotiniana: sarebbe proprio questo a spiegarne alcuni aspetti tipici (in particolare l’unione dell’anima individuale con l’Uno). Tuttavia, è molto difficile individuare i punti precisi in cui nelle Enneadi emergerebbero le dottrine orientali apprese da Plotino ed è altrettanto possibile spiegare gli esiti mistici come il risultato di una lettura originale della tradizione filosofica greca alla quale Plotino esplicitamente si richiama.
Tra le dottrine che Plotino presenta come risultato della interpretazione di Platone vi è la sua distinzione di tre principi metafisici (comunemente denominati da “ipostasi”, termine che però Plotino generalmente non usa in questa accezione), che corrispondono a tre gradi diversi di unità: (1) l’Uno (hen) assolutamente semplice; (2) l’Intelletto, dove la molteplicità delle forme è perfettamente unificata senza alcun condizionamento spazio-temporale (l’Intelletto è dunque “uno-molti”, hen polla: cfr. V 1 [10], 8.26; V 3 [49], 15.11 ecc.); (3) l’anima, ossia il principio intelligibile inferiore nella gerarchia e che presenta un grado maggiore di molteplicità (l’anima è “uno e molti”, hen kai polla: cfr. V 1 [10], 8.26). In V 1 [10], 8.23-26 Plotino afferma che i tre principi corrispondono alle tre prime ipotesi sull’Uno formulate nell’esercizio dialettico di Parmenide nella seconda parte dell’omonimo dialogo di Platone. L’interpretazione in chiave metafisica del Parmenide di Platone, che fa corrispondere la gerarchia dei principi alle ipotesi sull’Uno formulate nel dialogo, è uno tra gli aspetti caratteristici del pensiero plotiniano e uno di quelli che più influiscono sul platonismo successivo, giacché essa è ripresa e sviluppata dai neoplatonici a partire da Porfirio e fino agli ultimi esponenti della scuola di Atene. Si tratta, inoltre, di un punto dottrinale che separa Plotino e i suoi successori rispetto agli autori che li avevano preceduti, giacché nel cosiddetto “medioplatonismo” il Parmenide era per lo più interpretato come un dialogo logico, non teologico, mentre il dialogo di riferimento era il Timeo. Sebbene il Timeo abbia per lo stesso Plotino una posizione centrale e sia fatto oggetto di continue allusioni, la lettura in chiave teologica del Parmenide e la decisa impostazione metafisica (più che cosmologica) appaiono come elementi caratterizzanti e innovatori del suo platonismo (ciò non vuol dire che non si possano trovare paralleli nella tradizione più antica; tuttavia, la valutazione delle testimonianze rimane assai controversa e, nell’insieme, le analogie con la lettura plotiniana del Parmenide sono piuttosto limitate).
Oltre che per la discussione dialettica sull’Uno, la ricezione del Parmenide in Plotino è importante anche per quanto riguarda la prima parte del dialogo, quella in cui sono discusse alcune aporie che riguardano la dottrina delle idee. In VI 4-5 [22-23] Plotino si riallaccia esplicitamente alle difficoltà sollevate nel Parmenide e cerca di elaborare una dottrina delle cause intelligibili capace di resistere a quelle obiezioni. L’idea generale che presiede alla metafisica di Plotino può essere così delineata: (1) occorre postulare delle cause extrafisiche del mondo sensibile, poiché la realtà materiale non ha in se stessa il principio della propria esistenza e della propria intelligibilità; (2) le cause autentiche non devono in alcun modo essere concepite basandosi sui corpi, sulla loro struttura e sul loro modo d’essere: è necessario invece concepire gli intelligibili in accordo ai loro “principi adeguati” (ex archon oikeion: VI 5 [23], 2.5-6, una formula che Plotino desume dagli Analitici secondi di Aristotele). Solo in questo modo saranno evitate le difficoltà relative alla dottrina delle idee denunciate già da Platone e poi sviluppate da Aristotele.
In particolare, Plotino sottolinea (prendendo le mosse da Parm., 131b) che nelle realtà autentiche e incorporee coesistono due aspetti incompatibili nel mondo dei corpi: da un lato l’unità più forte, che Plotino (facendo uso di terminologia aristotelica) assimila all’unità numerica; dall’altro il fatto di essere presente “ovunque” (pantachou, cfr. VI 5 [23], 1.1). L’onnipresenza degli intelligibili fa riferimento a una duplice condizione: da un lato essa indica che la molteplicità nell’essere intelligibile è una totalità perfettamente coesa e priva di condizionamenti spaziali, diversa dunque dalla molteplicità corporea composta di parti spazialmente distinte ed esteriori le une alle altre; dall’altro indica la presenza delle sostanze intelligibili alle realtà sensibili che ne dipendono. Una simile presenza ha luogo senza che gli intelligibili perdano, in virtù di essa, unità e interpenetrazione reciproca; senza, cioè, che, per il fatto di essere presenti ai corpi, gli intelligibili divengano estesi e spazialmente localizzati.
Al vertice della realtà Plotino situa l’Uno, un principio assolutamente semplice, posto al di sopra di ogni cosa, anche dell’essere e del pensiero (I 7 [54], 1.18-20; V 3 [49], 15. 8-9; V 6 [24], 6.30; VI 7 [38], 42.8-15;); l’Uno è indicibile e di esso non è possibile affermare nessun contenuto, tanto che Plotino è usualmente considerato come il primo esponente della “teologia negativa”. Proprio perché dà origine a tutte le cose e ne è dunque “potenza” generatrice (dynamis ton panton: III 8 [30], 10.1-2), l’Uno non è niente di ciò che dipende da esso. Sicuramente, la dottrina del primo principio è centrale in Plotino, ma non va isolata dagli altri temi che compongono la sua filosofia. In effetti, la dottrina dell’Uno non è, per così dire, la premessa da cui discende tutto il resto, ma la conseguenza ultima di determinati presupposti che regolano l’intero sistema filosofico di Plotino. Postulare l’Uno come primo principio è difatti l’esito estremo a cui conduce l’impostazione metodologica prima delineata relativa alla dottrina delle cause. Il mondo intelligibile è la prima e più perfetta tra le cose che sono, il principio primo dentro la totalità dell’essere (VI 2 [43], 1.25-33). Di conseguenza, il mondo intelligibile non può essere il principio primo di ogni cosa: come si è già detto, Plotino (V 1 [10], 9.7-27) critica Aristotele per aver chiamato il primo principio “pensiero di pensiero”, compromettendo così la sua assoluta semplicità. In effetti, in virtù della tesi generale dell’eterogeneità assoluta della causa, in cima a tutto – anche al sopra di ciò che “è” in senso più alto – vi deve essere qualcosa che non è niente di ciò che dipende da esso (neanche essere e pensiero).
“L’Uno dunque non è Intelletto, ma è prima dell’Intelletto: l’Intelletto, infatti, è qualcosa tra gli enti, ma quello non è qualcosa, ma prima di ogni cosa; e non è neanche Essere, giacché l’Essere ha, in qualche modo, una forma, proprio quella dell’Essere, mentre quello è privo di forma (amorphon), anche della forma intelligibile. La natura dell’Uno, essendo generatrice di tutte le cose, non è nessuna di esse. Non è “qualcosa”, né di una qualità, né di una quantità, né Intelletto, né anima: non è in movimento e neanche in quiete, non è in un luogo né in un tempo (cfr. Platone, Parm., 139b 3, 138b 5, 141a 5), ma in sé e per se stesso, di un’unica forma (cfr. Platone, Symp., 211b 1; Phaed. 78d 5-6) o piuttosto è privo di forma (aneideon), dal momento che è prima di ogni forma, prima del movimento, prima della quiete: questi, infatti, appartengono all’Essere e lo rendono molteplice” (VI 9 [9], 3.36-45).
Tutte le cose che sono “sono” dunque in virtù dell’Uno, un principio superiore all’Essere (VI 9 [9], 1.1). Chiamarlo “Uno” indica soltanto la completa soppressione del molteplice, non l’attribuzione di un carattere positivo. Plotino menziona, approvandola, l’opinione dei pitagorici, i quali indicavano simbolicamente l’Uno con il nome di Apollo per via della negazione del molteplice (il nome proprio Apollon deriverebbe così dall’espressione a-pollon). In realtà, dunque, “Uno” può applicarsi solo con cautela al primo principio, e lo stesso vale a maggior ragione per l’altra qualificazione che Plotino riferisce ad esso, ossia quella di “Bene”. La fonte di questo uso è la definizione platonica dell’idea del Bene “al di là dell’Essere (epekeina tes ousìas) per dignità e potenza” (Resp. VI 509b). In effetti, Plotino assimila lo statuto dell’Uno assoluto teorizzato nella prima ipotesi Parmenide a quello dell’idea del Bene teorizzata nella Repubblica: entrambe queste descrizioni si riferiscono al primo principio (V 5 [32], 6.10-12). Il “Bene”, comunque, non è una forma, un attributo o un nome dell’Uno che ne determina positivamente il contenuto. Anche quando affermiamo che l’Uno è causa, non stiamo predicando un attributo di esso, ma piuttosto di noi. Tuttavia, talora Plotino è incline ad ascrivere pur sempre dei caratteri “positivi” all’Uno, particolarmente quando si interroga sul modo in cui esso esercita la propria funzione causale (cfr. VI 8 [39] Sulla volontarietà e la volontà dell’Uno). In questo caso, Plotino attribuisce al principio una particolare forma di volontà e autocausalità, anche se sottolinea comunque l’estrema difficoltà di un simile tentativo e ne mette in rilievo il carattere intrinsecamente aporetico.
Si tratta ora di spiegare come l’Uno possa generare ciò che dipende da esso. Plotino lega la capacità di produrre altro da sé alla natura stessa dei principi. Si tratta della cosiddetta dottrina della “doppia attività (energeia)”, basata su concetti aristotelici che, come di consueto, egli riprende e modifica in modo profondo. Esiste un’attività propria della natura di qualcosa e una che deriva da questa natura; la prima attività è “in atto” la cosa stessa, mentre l’attività derivata è distinta dalla cosa e consegue dalla sua sostanza. Il secondo atto procede dal primo come una conseguenza e, mediante l’atto secondo, ciò che è causa è capace di lasciare in altro la sua traccia. L’efficacia causale discende dunque semplicemente dalla natura delle realtà che sono cause, non da un’azione volontaria e deliberata (tutti elementi che Plotino non considera positivamente perché inevitabilmente imperfetti e collegati al mondo sensibile). Per chiarire questa dottrina, Plotino ricorre all’esempio del fuoco: c’è un calore che costituisce la sua sostanza e un calore derivato dal primo, che si propaga all’esterno e mediante cui il fuoco esercita la sua attività. La teoria della doppia attività è destinata a spiegare la derivazione in ogni grado della gerarchia plotiniana, anche la derivazione dell’Intelletto dall’Uno; tuttavia, nel caso del primo principio vi sono particolari difficoltà perché, come si è visto, l’Uno non è determinabile da alcun predicato e dunque non si comprende bene che cosa possano essere la sua “sostanza” o la sua “attività prima”.
Restano molti problemi aperti, oggetto di discussione tra gli interpreti, ma si può comunque proporre il seguente schema sommario: (1) dall’Uno procede “per sovrabbondanza” qualcos’altro: un’attività illimitata e secondaria che non è ancora l’Intelletto ma è la potenza generatrice da cui esso emerge; tale attività viene anche detta da Plotino “vita indeterminata” (VI 7 [38], 17.14-15) ed è talora identificata con la “diade indefinita”, ossia il principio di molteplicità e indeterminatezza la cui esistenza era stata formulata nella tradizione platonica e pitagorica più antica; (2) l’attività secondaria e illimitata scaturita dall’Uno si rivolge verso l’Uno da cui deriva con una sorta di “conversione” (epistrophe: cfr. V 1 [10], 7.5). Plotino parla a questo proposito di una “vista che ancora non vede”, di una visione incompiuta e senza oggetto, di uno sguardo privo di comprensione e indefinito. L’“altro” che proviene dall’Uno per sovrabbondanza non è ancora un Intelletto, ma lo diviene quando si rivolge all’Uno; in un primo momento, questo sguardo è ancora incompiuto e l’Intelletto è dunque in una sorta di stato incoativo; (3) quando lo sguardo si compie, allora l’“altro” che viene dall’Uno diventa Intelletto: lo sguardo, però, vede l’Uno non in quanto tale, ma sotto forma di una molteplicità che costituisce il mondo intelligibile, ossia la molteplicità delle Forme ideali. In questo modo, l’Intelletto perviene a quella contemplazione di sé che ne costituisce la natura. Le Forme ideali non si originano pertanto a partire da un modello preesistente (l’Uno non è il paradigma degli intelligibili), ma mediante l’atto di conversione e limitazione dell’attività secondaria dell’Uno, il quale (agendo come un principio formatore) rimane tuttavia in se stesso indeterminato e indeterminabile (l’Uno è principio delle forme proprio in quanto è in se stesso privo di forma). Il processo di generazione dell’Intelletto non dovrebbe avvenire nel tempo, e, in effetti, Plotino ha premura di puntualizzare che i momenti distinti avvengono non in successione, ma “eternamente”. Tuttavia, sembra difficile ammettere che le fasi distinte nella generazione dell’Intelletto possano aver luogo se non in una pluralità di momenti successivi.
L’Intelletto o Essere è il secondo principio nella gerarchia; in esso trovano posto le Forme intelligibili “platoniche”, le quali sono interpretate da Plotino come gli atti di pensiero che costituiscono l’Intelletto divino. Plotino cita il frammento di Parmenide per cui “la stessa cosa è pensare ed essere”, del quale egli ritiene di esprimere il senso autentico con la sua dottrina dell’Intelletto. Tuttavia, sono soprattutto tesi formulate da Platone e Aristotele, ripensate e trasformate da Plotino, a costituire ancora una volta l’impalcatura della sua concezione. Dal Sofista di Platone, Plotino trae l’esigenza di stabilire una connessione tra le Forme che costituiscono il mondo intelligibile individuando i principi che regolano la loro relazione reciproca.
I “generi sommi” (cfr. Platone, Soph., 254d) – essere, identico, diverso, movimento, quiete – diventano così in Plotino i concetti fondamentali che definiscono la peculiare struttura dell’Intelletto, nella quale unità e molteplicità sono perfettamente coese e interpenetrate. Ancora dal Sofista, ma anche dal Timeo, Plotino poteva desumere la tesi generale secondo cui all’Essere supremo vanno attribuiti movimento, vita e pensiero: il cosmo ideale è dunque concepito come un vivente perfetto nel quale si trovano i paradigmi intelligibili. Quanto ad Aristotele, Plotino è profondamente debitore alla teologia di Metafisica XII, nella quale dio è concepito come pensiero di pensiero, atto e vita, tutte qualificazioni del Nous plotiniano (ma, come si è visto, non del primo principio, l’Uno). Tanto la tradizione platonica quanto la tradizione aristotelica, poi, avevano elaborato prima di Plotino concezioni che sono presupposte dalla sua dottrina dell’Intelletto. In particolare, la dottrina medioplatonica secondo cui le Idee sono pensieri di dio è un antecedente con cui Plotino indubbiamente si confronta anche se il suo contributo originale è determinante.
L’Intelletto plotiniano è “tutte le cose insieme” (homou panta), e la sua struttura rappresenta il massimo grado possibile di unificazione della molteplicità (III 6 [26], 6.23; IV 2 [2], 2.44; V 3 [49], 15.21; 17.10; VI 4 [22], 14.4-6; VI 7 [38], 33.8 ecc.). La caratterizzazione di questa conoscenza intellettuale “archetipa” occupa notevole estensione nei trattati plotiniani ed è stata fatta oggetto di ripetute analisi approfondite. La conoscenza dell’Intelletto divino è originaria, rivolta a se stessa e priva di successione. Il pensiero e il pensato vi coincidono, nel senso che il pensato stesso, ossia ogni Idea, è a sua volta intelletto. Di conseguenza l’Intelletto può pensare una molteplicità di contenuti senza avere per questo rapporto con qualcosa di esteriore a sé: non solo infatti il pensiero coglie l’essenza di ciò che è pensato, ma l’essenza del pensiero e l’essenza di ciò che è pensato sono esattamente la stessa. I veicoli del pensiero del Nous non sono pertanto rappresentazioni delle cose su cui verte il pensiero; il pensiero del Nous non è “di altro”, ma è perfettamente autoriflessivo; la sua verità non si accorda con qualcosa di esterno, ma con se stessa. Questo tipo di pensiero non è “discorsivo”: esso infatti non è inferenziale, è “tutto in una sola volta” e conosce i suoi oggetti tutti insieme; è necessariamente veridico e certo: non cerca il suo oggetto, ma lo possiede in sé.
L’attività dell’Intelletto è eterna in quanto esterna al tempo ed esclude dunque durata, incompletezza, variazione o passaggio. Inoltre, Plotino, molto più di quanto non avessero fatto i platonici anteriori a lui, approfondisce e sviluppa la riflessione platonica sul bello, esposta nel Fedro e nel Simposio, associando il bello alla perfezione del mondo ideale (cfr. in particolare I 6 [1] e, soprattutto, V 8 [31]). Ai gradi dell’essere corrisponodono gradi di vita e gradi di luminosità (dalla perfetta luce dell’Intelletto all’oscurità dei gradi più bassi della realtà fino alla materia). La visione delle Forme da parte dell’Intelletto è paragonata a una luce che vede altra luce, senza che vi sia un mezzo esterno della visione. Per il suo uso frequente e filosoficamente caratterizzante dell’analogia della luce in rapporto al mondo intelligibile, quella di Plotino è stata definita come una “metafisica della luce”.
L’anima è l’ultimo nella scala dei principi provvisti di potenza causale propria. Come l’Intelletto, essa è incorporea, di tipo intelligibile, priva di estensione e libera da condizionamenti spaziali. Diversamente da ciò che accade nell’Intelletto, però, la sua attività si articola in una successione di stati distinti: l’anima è dunque intrinsecamente associata al tempo (III 7 [45], 11.20-30), che (sulla base di Tim. 37d) Plotino considera come un’immagine dell’eternità e definisce come “vita dell’anima in movimento di transizione da un modo di vita a un altro”. In quanto si tratta di un principio intelligibile, l’anima non può essere divisa in parti e vi è tra le sue molteplici articolazioni una sostanziale unità (cfr. IV 9 [8]), che Plotino esprime facendo ricorso all’analogia di una scienza e dei suoi teoremi particolari. D’altra parte, l’anima differisce dall’Intelletto perché il suo grado di molteplicità è più alto ed essa è presente al mondo dei corpi. A questo riguardo, Plotino fa più volte allusione a Tim. 35a, dove Platone presenta la natura dell’anima cosmica come composta dall’essenza divisibile e indivisibile. Plotino priva questi concetti di ogni connotazione matematica vedendovi invece un riferimento alla natura dell’anima, posta tra il mondo intelligibile (l’indivisibile, a cui appartiene per sua natura) e mondo sensibile (il divisibile, a cui l’anima è presente e che essa contiene nella sua potenza causale). Inoltre, sebbene non sia corretto postulare l’esistenza di parti discrete nell’anima, Plotino individua più livelli distinti all’interno di essa. Si ritiene generalmente che vi siano tre principali articolazioni o livelli: (1) l’anima in se stessa, il principio metafisico universale, (2) l’anima del mondo, ossia l’anima che presiede al cosmo, assimilato a un individuo corporeo di tipo eminente e sommamente perfetto; (3) le anime dei singoli individui, ossia le anime di ciascun essere umano discese in un corpo che tuttavia, come si vedrà in seguito, mantengono un aspetto insidente nell’Intelletto (il loro intelletto individuale) (IV 3 [27], 6.10-15; sulla diversa condizione dell’anima cosmica rispetto all’anima individuale, cfr. IV 8 [6], 2.31 sgg.).
Diversamente dai principi incorporei, il mondo sensibile per Plotino manca di vera potenza causale: da qui la sua critica approfondita di quelle filosofie (in particolare quella peripatetica e quella stoica) che hanno preteso di spiegare il mondo fisico senza riportare la sua natura all’azione di cause essenziali incorporee ed extrafisiche. Per Plotino simili filosofie “naturalistiche” incorrono in insanabili difficoltà, poiché il sensibile manca in se stesso dei principi che danno conto della sua esistenza e della sua intelligibilità. Le loro aporie possono soltanto essere risolte postulando cause essenziali, incorporee ed extrafisiche di tipo platonico. In effetti Plotino, sottolinea che è il corpo a essere contenuto nella potenza causale dell’anima (e non è l’anima a trovarsi nel corpo). Per spiegare come si esercita la causalità dell’anima sul mondo fisico vanno considerati almeno due concetti. Il primo è quello di logos. Si tratta, in realtà, di una nozione usata in vari contesti da Plotino che comunque, nell’analisi del mondo fisico, indica il principio essenziale che agisce sulla materia e in questo modo dà forma ai corpi. In parte, Plotino eredita questo concetto dalla fisica stoica, eliminando però da esso ogni connotazione corporea: i logoi plotiniani sono nature incorporee e possono compiere la propria azione formatrice sui corpi solo in quanto traggono la loro origine e la loro natura dal cosmo intellegibile.
L’anima è presentata come l’origine da cui derivano i logoi formatori dei corpi. Affine al concetto di logos è quello di natura (physis, cfr. III 8 [30]). L’azione formatrice della natura sulla materia è concepita come una contemplazione (theoria) produttiva responsabile della genesi del mondo fisico; la natura produce perché è contemplazione (III 8 [30], 3.22-23). Plotino considera dunque la contemplazione produttiva della natura come l’ultimo riflesso dell’attività teoretica che caratterizza le sostanze intelligibili: in questo modo egli riconduce integralmente – mediante una metafisica di tipo gradualistico – la costituzione del mondo fisico a principi essenziali di ordine superiore.
Al punto più basso dell’universo plotiniano si trova la materia. Si tratta, ancora una volta, di una dottrina assai controversa. In primo luogo, Plotino non chiarisce mai veramente come la materia sia generata dai principi superiori (le opinioni degli specialisti su questo punto sono ancora divergenti). In secondo luogo, lo statuto della materia è caratterizzato con descrizioni almeno all’apparenza incompatibili. Da un lato, essa è presentata come puro non essere, privazione, sterile, incapace di generare alcunché (e dunque priva di qualsiasi azione causale propria). L’inerenza delle forme nella materia è così paragonata da Plotino al modo in cui appaiono forme riflesse in uno specchio (cfr. anche 7.31). D’altra parte, la materia è talora descritta non come casualmente inerte, ma come una sorta di principio “negativo” a cui sono ricondotti i caratteri dei corpi che li contrappongono al mondo intelligibile (in particolare, l’estensione quantitativa: II 4 [12], 12). Inoltre, nel trattato I 8 [51] Su ciò che sono e da dove vengono i mali la “causalità negativa” della materia sembra concepita come origine e principio del male (questo pone naturalmente problemi gravissimi all’interno della metafisica plotiniana, di stampo generalmente monistico, che non sfuggirono già agli interpreti antichi). Infine, la materia è talora presentata come un “concetto limite” della processione causale, un limite a cui l’essere si approssima senza mai effettivamente “toccarlo”: Plotino sostiene che la materia conserva in sé pur sempre una traccia della sua origine, dalla quale non è mai totalmente separata e arriva a designarla come “ultima forma” (V 8 [31], 7.18-23).
Anche se le anime individuali fanno parte del mondo intelligibile, nella loro condizione ordinaria discesa in un corpo esse sono dimentiche della propria origine (V 1 [10], 1.1). L’attività cognitiva delle anime incarnate non è infatti di norma rivolta al mondo intelligibile, ma ai corpi. Plotino insiste sul fatto che la percezione e la ragione discorsiva, se appropriatamente comprese, si rivelano esse stesse delle attività dell’anima che rinviano alla sua origine intelligibile (cfr. in particolare, sul carattere attivo della percezione assimilata a un “giudizio” dell’anima, III 6 [26], 1.1-2), ma resta vero che la conoscenza originata da queste attività ha per oggetto il mondo sensibile: essa è rivolta ad altro, ossia ai corpi esterni all’anima. Questo modo d’essere e di pensare è proprio di ciò che Plotino chiama (sulla base dell’Alcibiade primo di Platone -130 a) il “noi” (ossia il modo d’essere comune della nostra anima, quello con cui normalmente ci identifichiamo). Tuttavia, questo modo d’essere non esaurisce in nessun modo ciò che siamo e possiamo conoscere. In effetti, secondo Plotino l’anima di ciascuno non è discesa nella sua integralità, ma vi è “qualcosa” di essa che non abbandona mai l’Intelletto (IV 8 [6], 8.3: esti ti autes en to noeto aei), è omogeneo a esso, partecipa del suo tipo autoriflessivo di conoscenza, non è disceso nel mondo dei corpi e non viene affatto modificato dall’unione dell’anima con il corpo. Questa “parte” (per quanto sia lecito parlare di “parte” nel caso dell’anima) è in perenne contemplazione delle forme intelligibili anche se noi non ne siamo per lo più coscienti e l’attività conoscitiva di cui noi siamo ordinariamente consapevoli si svolge a un livello inferiore.
Questa teoria (nota sotto il nome di “dottrina dell’anima non discesa”) è una delle più originali e controverse di Plotino, anche se, come di consueto, vari paralleli possono essere individuati negli scritti di Platone e di Aristotele (è comunque importante ricordare che i platonici posteriori a Plotino la respinsero per lo più in modo assai deciso). Secondo l’antropologia plotiniana, ciascun uomo è dunque caratterizzato da una condizione ontologica e cognitiva duplice, connessa a due schemi causali distinti, anche se reciprocamente collegati. Da un lato vi è il nostro “noi” ordinario, il vivente incarnato, che condivide la condizione ontologica delle realtà soggette al tempo e al mutamento; dall’altro lato vi è ciò che noi siamo nel senso più proprio, la nostra vera natura che non lascia il mondo intelligibile e si identifica con la parte superiore dell’anima. L’ascesa conoscitiva è così concepita come la rimozione degli elementi sensibili e legati ai corpi nella nostra conoscenza, in modo tale che tutta l’anima prenda coscienza di quell’attività intellettuale superiore che le è sempre propria, anche se non ne è per lo più consapevole (cfr. IV 3 [27], 30). Plotino descrive in alcune linee famose questa esperienza, assimilata a un “risveglio di sé a se stessi”:
“Molte volte, destandomi dal corpo a me stesso e divenendo esterno alle altre cose, interno invece a me stesso, nel vedere tanta straordinaria bellezza e avendo la certezza di appartenere alla parte migliore, soprattutto allora, trovandomi a esercitare il più nobile genere di vita, fattomi tutt’uno col divino e stabilito in esso il mio fondamento, avendo proceduto verso quell’atto e collocato al di sopra di ogni altro intelligibile me stesso, una volta che sono disceso dopo una tale sosta nel mondo divino dall’intelletto alla ragione discorsiva, non so spiegarmi come mai discendo ancora una volta, e in che modo mai l’anima mi si sia venuta a trovare all’interno del corpo, se essa è quella stessa cosa che è apparsa essere in sé e per sé, benché si trovi in un corpo ”(IV 8 [6], 1.1-11, trad. in Plotino, La discesa dell’anima nei corpi (Enn. IV 8 [6], a cura di Cristina D’Ancona, 2003, p. 117).
La teoria dell’anima non discesa fornisce il fondamento antropologico ed epistemologico della metafisica di Plotino, basata, come si è prima osservato, sull’idea che le sostanze intelligibili debbano essere conosciute in se stesse, secondo i principi appropriati a esse e senza prendere la natura corporea come punto di partenza. Inoltre, molto notevoli sono le conseguenze di questa dottrina dal punto di vista etico. Plotino ritiene che il cosmo sia retto da un ordine provvidenziale (associato al logos) proveniente dalle cause intelligibili e presente nell’intero universo, ancorché in modo differente in diversi luoghi (III 3 [48], 5.1-3). Una simile concezione riduce fortemente i margini di indeterminazione e libertà per l’azione pratica. D’altra parte, proprio l’azione pratica è messa al margine nell’etica di Plotino, in virtù della posizione accordata al nostro sé intelligibile e alla rigorosa subordinazione a esso del sé empirico e incarnato (gli interpreti hanno talvolta notato l’affinità tra le tesi plotiniane e quelle dello stoicismo antico). La vera libertà non è dunque affatto quella che si esprime nelle azioni e nelle scelte rivolte al sensibile, ma quella in virtù di cui possiamo essere attivi in modo conforme alla nostra natura più autentica e compiutamente intellettuale. Ne consegue che il valore etico dell’agire pratico è piuttosto ridotto poiché l’attività del nostro vero sé (ossia l’anima non discesa) è teoretica ed è sottratta alla prassi. La felicità si identifica così con il possesso della vita perfetta, ossia l’attività dell’Intelletto pensante.
D’altra parte, la conversione dell’anima verso l’interno (cfr. V 1 [10], 12.14) e il riappropriarsi della sua origine non si concludono con la congiunzione tra il sé empirico e la parte più elevata dell’anima non discesa dall’Intelletto. Oltre l’Intelletto, l’anima può rivolgersi con una tensione quasi erotica (cfr. VI 7 [38], 34-35) verso l’Uno. Origine di tutto, da cui l’anima stessa dipende, l’Uno è infatti sì in sé assolutamente trascendente, ma è ciò nonostante presente “in noi”, poiché contiene la nostra anima nella sua potenza causale. In VI 9 [9], 11.51, Plotino caratterizza come una “fuga di solo a Solo” la vita degli dèi e degli uomini beati che si liberano dalle cose di quaggiù riunendosi, attraverso l’Intelletto e al di là di esso, all’Uno. Questo tipo di esperienza e di unificazione “mistica” è diversa da ogni possibile pensiero e irriducibile a un’apprensione di tipo intellettuale (VI 9 [9], 9-10 e VI 7 [38], 35).
Plotino raccoglie in modo profondamente originale l’eredità filosofica classica e ne fa propri gli aspetti centrali, per esempio l’intellettualismo oppure l’idea che l’autentica conoscenza sia quella che investiga le cause. Tuttavia, egli dà alla riflessione filosofica antica una struttura nuova: il suo pensiero è infatti totalmente incentrato sulla metafisica; inoltre, l’argomentazione filosofica si intreccia indissolubilmente con l’esperienza mistica. Da questo punto di vista, Plotino è insieme l’ultimo grande filosofo antico e il primo a riflettere una sensibilità diversa, quella che caratterizza gli ultimi secoli dell’antichità e segna il passaggio dal mondo antico ai secoli successivi. Inoltre Plotino usa estesamente, adattandoli e modificandoli, concetti e argomentazioni desunti da Aristotele. Pur essendo un filosofo platonico, e pur criticando Aristotele, egli conosce approfonditamente sia i trattati aristotelici sia le opere dei commentatori. Anche in questo Plotino segna un importante cambiamento rispetto alla tradizione precedente e prepara il tipo di filosofia poi sviluppato dai commentatori neoplatonici di Aristotele e da loro trasmesso al Medioevo.