Plutarco
di Lionello Inglese
Scrittore greco, nato a Cheronea intorno al 50 d.C. e ivi morto poco dopo il 120 d.C. La sua produzione si articola in due grandi gruppi di opere: un insieme alquanto eterogeneo, per forma e contenuto, di scritti di filosofia, teologia, politica, scienza e varia erudizione, a cui si attribuisce il nome complessivo di Moralia (ethikà), e le Vitae (bìoi) di personaggi illustri della storia greco-romana.
Dei Moralia, tramandati in numerosi codici medievali e umanistici (circa 70 i più importanti, censiti da Irigoin 1987), mancò un’edizione complessiva antica, ma singoli raggruppamenti di opere affini circolavano forse già dal 5°-6° secolo. La raccolta attualmente disponibile è in massima parte il frutto di una lunga fatica ‘editoriale’ compiuta tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento dal dotto bizantino Massimo Planude. Ai testi raccolti da Planude si aggiunsero altri opuscoli e opere molto estese (come le Quaestiones convivales) fino al totale di 78 opere contenute nel codice Paris. Gr. 1672 (databile intorno al 1360). Si formò molto prima, invece, il corpus delle Vitae (21 coppie di biografie ‘parallele’, accostate per analogia e talora esplicitamente messe a confronto in una sỳnkrisis finale; una coppia ‘duplice’: i re spartani ‘riformatori’ Agide e Cleomene confrontati con i Gracchi; quattro biografie singole: Arato, Artaserse, Galba, Otone). Il testo delle Vitae è tramandato da circa cento codici, medievali e di età umanistica (Manfredini 1987), che risalgono a due recensioni tardoantiche o di epoca bizantina (‘bipartita’ e ‘tripartita’, divise rispettivamente in due e tre volumi). L’editio princeps dei Moralia fu pubblicata da Aldo Manuzio, a Venezia, nel marzo del 1509, per le cure di Demetrio Ducas, con il quale collaborarono Erasmo da Rotterdam e Girolamo Aleandro. La princeps delle Vitae fu realizzata nel 1517, presso Filippo Giunta, da Eufrosino Bonino.
L’edizione aldina delle Vitae apparve nel 1519, a cura di Francesco Asolano.
Nel Medioevo latino P. fu sostanzialmente dimenticato, anche se una certa fortuna ebbe l’apocrifa Institutio Traiani, la traduzione latina di un’opera attribuita a P. da Giovanni di Salisbury (1120 circa 1180) che ne cita alcuni frammenti nel Polycraticus VI 8 (in realtà una falsificazione di età bizantina: cfr. Ziegler 1949, trad. it. 1965, p. 379). Una forte ripresa di interesse per l’opera di P. si manifestò invece verso la fine del Trecento, con l’arrivo a Firenze nel 1397 di Manuele Crisolora, auspice Coluccio Salutati. A un allievo di entrambi, Iacopo Angeli da Scarperia, si deve nel 1400 la prima traduzione latina di una Vita plutarchea (Bruto). Di qualche anno precedente è un volgarizzamento italiano delle Vitae (nel ms. Laur. XXXVI.8 conservato a Firenze nella Biblioteca medicea laurenziana), opera di un anonimo della cerchia di Salutati, condotto a sua volta su una versione aragonese dell’opera, realizzata ad Avignone da Nicola vescovo di Drenopoli nel 1388 circa (Weiss 1953, p. 338). Intorno al 1460, grazie anche alla diffusione sempre più ampia dei codici di P., era ormai costituita in Italia una completa vulgata latina delle Vitae, per opera degli umanisti che si erano cimentati nella traduzione di biografie scelte: Francesco Filelfo, Donato Acciaiuoli, Guarino Veronese, Palla Strozzi, Leonardo Bruni, Leonardo Giustiniani, Antonio Pacini, Alamanno Rinuccini, Lapo da Castiglionchio (Giustiniani 1961, p. 4). Al modello delle Vitae è da ricondurre la biografia del duca Filippo Maria Visconti, opera di Pier Candido Decembrio. Spirito di emulazione nei confronti di P. indusse Donato Acciaiuoli a comporre in latino una coppia di biografie assente nell’originale greco (Annibale / Scipione l’Africano). Secondo Ziegler (1949, trad. it. 1965, p. 380), M. si sarebbe ispirato a P. per la Vita di Castruccio Castracani, che si conclude con un confronto tra Castruccio, Filippo il Macedone e Scipione; ma si veda anche, da ultimo, Giorgio Inglese (La vita di Castruccio Castracani e altri scritti, 1991, p. 31) per l’identificazione della fonte primaria nella Vita Castrucci di Niccolò Tegrimi (Modena 1496) e del modello ‘classico’ (per una biografia più romanzata che realistica) nella Ciropedia di Senofonte.
Il grande interesse per le Vitae può essere spiegato con l’emergere, nell’Italia del Quattrocento, di una classe media dotata di buona cultura che nutriva l’ambizione di partecipare attivamente alla vita pubblica e ritrovava nelle biografie dei grandi personaggi di P. esempi di virtù ben assistite da fortuna, individui ‘reali’, con i loro difetti e i loro pregi, destinati a interpretare la storia e la politica da protagonisti (Pade 1998, pp. 104-05). Finalmente furono raccolte e stampate in un’unica edizione le traduzioni umanistiche dell’intero corpus delle Vitae (Roma 1470, presso Ulrich Han), grazie alle cure di Giovanni Antonio Campano. Le traduzioni raccolte nella sua edizione furono in seguito oggetto di numerosissime ristampe nelle più importanti città italiane (ne ha contate diciannove, fino al 1560, Giustiniani 1961, pp. 44-46; per un repertorio completo cfr. Repertorio delle traduzioni umanistiche, 2008, pp. 1302-1571) e furono ben presto volgarizzate in italiano da Battista Alessandro Iaconello da Rieti (L’Aquila 1482), Giulio Bondone da Padova (Venezia 1525), Ludovico Domenichi (Venezia 1555) e altri. La traduzione italiana di Marcello Adriani il giovane, risalente alla fine del Cinquecento, fu condotta invece sul testo greco originale, ma restò inedita per secoli (Firenze 1851).
I Moralia furono conosciuti in Occidente grazie a traduzioni latine già a partire dalla fine del 14° sec., anche se esercitarono minore influsso rispetto alle Vitae. Il De cohibenda ira fu tradotto da Simone Atumano nel 1381-82, con dedica al cardinale Pietro Corsini (la versione di Atumano, insoddisfacente sul piano dello stile, fu rielaborata da Salutati circa vent’anni dopo: cfr. Weiss 1953, pp. 341-42). Iacopo Angeli tradusse, tra il 1405 e il 1409, il De Alexandri Magni fortuna aut virtute e il De fortuna Romanorum, «nel quadro della disputa fra gli umanisti fiorentini sulla superiorità di Cesare o Alessandro» (Stok 1998, p. 121). Il De liberis educandis (la cui paternità plutarchea è stata da tempo rifiutata: cfr. Ziegler 1949, trad. it. 1965, pp. 210-12), fu tradotto da Guarino Veronese nel 1410 e servì come modello a Enea Silvio Piccolomini per il suo Tractatus de liberis educandis. Francesco Filelfo tradusse gli Apophtegmata ad Traianum (1437), dedicati a Filippo Maria Visconti, corrispondenti agli pseudoplutarchei Regum et imperatorum apophtegmata (Ziegler 1949, trad. it. 1965, pp. 269-71) e gli Apophtegmata Laconica (1454), dedicati a papa Niccolò V. Un punto di svolta nella diffusione dei Moralia è documentabile nell’attività di Niccolò Perotti, segretario e collaboratore del cardinale Bessarione, che offrì a Niccolò V nel 1449 la versione latina del De invidia et odio e ne ricevette l’incarico di preparare una nuova traduzione (dopo quella dell’Angeli) del De Alexandri Magni fortuna aut virtute e del De fortuna Romanorum (1452). La prima traduzione a stampa di un singolo opuscolo plutarcheo fu quella del De liberis educandis di Guarino (1471) cui seguirono gli Apophtegmata del Filelfo (1471), il De adulatore et amico di Guarino (1475), le Amatoriae narrationes del Poliziano (1478) e molte altre. Solo nel 1566, a Parigi, si ebbe la prima edizione latina completa dei Moralia a cura di Guillaume Guillard e Thomas Belot (una rassegna completa in Repertorio delle traduzioni umanistiche, 2008, pp. 1232-1302 e 1571-1611). Erasmo da Rotterdam, che nell’Institutio principis Cristiani del 1516 raccomandava caldamente la lettura di P., e che tanto deve ai Moralia di P. nei suoi Adagia, tradusse in latino undici opuscoli, che pubblicò tra il 1514 e il 1526 presso Johann Froben (tra cui Ad principem indoctum, De adulatore et amico, De curiositate, De capienda ex inimicis utilitate). Si può concludere una panoramica sulla fortuna di P. nel 16° sec. ricordando le traduzioni latine complete di Hermanno Cruserius (Hermann Cruser, Vitae, Basilea 1564) e di Wilhelm Xylander (Moralia, Basilea 1570) e l’edizione di tutto P. pubblicata da Henri Estienne (Ginevra 1572), nettamente migliore dell’aldina per la più ampia recensio dei manoscritti e per la qualità degli emendamenti introdotti. Fondamentale per la diffusione di P. nella cultura europea del 16° sec. fu la traduzione francese di Jacques Amyot (Vitae 1559; Moralia 1572).
Bibliografia: K. Ziegler, Plutarchos von Chaironeia, Stuttgart 1949 (trad. it. di M.R. Zancan Rinaldini, a cura di B. Zucchelli, Brescia 1965); R. Weiss, Lo studio di Plutarco nel Trecento, «La parola del passato», 1953, 32, pp. 321-42; V.R. Giustiniani, Sulle traduzioni latine delle Vite di Plutarco nel Quattrocento, «Rinascimento», 1961, 1, pp. 3-62; J. Irigoin, Histoire du texte des OEuvres morales de Plutarque, in Plutarque, OEuvres morales, 1° vol., t. 1, Paris 1987, pp. CCXXVII-CCCXXIV; M. Manfredini, La tradizione manoscritta delle Vite, in Plutarco, Vite parallele. Alessandro, Cesare, a cura di D. Magnino, A. La Penna, Milano 1987, pp. X-XX; M. Pade, Sulla fortuna delle Vite di Plutarco nell’Umanesimo italiano del Quattrocento, «Fontes», 1998, 1, pp. 101-16; F. Stok, Le traduzioni latine dei Moralia di Plutarco, «Fontes», 1998, 1, pp. 117-36; L’eredità culturale di Plutarco dall’antichità al Rinascimento, Atti del VII Convegno plutarcheo, Milano-Gargnano 28-30 maggio 1997, a cura di I. Gallo, Napoli 1998; Repertorio delle traduzioni umanistiche a stampa (secoli XV-XVI), a cura di M. Cortesi, S. Fiaschi, 2 voll., Firenze 2008; D. Taranto, Machiavelli e Plutarco, «Il pensiero politico», 2009, 2, pp. 167-97.
Machiavelli e Plutarco di Giorgio Inglese
Esplicita menzione, con lode, di P. si legge in Discorsi II i 2-3:
Molti hanno avuta opinione, ed in tra’ quali Plutarco, gravissimo scrittore, che ’l popolo romano nello acquistare lo imperio fosse più favorito dalla fortuna che dalla virtù. E, in tra le altre ragioni che ne adduce, dice che per confessione di quel popolo si dimostra quello avere riconosciute dalla fortuna tutte le sue vittorie, avendo quello edificati più templi alla Fortuna che ad alcuno altro iddio.
M. allude evidentemente all’opuscolo De fortuna Romanorum (d’ora in poi Fort. Rom.), e in particolare a 318e-319b. Nel seguito del capitolo, si presenta un altro argomento, più consistente, che riprende 321f e 324c-d: «Dicono costoro che non avere mai accozzate due potentissime guerre in uno medesimo tempo fu fortuna e non virtù del popolo romano» (Discorsi II i 8). M. lo confuta rilevando che la mancata coalizione di più nemici potenti non fu casuale, ma dipese in ultima analisi dalla virtù dei Romani. Non si nega la buona fortuna di Roma; ma
chi esaminassi la cagione di tale fortuna la ritroverebbe facilmente; perché gli è cosa certissima che, come uno principe e uno popolo viene in tanta riputazione che ciascuno principe e popolo vicino abbia di per sé paura ad assaltarlo e ne tema, sempre interverrà che ciascuno d’essi mai lo assalterà se non necessitato; in modo che e’ sarà quasi come nella elezione di quel potente fare guerra con quale di quei sua vicini gli parrà, e gli altri con la sua industria quietare (§ 21).
In generale, interpretando Fort. Rom. «come se contenesse un’esplicita polemica antiromana», «accadde che [M.] ne fraintendesse il senso», anche nei limiti del testo conservato (cui probabilmente mancano sia l’antiloghìa dedicata alla virtù dei Romani, sia la sỳnkrisis degli opposti argomenti; cfr. Sasso 1987, pp. 428-29). Che M. avesse una cognizione solo parziale, ed eventualmente indiretta, di Fort. Rom. (Martelli 1998, p. 55) non può essere affermato, né escluso.
La presenza di P. nella conversazione fra M. e i suoi amici è testimoniata dall’epistolario. Durante la missione presso il Valentino, nell’autunno del 1502, M. chiedeva, da Imola, un esemplare delle Vite, presumibilmente nella versione latina che da poco (15 febbr.) si era stampata a Venezia (da cui sono tratte le citazioni, nel seguito); e riceveva dall’amico Biagio Buonaccorsi una risposta affettuosamente ironica: «Abbiamo fatto cercare delle Vite di Plutarco, e non se ne truova in Firenze da vendere. Abbiate pazienza, ché bisogna scrivere a Venezia; a dirvi il vero, voi siate lo ’nfracida a chiedere tante cose» (21 ott. 1502, Lettere, p. 53). Negli anni seguenti, ritroviamo P. nell’elenco di storici sfoggiato da Francesco Vettori nella lettera a M., da Roma, 23 nov. 1513; e in una lettera di Filippo de’ Nerli, pure da Roma, 17 nov. 1520: vi si dice di un non identificato testo recente sul Macedone, cui si contrappone la Vita plutarchea («un nuovo pesce [...] gli ha dato un trattato della vita d’Alessandro [...] lei [=Lucrezia Salviati] mi richiese che io ve lo mandassi, perché voi lo rassettassi con aggiugnervi di certa parte delle cose sua [...]. Ora io non l’ho fatto né detto di fare, ma ho fatto berto dicendo “Vedremo”, con animo di scrivervene prima, per vedere se voi avessi il capo a questa opera; e quando mi rispondiate di sì, ve lo manderò [...] benché credo sarebbe meglio discorrere, secondo Plutarco, della vita d’Alessandro quello ne saprete, più tosto che vedere altro scritto di questo animale», Lettere, pp. 367-68). La Vita di Lisandro (23, 11), infine, ispira a Francesco Guicciardini, nella lettera da Modena, 18 maggio 1521, il paragone fra la sorte di M., ridotto a trattare con il Capitolo generale dei frati minori, e quella del condottiero spartano, caduto in disgrazia presso il re Agesilao e da questi incaricato di sovrintendere alla distribuzione dei viveri (kreodàites, dividundis carnibus praefectum):
Quando io leggo e’ vostri titoli di oratore di republica e di frati, e considero con quanti re, duchi e principi voi avete altre volte negoziato, mi ricordo di Lysandro, a chi, doppo tante vittorie e trofei, fu dato la cura di distribuire la carne a quelli medesimi soldati a chi sì gloriosamente aveva comandato (Lettere, p. 377).
P. è, dopo Livio, la fonte più utilizzata da M. nei Discorsi. Alla già discussa citazione di Fort. Rom. si aggiungono, numerosi, i debiti taciti con le Vite. Si indicano qui soltanto i sicuri e i probabili.
Agide: il suo desiderio di «ridurre gli spartani in quelli termini che le leggi di Licurgo gli avevano rinchiusi» (I ix 15) è noto a M. da vari passi (Agis 6, 2; 9, 3-5; 19, 7; cfr. Sasso 1987, p. 160); «fu ammazzato dagli Efori» (§ 15): cfr. Agis 19-20.
Alessandro: in I lviii 13, come esempio d’incostanza, è ripreso da Alex. 51, 9-52, 1 l’episodio dell’uccisione di Clito, poi «sommamente» rimpianto; da Alex. 27, 5-7 può venire il ricordo dell’oracolo di Giove Ammone in I xii 5; non tanto da Alex. 15, 8-9, quanto da Curzio Rufo (IV vi 29) M. sa che «Alessandro Magno imitava Achille» (Principe xiv 14). Solo apparente è il riferimento a P. in Arte della guerra IV 139: «Leggete la vita d’Alessandro Magno, e vedete quante volte gli fu necessario concionare [...]», dato che il rinvio porta alle Historiae Alexandri Magni di Curzio Rufo (G. Masi, in N. Machiavelli, L’Arte della guerra, a cura di G. Masi, D. Fachard, 2001, p. 185 nota 143).
Antonio: il giudizio dei Parti sulla virtù del triumviro (II xviii 24) è ricavato da Ant. 49 («virtutem romanorum ad caelum tollunt»).
Arato: l’abilità nelle imprese fraudolente (II xxxii 23) è notata in Arat. 10, 4; la classificazione fra i «principi buoni» (III v 11) riflette l’insieme del ritratto plutarcheo.
Bruto: l’accenno alla forza delle sue legioni (I xvii 7) può venire da Br. 28, 7; a III vi 141 è ripreso un particolare del racconto plutarcheo (Br. 16) come esempio di «false immaginazioni» in cui cadono i congiurati; l’affezione del popolo romano per Cesare (III vi 161) è nota a M. da Br. 18-20 (ma lo spunto, utilizzato per il giudizio critico su Bruto e Cassio, non lo è ai fini di un’organica interpretazione di Cesare come ‘principe civile’); l’errore di valutazione che portò Cassio al suicidio e i repubblicani alla rovina (Br. 43) è riportato in III xviii 6.
Cesare: vaga relazione fra la Vita plutarchea e gli accenni a Cesare, come bersaglio di una congiura e cospiratore contro la repubblica, in III vi 22 e 170; nel Principe, invece, M. ricorre di sicuro a Caes. 11, 5-6 (imitazione di Alessandro: xiv 14) e 5, 8-9 (esempio di liberalità ‘bene usata’: xvi 12).
Cicerone: l’immagine di Catilina che affiora in I x 13 può dipendere, ma in modo generico, da Cic. 10.
Cleomene: utilizzata in I ix 16, con qualche approssimazione (perché Cleomene non successe direttamente ad Agide, ma divenne re dopo la morte di Leonida, collega e avversario di Agide: cfr. Cl. 3) e con l’integrazione narrativa di «scritti» di Agide, da cui Cleomene fu eccitato a proseguire l’opera riformatrice (in P., i «ricordi» di Agide giungono a Cleomene dalla viva voce di Xenares); tutta machiavelliana è poi l’analisi politica delle «cagioni» che portarono lo spartano alla sconfitta.
Crasso: dai fatti della sua campagna contro i Parti (ad es., da Cr. 24, 2) M. trae un esempio della superiorità da riconoscersi alle fanterie (II xviii 25); a III xii 15 si riporta che i suoi soldati furono accecati dalle offerte di pace del nemico, «come si vede [...] leggendo la vita di quello» (ossia Cr. 30).
Demetrio: il tradimento degli Ateniesi, che non lo accolsero dopo che fu sconfitto (Demetr. 30, 1-5), è rinarrato in I lix 5.
Dione: la fine del Siracusano, tradito da Callippo, è riferita in III vi 197-98 sulla base di Di. 54-57; in termini generali, deriva certo da P. l’immagine positiva di Dione in I x 10.
Emilio Paolo: il severo giudizio su Perseo, ultimo re di Macedonia, fissato nella dedica dei Discorsi dipende da Aem. 8, 10-11 ecc.; un paragrafo di III xxxv (15: Perseo uccide un amico che, solo dopo la sconfitta, critica i suoi errori) è riscrittura drammatizzata di Aem. 23, 6. Notizie su Emilio Paolo sono utilizzate in III xvi 13 (da Aem. 6, 8, M. apprende che Emilio «ebbe più volte [gr. pollàkis, lat. saepius] la ripulsa nel consolato»; ma conta come primo quello che fu invero il secondo suo consolato: cfr. Aem. 6, 1 e 10, 5) e III xxv 16 (da Aem. 28, 10-13).
Flaminino: la sintesi tecnico-strategica della guerra tra Filippo di Macedonia e i romani, nel 198 a.C. (III x 21-24), ha riscontro in Flam. 4-5, ma anche, e forse più strettamente, in Livio xxxii 9-12.
Licurgo: il testo plutarcheo è fondamentale per il disegno degli ordini di Sparta (→) in I vi (Taranto 2009, pp. 182-85, 192-96); fra i vari aspetti, M. ha notato che, per l’antico legislatore, i due «maiores reipublicae morbi» fossero la ricchezza e la povertà (Lyc. 8, 3): «Licurgo con le sue leggi fece in Sparta più equalità di sostanze e meno equalità di grado; perché quivi era una equale povertà, e [...] i gradi della città si distendevano in pochi cittadini» (I vi 14). Il tema ritorna a II iii 11, dove si rammenta l’avversione di Licurgo all’accoglimento di nuovi abitatori in città (un errore, nella prospettiva della potenza) e l’espediente di utilizzare monete prive di valore intrinseco per scoraggiare i traffici: in Lyc. 9, 2, si parla di monete di ferro, mentre M. ricava da Seneca, de benef. 5, 14, che le monete fossero di cuoio.
Lucullo: la notizia sulla battaglia di Tigranocerta, come esempio di superiorità della fanteria romana (II xix 5), viene da Luc. 26-28 (ma M., anche nell’Arte della guerra, II 76, attribuisce a Tigrane «cento cinquantamila cavagli», dove Luc. 26, 7 conta «equitum [...] supra quinquaginta milia [...], peditum vero [...] centum quinquaginta milia»; il testo critico greco: «cinquantacinquemila cavalieri»).
Mario: la notizia dei sette consolati può venire da P. (ma il paragrafo machiavelliano, I xxxvii 18, è poco chiaro in sé stesso); più preciso il riscontro fra Mar. 39, 2-4 e III vi 111 (i minturnesi incaricano un cavaliere [ippèus] gallo o cimbro [M., a mente di Val. Max. II 10, 6, ne fa un servo] di assassinare Mario, la cui presenza tuttavia avvilisce il sicario e lo fa fuggire) e fra Mar. 16 e III xxxvii 17-18 (Mario fa in modo che i suoi soldati si abituino all’aspetto feroce e alle grida terribili dei nemici; M. aggiunge, di suo, un giudizio sulla scarsa qualità dell’esercito cimbro).
Nicia: in I liii 20 il generale ateniese presta l’esempio di un ‘savio’ che non riesce a distogliere il popolo da una decisione rovinosa (da Nic. 12, se non da Thuc. VI 8-26).
Pelopida: è fonte generica per la rovina di Sparta (I vi 27); più diretta l’allusione in I xxi 9, paragrafo dedicato a Pelopida ed Epaminonda: «chi ne scrive, dice come questi duoi in brieve tempo mostrarono che non solamente in Lacedemonia nascevano uomini da guerra, ma in ogni altra parte dove nascessi uomini, pure che si trovasse chi li sapesse indirizzare alla milizia» (qui il pensiero di P., Pel. 17, 13, è integrato nel senso della tesi machiavelliana sul ruolo decisivo del ‘capitano’: cfr. III xiii, e quindi Arte della guerra VII 204). Sono tratte da Pel. 5 le notizie relative al complotto di «alcuni primi cittadini» tebani per farsi tiranni della loro città con l’aiuto degli spartani (III vi 179; cfr. anche Principe v 4); da Pel. 7-12 quelle sulla conseguente «congiura che Pelopida fece per liberare Tebe» (III vi 136-38; riuscita in condizioni eccezionali e particolari, e perciò, secondo M., priva di positivo valore esemplare).
Pirro: il caso di Fabrizio, che svelò al re epirota la congiura per avvelenarlo (Pyr. 21, 1-5), si ricorda in III xx 7 (con una forzatura, perché il bel gesto non «cacciò» Pirro dall’Italia, come scrive M., ma la guerra durò altri quattro anni), in III xxi 17 (contrapposto genericamente, in III i 28. Da Pyr. 17, 6 viene anche la notizia che la battaglia di Eraclea fu vinta da Pirro grazie agli elefanti (Arte della guerra IV 59; la valentia militare di Pirro è ricordata anche in Principe iv 21, in modo generico).
Pompeo: il riferimento a Pompeo in I xxxvii 20 è generico; quello alla morte in Egitto (I lix 6) ha riscontro in Pomp. 76-79, ma in termini piuttosto vaghi.
Romolo: la più che probabile lettura del testo plutarcheo non pare abbia lasciato tracce specifiche (ossia distinguibili dal contributo liviano) nel ritratto del fondatore di Roma (I ix).
Solone: P. è una fonte dei vari riferimenti machiavelliani al legislatore ateniese, anzitutto in I ii 29 (con mutamento di segno del giudizio, che in M. è negativo rispetto alla norma della costituzione mista →); in particolare, che Solone «ricorresse a Dio» per rafforzare la propria autorità (I xi 12-13) ha riscontro in Sol. 14, 6 (pronuncia dell’oracolo delfico).
Teseo: deriva dal § 24 il racconto del sinecismo fondativo di Atene, in forza del quale Teseo è accolto da M. nella schiera dei ‘principi nuovi’ virtuosi (cfr. I i 6 e Principe vi e xxvi).
Temistocle: da Them. 20, 1-2, M. trae un esempio di buona fede del popolo ateniese, che ricusa un «partito [...] utilissimo ma disonestissimo» prospettato da Temistocle (I lix 17-19); l’esilio e il suicidio del condottiero ateniese (Them. 27-31) sono presi a esempio di «quanto sia pericoloso credere agli sbanditi» (II xxxi 1 e 8-9; secondo P. l’imperatore persiano, che ospitò Temistocle, fu Serse o «il figlio di Serse» [27, 1]; M. ha inteso trattarsi di Dario).
Tiberio e Gaio Gracco: il testo plutarcheo è lo sfondo storico di I xxxvii 16 e degli altri paragrafi machiavelliani (come Principe ix 21) sui due tribuni, «de’ quali si debbe laudare più la intenzione che la prudenza» (Discorsi I xxxvii 26).
Timoleone: come si disse di Arato, la sua qualificazione fra i «principi buoni» (III v 11) dipende dal ritratto plutarcheo.
L’implicazione delle Vite in altre opere machiavelliane è modesta. Nelle Istorie fiorentine, V i 5, il disegno del ‘naturale’ trapassare delle cose mondane dall’ordine al disordine, e da questo a quello, include una curiosa notazione sulla funzione corruttiva delle lettere, sostenuta con l’esempio di Catone che sollecitò l’allontamento da Roma di Carneade, non quia Carneadi [...] infensus esset, sed quia philosophiae et omni graecae doctrinae penitus adversus («non perché fosse ostile a Carneade, ma perché, contrarissimo alla filosofia e a tutta la cultura greca», C. Ma. 22-23; inoltre: Romanos tunc imperio spoliatum iri dixit, cum se graecis litteris dedissent, «disse che i Romani avrebbero perduto l’impero se si fossero dedicati alle lettere greche»). Nel Principe, oltre ai casi già citati, si possono proporre paralleli, non però stringenti, fra xiv 1 e Pyr. 8,6 (sull’arte militare: hanc vero disciplinam semper vigilantissime meditatus fuisse Pyrrhus videtur, ut omnium scientiarum maxime regi congruentem, «Pirro meditò sempre con la massima cura su tale disciplina, considerandola la scienza, fra tutte, più pertinente a un sovrano»), fra xiv 14 e Philopomenes 4 (historias Alexandri complectebatur, id semper secum versans quonam modo ad actionem verba converteret, «studiava le storie di Alessandro, sempre riflettendo sul modo di tradurne l’esempio in azione»), fra xviii 7 e Lys. 7 (quo enim leonis pellis non attingeret, insuendam esse vulpinam, «se la pelle di un leone non è sufficiente, bisogna cucirvi in aggiunta quella di una volpe»). Pericles 4 va espunto dalle note a xviii 5, perché nel testo di P. Chèiron, nome del centauro, è emendazione del Carel Gabriel Cobet su o chèiron dei codici (vers. lat.: «tu [...] pessime Periclem educasti»).
Oltre a Fort. Rom., M. conosce almeno gli Apoftegmi, utilizzati in Discorsi II xxiv 50 (motto sprezzante di «uno spartano» a proposito delle mura di Atene; cfr. Apophtegmata Laconica 212e: motto di Agesilao a proposito delle mura di una città non precisata; in Valerio Massimo, III vii ext. 8, una battuta simile è attribuita a un anonimo spartiate) e III xviii 2 (detto di Epaminonda sulla necessità di presentire i partiti del nemico: cfr. Regum et imperatorum apophtegmata 187c, in effetti di Cabria). Il De virtutibus mulierum ha influenzato Discorsi III vi 158 (→ Sforza, Caterina) secondo Frédérique Verrier (2010, pp. 76-79). L’antinomia fra impeto e respetto, utilizzata da M. nei Ghiribizzi al Soderino e in altre pagine fondamentali, echeggia vagamente quella fra le due vie della politèia – tachèia e bradytèra – descritte in Praecepta gerendae reipublicae 804c-d. Alla medesima operetta, 811b, si è rinviato per il detto che «non i titoli illustrono gli uomini, ma gli uomini i titoli» (Discorsi III xxxviii 4; cfr. Taranto 2009, p. 189). Ha invece gran rilievo, per l’ottavo capitolo dell’Asino (→), il ricorso al dialogo Bruta animalia ratione uti. Nell’operetta di P., un greco che Circe ha trasformato in porco (gryllos) dimostra a Ulisse che la vita bestiale è preferibile all’umana; che i bruti sono naturalmente valorosi, continenti, prudenti, e inoltre capaci di apprendere e perciò, in un certo senso, dotati di ragione. La medesima linea argomentativa, talora con riprese letterali, è seguita dal «porco», o «cignale» (Asino viii 1 e 22), che interloquisce con il protagonista-narratore del poemetto machiavelliano: messo dinanzi alla possibilità di ritornare uomo, l’imbestiato rifiuta, adducendo appunto le superiori «prudenza» (vv. 37 e segg.), «fortezza» fisica (vv. 67 e segg.) e morale (vv. 73 e segg.), nonché «temperanza» (vv. 88 e segg.) delle bestie. «Noi – dice il porco – a natura siam maggiori amici» (v. 106), e la natura ci dispensa i suoi doni con una generosità a voi umani sconosciuta (cfr. Br. rat. 988e: la natura non ha concesso all’uomo né pungiglione, né zanne, né unghie atte a sbranare).
Bibliografia: The Discourses of Niccolò Machiavelli, introduction and notes by L.J. Walker, 2° vol., London 1950, pp. 28082; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 427-41 e passim, 4° vol., Milano-Napoli 1997, pp. 129-51; M. Martelli, Machiavelli e gli storici antichi. Osservazioni su alcuni luoghi dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Roma 1998; D. Taranto, Machiavelli e Plutarco, «Il pensiero politico», 2009, 2, pp. 167-97; F. Verrier, Caterina Sforza et Machiavel ou l’origine d’un monde, Manziana 2010.