poesia
Il tratto distintivo della p. è innanzitutto il suo carattere intransitivo e autoriflessivo. La parola poetica, infatti, nel rimandare a sé stessa, produce una molteplicità di significati sempre nuovi e diversi, escludendo l’esistenza di un modello esterno predeterminato che ne possa costituire il referente, come accade invece nel caso delle parole del linguaggio comunicativo. Ed è proprio nel rinviare ai suoi elementi sensibili, ossia alle parole di cui è costituita, che la p. è in grado di generare significati sempre diversi. Di qui, a differenza del linguaggio ordinario, l’insostituibilità delle parole che compongono una p., e con ciò stesso il loro carattere non completamente riformulabile.
Nell’ambito della cultura greca la p. è riconoscibile come elemento costitutivo di quella μουσική τέχνη, ossia di quell’«arte delle Muse» la cui caratteristica fondamentale consiste nel presentarsi come unione indissolubile di ritmo, suono, danza e logos. Più in generale, ciò che emerge è la tendenza a pensare la p. come un particolare tipo di sapere che le Muse, figlie non a caso di Zeus e di Mnemosyne (la Memoria), concedono ad alcuni uomini. È quanto emerge, in modo esemplare, dall’invocazione alla Musa che apre l’Iliade di Omero, o da quella che si trova all’inizio della Teogonia di Esiodo. In questa prospettiva la p., lungi dal costituire l’espressione di una intenzionalità soggettiva predeterminata rispetto alla concreta realizzazione dell’opera poetica, tende piuttosto a presentarsi come la rivelazione di una «verità» intesa come ἀλήϑεια, ossia come paradossale unione di illuminazione e nascondimento: si tratta insomma di una verità che si sottrae a qualunque possibilità di spiegazione in termini logico-concettuali. Successivamente, prima con Democrito e poi con Platone, si attesta l’idea che la p. sia l’espressione di una «divina follia» intesa come ϑεῖα μανία, e quindi di uno stato di ἐνϑουσιασμός, di «entusiasmo» (➔) o invasamento divino (Platone, Ione, 533 e-534 d; Fedro, 245 a; Leggi, 719 c). Ed è appunto in quanto espressione di una tale possessione mistica che la p. mostra la sua insopprimibile alterità rispetto all’ἐπιστήμη, ossia rispetto alla scienza. Di qui allora l’aspra condanna, non soltanto epistemologica ma anche etico-politica, che Platone pronuncia nei confronti della p. e che ne giustifica l’esclusione dall’orizzonte dello Stato ideale. Al contrario, in Aristotele la p., sottratta alla condanna platonica, viene ricondotta nell’orizzonte cognitivo della τέχνη, e quindi nella sfera del sapere. E se la p. è «più filosofica della storia» (Poetica, 1451 b 5), ciò è una conseguenza del fatto che alla p. è affidato il compito di rappresentare non la contingenza dei fatti (il particolare), bensì le leggi universali del loro accadere (la necessità, il verosimile). La riflessione aristotelica intorno al concetto di p. (τέχνη ποιητική) costituisce, nell’ambito della cultura occidentale, la premessa di ogni ars poetica, da Orazio alle riflessioni di carattere trattatistico prodotte tra il sec. 16° e 17°.
A partire dal Settecento la p. viene inserita all’interno del cosiddetto sistema delle belle arti, assumendo così un significato per molti versi nuovo rispetto a quello che alla stessa p. veniva attribuito nel passato. Essa assume una rilevanza via via più consistente per la riflessione filosofica, e in partic. per lo sviluppo del pensiero critico ed estetico, da Baumgarten a Ch. Batteux, da Burke a Lessing. Comunque a essere particolarmente significativo è il contributo offerto da Kant, secondo il quale, se è vero che alla p. deve essere assegnato il «primo posto» tra le belle arti, è anche vero che un tale primato è strettamente connesso al suo presentarsi, in modo esemplare, come «idea estetica». Attraverso la nozione di «idea estetica», infatti, Kant designa quella rappresentazione dell’immaginazione che, producendo dal suo stesso interno una molteplicità virtualmente illimitata di significati, ci dà occasione di pensare molto, senza però che nessun significato determinato (e quindi nessun concetto) sia in grado di esaurire quella infinita ricchezza e produttività (Kant, Critica della facoltà di giudizio, § 49 e § 53). Di fatto, come appunto scrive Kant, nel comporre una p. il poeta osa rappresentare qualcosa che, nel suo stesso manifestarsi attraverso la struttura fisico-materiale della parola, non può non restare in qualche modo sempre irrappresentabile. Questa tendenza ad attribuire alla p., oltre a una funzione conoscitiva, anche un sostanziale primato rispetto alle altre arti, si fa particolarmente evidente nell’ambito della tradizione romantica, da Schiller a Schlegel allo stesso Hegel.
Il 20° sec. si apre con la riflessione di Croce, per il quale la nozione di «espressione poetica» tende a identificarsi, e insieme a confondersi, con quella di arte in generale, e prosegue con quella di Heidegger, secondo il quale la nozione di p. (Dichtung), intesa come modo eminente del dire, e quindi come rivelazione originaria dell’essere, è costitutivamente e indissolubilmente connessa a quella di ‘pensiero’ (denken). Di qui, in Heidegger, l’esigenza di pensare la p. come messa in opera esemplare della verità (una verità intesa, ancora una volta, come ἀλήϑεια). Comunque nel Novecento la p. è caratterizzata dal fatto di collocarsi consapevolmente ai margini del non-dicibile, ossia del silenzio. L’opera di S. Beckett lo mostra in modo esemplare, esprimendo però nello stesso tempo l’esigenza di continuare a parlare, pur sapendo che non c’è più nulla da dire. Ed è appunto in riferimento all’opera di Beckett che Adorno riconosce alla p., soprattutto dopo la cesura storica rappresentata da Auschwitz, una funzione innanzitutto testimoniale. Di qui, sempre per Adorno, il valore della memoria che fa sì che nella p. la dimensione estetica sia strettamente e necessariamente connessa a quella etica.