Poesia e religione: il pantheon ellenico tra invenzione e tradizione
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In una religione politeista come quella della Grecia antica, che non conosce rivelazione e dogma, né si fonda su libri sacri, i poeti si ritrovano a svolgere fin dall’epoca arcaica un ruolo fondamentale nella rappresentazione delle divinità e nella sistemazione del pantheon. Le Muse non sono una metafora letteraria dell’ispirazione poetica, ma vere e proprie divinità che rappresentano, nei suoi vari aspetti, la potenza divina del canto, nonché la fonte di legittimazione su cui si costruisce, nell’arco della civiltà greca, l’autorità religiosa della parola poetica.
Interrogandosi sulle rappresentazioni degli dèi, Erodoto (Storie, II, 53) non esita ad attribuire un ruolo chiave nella sistemazione del pantheon ellenico ai due più rinomati poeti della Grecia arcaica: secondo lo storico, sarebbero stati appunto Omero ed Esiodo a definire, nelle loro opere, il profilo generale di ciascuna divinità, indicandone genealogie, denominazioni, attributi, prerogative, e precisandone inoltre l’aspetto esteriore, le apparenze.
Erodoto
L’origine del pantheon greco
Storie, Libro II, cap. 53 Quale sia poi l’origine di ciascuno degli dèi o se fossero esistiti tutti eternamente, e quali mai fossero d’aspetto, non lo si sapeva fino a poco tempo fa, fino a ieri per così dire. Esiodo e Omero infatti io credo che siano di 400 anni più vecchi di me e non di più, e sono proprio quelli che hanno composto per i Greci una teogonia e hanno dato i nomi agli dèi, dividendo gli onori e le prerogative e indicando il loro aspetto.
Erodoto, Storie, a cura di F. Cassola, A. Izzo d’Accinni, , Milano, BUR, 1984
Le opere di Esiodo, in particolar modo la Teogonia, e i poemi omerici si vedono così riconosciuta un’autorità eccezionale in materia religiosa. Per comprendere appieno tale affermazione, occorre contestualizzarla, rammentando (come si è detto) che la religione greca antica non conosce dogmi e non si fonda su uno o più libri sacri: per quanto autorevoli fossero i poemi omerici ed esiodei, le considerazioni di Erodoto non erigono i due poeti a teologi o profeti, nel senso comunemente attribuito a questi termini. D’altro canto, in virtù del carattere divino che i Greci riconoscevano all’ispirazione poetica, appare verosimile che i poeti svolgessero la funzione di interpreti del mondo degli dèi (e quindi di theologoi, in senso greco), sia traducendo in immagini e racconti il comune sentire relativo alle divinità, sia reinventando la tradizione, all’interno di tale sapere condiviso, per esprimere il mondo sub specie dei.
Quando un arciere invoca l’assistenza di Apollo all’atto di scoccare una freccia, l’invocazione alla divinità competente mira a stabilire un accordo tra il piano umano dell’azione contingente, caratterizzato dalla variabilità delle circostanze, e il piano divino che di quell’azione esprime il valore assoluto e atemporale. In modo analogo, quando il cantore invoca la Musa, la potenza divina competente in materia di ispirazione poetica, egli si dispone a trasmettere al suo pubblico una rappresentazione del mondo, e delle forze in gioco negli eventi, la cui autorità è frutto di un accordo riconosciuto tra l’hic et nunc della performance e la sfera delle Muse, le dee figlie di Mnemosyne ("Memoria") che tutto sanno “ciò che è, ciò che sarà e ciò che è stato” (Esiodo, Teogonia, 38). In questa prospettiva il poeta appare non solo portavoce legittimo di tradizioni condivise relative al mondo degli dèi, ma anche interprete privilegiato delle connessioni che si tessono, nei diversi contesti, tra il piano umano e quello divino.
La funzione del poeta nella società greca arcaica è paragonabile per certi versi a quella dell’indovino, il mantis, dotato di sapere oracolare, o del "buon re", le cui sentenze ispirate a giustizia pure traggono la loro autorevolezza da una connessione specifica e privilegiata con la sfera divina (Marcel Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, ed. or. 1967, trad. it. 1977). Ma se il mantis rivela agli uomini il volere degli dèi e il re giusto governa con la loro approvazione, nei suoi rapporti con la sfera divina il poeta si distingue dagli altri "maestri di verità" nella misura in cui gli viene riconosciuta la facoltà, in quanto portavoce delle Muse, di accedere al mondo degli dèi per rappresentare in forme sensibili le potenze divine, raccontandone le vicende, indicandone i nomi, descrivendone le apparenze. Nel "presentificare" l’invisibile e dargli forma, il poeta si vede conferito appunto quel ruolo fondamentale nella sistemazione del pantheon di cui testimonia Erodoto a proposito di Omero ed Esiodo: gli dèi che agiscono nei loro poemi non sono dunque "personaggi mitologici", disegnati a tavolino per compiacere un uditorio assetato di belle favole, ma rappresentazioni delle potenze divine facenti parte integrante dell’orizzonte culturale dell’uomo greco.
Quando un pastore incontra le Muse Mentre nell’Iliade e nell’Odissea l’evocazione del mondo degli dèi è costruita in relazione a vicende di cui sono protagonisti gli eroi del mito, Esiodo nella Teogonia celebra gli dèi immortali e le loro imprese, sviluppando il suo racconto all’interno della sola sfera divina.
Alla luce di questa particolarità, appare estremamente significativo che il poeta, prima di iniziare il vero e proprio canto teogonico, consacri un inno alle Muse e racconti le circostanze eccezionali in cui le dee in persona lo hanno scelto per celebrare la stirpe degli dèi immortali (Inno alle Muse, a cura di Pietro Pucci, Pisa 2007).
Mentre pascola i suoi armenti alle falde dell’Elicona, un monte della Beozia, Esiodo (Teogonia, 22-34) incontra le Muse che lo consacrano al canto e gli porgono un ramo d’alloro come insegna della sua nuova condizione: l’epifania divina e l’investitura poetica aprono ad Esiodo le porte di un sapere che coinvolge passato, presente e futuro, un sapere elettivo che egli deriva dalla connessione privilegiata con le figlie immortali di Mnemosyne e di Zeus, e che lo distingue dagli altri mortali.
Esiodo
La consacrazione di Esiodo da parte delle Muse
Teogonia, vv. 22-34 Loro una volta insegnarono un bel canto a Esiodo, che pasceva gli agnelli alle falde dell’Elicona divino. A me per primo le dèe rivolsero questo discorso, le Muse d’Olimpo, figlie di Zeus egioco: "Pastori che dimorate nei campi, esseri immondi, ventre soltanto; noi sappiamo raccontare molte menzogne, simili a verità, ma pure sappiamo, qualora ci aggradi, il vero cantare". Così dissero le figlie del grande Zeus, abili nella parola, e per me colsero uno scettro, un ramo d’alloro fiorito, meraviglia a vedersi; e m’ispirarono un canto divino, perché celebrassi le cose che saranno e che furono, e m’ingiunsero di cantare la stirpe dei beati sempre viventi, e loro stesse, all’inizio e alla fine, sempre dovevo cantare.
Erodoto, Teogonia, trad. it. di E. Vasta, Milano, Mondadori, 2004
La scena descritta non si limita a illustrare il carattere divino dell’ispirazione poetica, ma costruisce e legittima l’identità del poeta in quanto interprete degli dèi. Le Muse, nel racconto di Esiodo, non solo lo eleggono per cantare gli dèi, ma gli dettano il contenuto stesso del canto e cioè: onorarle, all’inizio come alla fine; celebrare Zeus e gli dèi immortali, tracciandone le genealogie e raccontandone le imprese; e mostrare come è avvenuta tra gli dèi la ripartizione degli "onori", le timai. Obbedendo al dettame divino, prima ancora di farne racconto, Esiodo comincia appunto il suo poema con l’inno alle Muse, di cui è parte la scena dell’epifania divina sull’Elicona: egli celebra la loro nascita, raccontando gli amori di Zeus e Mnemosyne; descrive la figura, e con essa le prerogative, delle fanciulle immortali, che ora si recano sull’Olimpo per allietare gli dèi con il canto e la danza, ora si manifestano ai mortali, scegliendone uno come loro portavoce; il poeta ne indica gli attributi divini anche designandole per nome, attraverso teonimi estremamente significativi (Clio, "che rende celebri", Euterpe, "che rallegra", Talia, "la festiva", Melpomene, "la cantante", Tersicore, "che ha diletto nella danza", Erato, "che suscita l’eros", Polinnia, "ricca di inni", Urania, "la celeste", Calliope, "dalla bella voce").
I versi e i procedimenti con cui Esiodo celebra le Muse – e che nel loro complesso riprendono una tradizionale struttura innica –, illustrano altresì cosa intendesse Erodoto nel segnalare che i Greci avrebbero imparato da Omero ed Esiodo nomi, onori, prerogative e aspetto degli dèi. Quel che Erodoto non precisa è che i poeti non inventano dal nulla, ma costruiscono le loro rappresentazioni all’interno di un sapere condiviso che solo ha il potere di legittimarle. Basti pensare che le Muse sono figlie di "Memoria" e che la nozione di verità in Grecia, l’aletheia, coincide con il "non-oblio", per valutare appieno la presenza legittimante della tradizione nella sistemazione poetica del pantheon ellenico.
In una cultura, come quella della Grecia antica, che non conosce la distinzione tra sacro e profano, e in cui la religione non è gestita da un clero specializzato e gerarchizzato, la preghiera che accompagna i sacrifici pubblici non è la sola parola ritualmente efficace.
La dimensione religiosa della parola poetica è perfettamente illustrata dagli Inni omerici, una raccolta di canti in onore degli dèi, alcuni dei quali risalgono all’epoca arcaica mentre altri sono più recenti: l’inno al tempo stesso invoca e celebra una divinità, ne descrive i nomi, l’aspetto e gli attributi, racconta alcune vicende della sua storia, ne esalta la potenza, evidenziandone la time, cioè gli onori assegnatigli nel mondo degli dèi e in quello degli uomini. L’Inno omerico ad Apollo, ad esempio, rappresenta il dio rievocando le circostanze della sua nascita sull’isola di Delo (III. Ad Apollo, 19-29) e prosegue raccontando la fondazione del suo più celebre santuario oracolare, quello di Delfi: la nascita di una divinità è in un certo senso la più paradigmatica delle sue epifanie, ragion per cui l’aspetto teogonico e genealogico riveste una particolare importanza nella celebrazione narrativa degli dèi.
La nascita di Apollo
Inni omerici, Inno III Ad Apollo
Come ti canterò, poiché tu sei celebrato in tutti gli inni? Dovunque, o Febo, si offre materia al canto in tuo onore: e sulla terra nutrice di armenti, e nelle isole. A te sono care tutte le cime, e le alte vette dei monti sublimi, e i fiumi che si versano in mare, e i promontori digradanti nelle acque, e i golfi marini. Forse dapprima come Leto ti diede alla luce, gioia per i mortali, piegandosi presso il monte Cinto, nell’isola rocciosa, Delo circondata dal mare? Da ogni parte i neri flutti battevano la spiaggia, al soffio sonoro dei venti. Di là muovendo, tu regni su tutti i mortali.
Inni omerici, a cura di F. Cassola, Milano, Mondadori, 1975
Contrariamente a quel che lascerebbe pensare una lettura superficiale della testimonianza di Erodoto citata in apertura, il pantheon greco non è però una realtà statica, le cui componenti sarebbero state definite una volta e per tutte nei poemi omerici ed esiodei. Gli dèi greci vivono nella storia della cultura cui appartengono e ne riflettono le mutazioni, nello spazio come nel tempo. Nel riconfigurare, secondo i contesti, il mondo divino, i poeti svolgono una funzione importante: le odi di Pindaro e i cori della tragedia attica, per fare un esempio, sono documenti altrettanto importanti dei poemi omerici ed esiodei per la conoscenza della religione greca. Lo stesso discorso vale per le iscrizioni metriche che celebrano gli dèi sui muri dei santuari greci fino all’epoca ellenistica e oltre.
Il pregiudizio secondo cui il politeismo greco avrebbe conosciuto un graduale declino a partire da un apogeo identificato con l’epoca arcaica si alimenta allo stesso ragionamento anacronistico che spinge a ricercare la versione primigenia di un mito al di là delle sue varianti. Come i racconti tradizionali in cui gli dèi si trovano rappresentati nell’ordine della narrazione, così anche i canti che li celebrano e i culti che li onorano nelle varie città greche presentano un pantheon in ridefinizione continua, in cui le figure delle divinità e le relazioni tra gli dèi, pur conservando tratti comuni, coerenti con il patrimonio culturale greco, si riarticolano per esprimere il presente. Il carisma dell’ispirazione divina conferisce alla parola poetica l’autorevolezza necessaria per tradurre in termini sensibili la presenza della divinità e stabilire di volta in volta una comunicazione efficace tra il mondo inalterabile degli dèi e quello variabile degli uomini mortali.