Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Anche nel Quattrocento continua la tradizione della lauda lirica, che insieme alla sacra rappresentazione costituisce una delle espressioni più vivaci del fervore devoto di laici e religiosi. Stando alle testimonianze dei molti laudari superstiti, infatti, le laude venivano lette e cantate sia nelle confraternite laicali, sia nei monasteri e nei conventi. Nei testi ritroviamo gli stessi temi che già erano presenti nella produzione due-trecentesca: l’insistenza sulla Passione salvifica di Cristo, l’invito pressante alla conversione, la lode della Vergine e dei santi.
La diffusione della lauda nel Quattrocento
Leonardo Giustinian (attribuito)
D’amor ferito, contagiato
L’amor a mi venendo
L’amor a mi venendo
sí m’à ferito el core,
sí che cum gran fervore
struzomi e vo languendo.
Languisco per dilecto
che tu mi fai sentire;
o Iesú benedicto,
fame d’amor morire.
E non posso soffrire,
amor, cotal ferita,
Iesú tôme la vita
ch’io me vo struçendo.
Strugome pur pensando
el tuo infinito amore,
ché andandote scampando
tu m’ài ferito el core.
Non puote’ più alora
a ti far resistentia,
perché la tua clementia
me fece andare cantando.
in Laudario giustinianeo. Edizione critica con note critiche del ritrovato Laudario Ms. 40 (ex Biblioteca dei Padri Somaschi della Salute di Venezia) attribuito a Leonardo Giustinian, a cura di F. Luisi, Venezia, Edizioni Fondazione Levi, 1983
Feo Belcari
Preghiera a Maria
Oratione di Nostra Donna
Poi che ’l tuo cor, Maria, è gratïoso,
et le tue oratïon son sempre accese
dinanzi al vero Dio, che in te discese,
soccorri me, che non trovo riposo.
La carne, el mondo e ’l demon malitioso
mi fanno guerra con mortale offese:
degna pregar Iesù, tuo figlio et sposo,
che le sue piaghe sien le mie difese,
et tanto del suo amor mi sia cortese,
che d’ogni mal io sia victorïoso.
ms. Magliabechiano VII 690 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, 1490
Il basso Medioevo è l’epoca delle grandi manifestazioni collettive della religiosità popolare: il XIV secolo si chiude con il grande moto penitenziale dei Bianchi, durante il quale migliaia di uomini e donne, in candide vesti, attraversano le città seguendo il crocifisso e invocando la pace per tutto il mondo. I penitenti cantano anche alcune laude, tra cui la celebre Misericordia, eterno Dio, in cui risuonano temi come la necessità del pentimento, l’esortazione all’umiltà, la potente intercessione della Vergine Maria. Accanto a questa dimensione collettiva del canto delle laude, che continua negli incontri periodici delle confraternite laicali, c’è tuttavia anche una dimensione privata della loro ricezione, che interessa soprattutto il pubblico femminile. Il domenicano Giovanni Dominici e il suo confratello Antonino Pierozzi raccomandano alle loro figlie spirituali di rivolgere a Dio “orazioni, laude, inni o altro”, o di cantare “sottovoce qualche lauda”.
I maggiori centri di produzione della lauda sono Venezia nel primo Quattrocento e Firenze dagli anni Cinquanta in avanti.
Leonardo Giustinian e la lauda nell’Italia settentrionale
Il principale laudografo del primo Quattrocento è il patrizio veneziano Leonardo Giustinian, fratello minore di Lorenzo , che nel 1451 diviene il primo patriarca della Serenissima. Discepolo di Guarino Guarini, Leonardo è un importante umanista, ma la sua fama resta legata anzitutto alla produzione poetica in volgare, sia profana (con le popolarissime canzonette, dette appunto “giustiniane”), sia sacra. Delle sue laude spirituali, la cui editio princeps risale al 1474, Giustinian compone testo e musica.
Il suo stile è ben presto imitatissimo, tanto che per molti testi risulta oggi difficile dire se si tratti di prodotti suoi o di qualche abile epigono. Tra le laude per le quali non paiono sussistere dubbi attributivi vanno ricordate O Iesù dolce, o infinito amor, Veniti tuti al fonte di Iesù, Spirito Sancto amore, Madre che festi colui che te fece. Va ascritta probabilmente a Giustinian anche la diffusissima lauda L’amore a mi venendo, che pure alcuni laudari attribuiscono a Iacopone da Todi (1230/1236-1306) e a Bianco da Siena.
Tra gli altri laudografi quattrocenteschi di area padana occorre ricordare almeno Caterina Vigri da Bologna, clarissa, autrice del trattato mistico Le sette armi spirituali e di 12 laude, nelle quali appare evidente l’influsso di Iacopone e della più aggiornata produzione veneta e fiorentina, e Giovanni Pellegrini, ferrarese, entrato ormai anziano nell’ordine dei Gesuati.
La lauda a Firenze
La tradizione della lauda spirituale a Firenze affonda le sue radici nelle pratiche devote delle confraternite laicali di Laudesi e Disciplinati, assai attive nella città fin dal Duecento. Se ne conservano tuttora gli statuti, che contenevano le prescrizioni e i compiti propri dei membri della confraternita, e vari laudari, i cui esemplari più splendidi sono quelli delle compagnie di Santo Spirito e di San Gilio, risalenti rispettivamente al 1330 e al 1380 circa. Mentre tuttavia in queste sillogi trecentesche le laude sono per lo più anonime, nel Quattrocento emergono alcune personalità individuali di laudografi, tra i quali spiccano in particolare Feo Belcari, Francesco d’Albizzo, Lucrezia Tornabuoni e il figlio Lorenzo de’Medici, Castellano Castellani.
Feo Belcari è autore di volgarizzamenti di testi mistici, sonetti, sacre rappresentazioni, agiografie (tra cui la celebre Vita del beato Giovanni Colombini) e di oltre 130 laude, che ne fanno il più prolifico e influente scrittore religioso del Quattrocento fiorentino. Le laude, raccolte per sua esplicita volontà in sillogi contenenti esclusivamente le sue opere in versi, conoscono poi, a partire dal 1486, varie edizioni a stampa. Composte in una grande varietà di metri (dalla ballata al sirventese, dalla sesta rima all’ottava), esse venivano intonate sulla melodia di liriche profane, secondo la consuetudine, assai diffusa nel Quattrocento, del “cantasi come”. A volte il testo di riferimento veniva addirittura riscritto in chiave spirituale, con la conservazione di alcune immagini o parole-rima che subivano però un mutamento di registro: si aveva in questo caso il contrafactum o “travestimento spirituale”. Belcari svolge nelle sue laude tutti i temi più diffusi della spiritualità basso-medievale: l’invito alla conversione rivolto da Cristo e dagli angeli al peccatore; la gioia per l’avvenuta conversione e la ritrovata comunione con Dio; la narrazione di episodi della vita di Cristo, di Maria e dei santi; l’esortazione alla penitenza, al fervore nella preghiera e al disprezzo del mondo; la parafrasi e il commento di testi spirituali. La cultura teologica dell’autore è assai vasta, ma la sua preferenza va a una lettura mistica della parola di Dio.
Fra le laude belcariane all’epoca più note e diffuse occorre ricordare Da che tu m’hai, Dio, el cor ferito, autentico compendio di teologia dogmatica in versi, in cui Dio stesso si presenta all’anima con le parole della sacra scrittura e della speculazione scolastica; Chi si veste di me, carità pura, altra lauda di notevole spessore teologico sul tema dell’amore divino, che nel 1467 Feo inviò a Paolo II; Udite matta pazzia e Mosso da santa pazzia, che costituiscono un dittico, di chiara ispirazione iacoponica, sulla follia del mondo contrapposta alla “sancta stultizia” di chi segue Dio; O beato Giovanni iesuato e Beata sono et per nome Villana, due lunghe laude narrative dedicate rispettivamente a Giovanni Colombini, fondatore dei Gesuati, e alla beata Villana dei Botti.
Anche dell’altrimenti poco noto Francesco d’Albizzo le antiche stampe riportano molte laude – un centinaio –, quasi totalmente trascurate dalla critica. Si tratta invece di testi interessanti, intonati a volte sulla melodia di liriche profane francesi o spagnole, e che variano gli usuali temi laudistici mediante il ricorso a episodi inconsueti della sacra scrittura, o persino ai Vangeli apocrifi e alla storia profana. Particolarmente rilevanti sono le laude santorali (circa un terzo del totale), spesso dedicate ai santi protettori di Firenze.
Lucrezia Tornabuoni, moglie di Piero de’Medici e madre di Lorenzo il Magnifico, è autrice di cinque poemetti sacri e di otto laude. I poemetti, in terzine o in ottave, narrano episodi biblici scelti certamente dalla nobildonna dopo accorta riflessione: abbiamo così la Vita di santo Giovanni Battista, patrono di Firenze; la Istoria di Judith vedova ebrea, la Storia di Ester regina e la Istoria della devota Susanna, incentrate sulle vicende – non prive di valenza politica – di tre illustri donne dell’Antico Testamento; infine la Vita di Tobia, personaggio biblico esemplare per la sua paziente fedeltà al volere divino. Lucrezia ama concentrarsi soprattutto sul senso morale della Sacra Scrittura, per impartire ai suoi lettori un insegnamento concreto e immediato. Le laude rileggono gli episodi più importanti del Nuovo Testamento: la Natività, la Passione, la Risurrezione, la Pentecoste. Assai fedele al dettato biblico e alla tradizione dell’innografia mediolatina, Lucrezia impiega per lo più versi brevi, che danno alle laude un andamento vivace e a tratti incalzante.
Con Lorenzo de’Medici e Castellano Castellani, ai quali andrà associato almeno Bernardo Giambullari, siamo ormai alla fine del secolo, quando Firenze è scossa dall’infuocata predicazione del frate ferrarese Girolamo Savonarola.
Il poliedrico signore di Firenze è autore di nove laude, la maggior parte delle quali composte durante la Settimana Santa del 1491 (anno in cui viene messa in scena anche la sua Rappresentazione di san Giovanni e Paolo). Se le tre laude più antiche – risalenti secondo alcuni studiosi agli anni Settanta –, così come i giovanili Capitoli e il poemetto De summo bono (1473), risentono a tratti della pia philosophia di Marsilio Ficino, nei testi della maturità Lorenzo, influenzato probabilmente dalla spiritualità savonaroliana, ritorna nell’alveo della più ortodossa tradizione laudistica cittadina, con il riferimento diretto alla sacra scrittura e ai Padri e la ripresa di stilemi tratti da Iacopone, Feo Belcari, e persino dalla madre Lucrezia.
Diversa è la poesia di Castellano Castellani, autore anche di sacre rappresentazioni e di Evangeli per la Quaresima in rima, al quale la critica più recente assegna una cinquantina di laude. Oltre a cimentarsi nella riscrittura di laude belcariane, Castellani compone travestimenti spirituali dei canti carnascialeschi allora in voga a Firenze, scanditi dalla presenza costante e quasi ossessiva di temi come il peccato, il castigo, la fugacità del tempo e la consistenza effimera dei beni terreni. Alcuni studiosi hanno assegnato a Castellani anche la diffusissima “Canzona de’ morti” Dolor pianto e penitenzia / ci tormenta tuttavia, attribuita spesso ad Antonio Alamanni.
Girolamo Savonarola
Nel 1482 giunge a Firenze, dalla natia Ferrara, un giovane frate domenicano dalla fervida eloquenza e dal furore profetico: Girolamo Savonarola. Vi rimarrà cinque anni, per poi ritornarvi nel 1490. Durante il suo primo soggiorno, tra il 1483 e il 1485, Savonarola compila un codicetto, oggi conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano (S.P.II.5), con schemi di prediche, appunti ed estratti da letture personali. Vi trascrive anche 20 poesie, 12 delle quali composte da lui stesso a partire dal 1472, tra cui quattro laude chiaramente influenzate dalla tradizione fiorentina e in particolare belcariana. Savonarola, inflessibile moralizzatore della troppo mondana società fiorentina, è profondamente convinto che la poesia non debba nascondere “la verità della fede con lusinghieri discorsi e la finzione dei pagani”: per questo conclude il suo Apologetico sull’indole e la natura dell’arte poetica (1491) con un’esortazione ai poeti, affinché fuggano la “superstizione degli idoli” e convolino “verso la croce di Cristo, verso la sua semplicità e umiltà”.