Poesia
di d'Arco Silvio Avalle
Poesia
sommario: 1. Poesia in crisi. a) Poesia e vita. b) Poesia come ‛messaggio' . c) I due volti della poesia moderna. d) La poesia umiliata. e) Poesia e prosa. f) Differenze fra poesia e prosa. g) Poesia e lingua parlata. h) Poesia e allucinazione. i) comprensione della poesia e teoria dell'informazione. 2. Progetti per una nuova poesia. a) La poesia e altro. b) Il segno letterario e il ‛personaggio'. c) Gli altri segni letterari. d) 'Poesia d'arte' e ‛poesia popolare' nel XIX secolo. e) 'Poesia d'arte' e ‛poesia popolare' nel XX secolo. f) Etnografia e antropologia culturale. g) La poesia: dilatazione del canone. h) Sistemi letterari e fattori anomali. i) L'universo semiologico della poesia attuale. □ Bibliografia.
1. Poesia in crisi
a) Poesia e vita
È da tempo immemorabile che la poesia occupa un posto privilegiato (autonomo) nell'ambito dell'esperienza letteraria. Tale posizione di rilievo le sembra garantita, oltre che dalla sua stessa origine, che gli antichi non esitavano a definire ‛divina', dal tipo di funzione, non solo religiosa e morale, ma anche politica, che le è stata assegnata sin dall'inizio. La tradizione si è protratta nel tempo e, nonostante i dubbi che da almeno mezzo secolo a questa parte si sono venuti addensando su tale sua presunta indipendenza, non sono mancati scrittori che ne hanno rivendicato, se non la specifica individualità, il ruolo primitivo di attività rivolta ad assolvere compiti di importanza sociale e civile ancora durante l'ultimo conflitto (vorrei qui ricordare le commoventi epigrafi eluardiane, L'amour, la poésie 1929, Poésie et vérité 1942) e oggi, ad esempio, in America e in Russia, soprattutto a livello di ‛esecuzione' (la poesia cantata oppure recitata di fronte a uditori politicizzati).
La sensazione è dunque che la poesia in quanto attività gestita a fini sociali non sia morta in alcuni settori della nostra cultura, almeno dal punto di vista delle avanguardie meno propense al culto dei sentimenti individuali. Ci si potrebbe però chiedere se si tratti di pura e semplice adesione ai moduli di esperienze socialmente ‛accettate', oppure di un revival, di un ritorno alle origini nell'attesa dell'arrivo di un nuovo Medioevo, di un'epoca di barbarie, di morte e di distruzione. Certo è che il tenue diaframma che separa la poesia dalla prassi si è in molti casi infranto, per cui a un certo punto riesce difficile dire se la poesia si distingua ancora dalla vita, almeno come siamo stati abituati a pensare da Aristotele in poi. È assai probabile che il riassorbimento della poesia nel gesto abbia una sua moralità, che costituisca, in altre parole, una misura di igiene personale oltre che pubblica. La poesia-azione rappresenta comunque uno dei filoni più importanti della cultura novecentesca, quanto meno dai cubo-futuristi in poi, e di conseguenza qualsiasi ‛discorso sulla poesia' che si voglia esaustivo non potrà disinteressarsene, pena la sua riduzione a specola privilegiata, per di più rivolta a un certo tipo di passato e non certo, come s'è detto, a tutta la nostra cultura in quanto comprensiva di esperienze eventualmente specifiche di altre civiltà (tanto per evitare ogni tentazione di eurocentrismo). Comunque sia, pure questo è un motivo di inquietudine per chi intenda occuparsi di poesia, visto che l'oggetto della sua ricerca (una volta sussunto, in posizione subalterna, nella scienza delle tecniche gestuali o comportamentistiche) potrebbe anche risultare inesistente.
b) Poesia come ‛messaggio'
D'altro canto, mai come in questi ultimi tempi si è tanto parlato di ‛messaggio', di ‛comunicazione', di ‛mittente', di ‛destinatario', e così via, a proposito della poesia, e in genere, della letteratura. La poesia rappresenta oramai per molti lettori, e soprattutto per i più giovani, un messaggio, vuoi sociale, politico o religioso; il fine che essa si propone sembra essere divenuto quello di ‛comunicare' qualcosa, in genere a più persone, ma anche, in casi eccezionali (vedi l'Only Begetter di Shakespeare), a una sola persona. Da questo punto di vista il rischio si fa evidentemente grosso per la poesia ‛in sé'. Essa infatti si trasforma in epifonema dell'informazione (indipendentemente dalla qualità dell'uditorio, di massa, oppure ridotto ai soliti happy few) a tutto vantaggio del contenuto o, come si dice oggi, dei significati, finendo così col confluire insieme a tutti gli altri messaggi in una sorta di universo cibernetico che ne potrebbe metter in crisi la specificità. Tuttavia, è appunto tale tendenza che spiega come la poesia sia venuta assumendo in questi ultimi tempi e soprattutto in seguito all'opera maieutica di R. Jakobson, l'aspetto di un ‛segnale', sia esso da vedersi come un fatto intenzionale e rivolto a un pubblico preciso, oppure come una sonda lanciata nello spazio verso mondi ignoti, una bottiglia gettata in mare in attesa dell'arrivo di un salvatore (il lettore impreveduto, l'amico fraterno giunto in incognito).
Se dunque la poesia è un ‛segnale', ci si potrebbe chiedere quale posto occupi nell'universo semiologico attuale, se essa ad esempio non sia distinguibile dal punto di vista del contenuto informativo dai sistemi di segni verbali (la lingua insomma), oppure se faccia parte di un sistema particolare, quello dei segni ‛culturali', come sostenuto ad esempio ancora ultimamente dai semiologi della scuola di Tartu che parlano di ‟sistema di modellizzazione secondario" (da opporsi alla lingua naturale, definita ‟sistema di modellizzazione primario" da B. Uspenskij), e, in questo caso, se costituisca un subsistema indipendente oppure se sia indistinguibile dagli altri fenomeni culturali.
Il problema che ci si pone è - come risulta chiaramente da tali interrogativi - quello della ‛specificità' della letteratura e, più in particolare, della poesia. Solo una risposta positiva all'ultimo dei quesiti qui sopra elencati potrà infatti giustificare su un piano non più semplicemente empirico e pratico, ma rigorosamente teorico, l'utilità e il ben fondato logico di un discorso sulla poesia in quanto tale. Con questo è ovvio che la necessità stessa di affrontare problemi del genere finisca con l'escludere a priori il primo corno del dilemma, se non altro nella misura in cui esso comporterebbe un'assunzione della poetica e quindi della scienza della letteratura nell'ambito di una linguistica generale indifferenziata.
c) I due volti della poesia moderna
L'aprire un discorso sulla poesia o, meglio, sulla natura della poesia non significa oggi, come forse neppure ieri, o ancora più su nel tempo, uscire fuori della nostra dimensione cronologica, dall'epoca in cui viviamo, ma, tutto al contrario, affrontare taluni quesiti oramai non più dilazionabili, come quello se sia ancora possibile oggi fare della poesia nel senso tradizionale della parola, che senso abbia tale attività e quali siano i suoi fini.
Per quel che riguarda la situazione italiana, il ‟teorema della morte della poesia (s'intenda, come ‛genere' indipendente)" appare non del tutto inverosimile a Contini (v., 1972, p. 26). Essa infatti si sarebbe trasferita nella ‟dialettica della lotta (o, che fa lo stesso, della collaborazione) fra espressione algebrica, in definitiva translinguistica, dei risultati scientifici e cifratura appassionata e suadente della ricerca" (ibid.). La constatazione non esclude però che tentativi di ‛recupero' (della poesia in quanto tale, si badi bene) vengano periodicamente esperiti, anche se poi gli strumenti impiegati (la distruzione dei linguaggi tradizionali, la riflessione sulla poesia o metapoesia, ecc.) non mettono in forse o, meglio, rendono estremamente probabile un ritorno del figliol prodigo sotto il tetto paterno.
Prima dunque di affrontare la soluzione estrema, che ridurrebbe il nostro discorso a zero, sarà forse opportuno riandare con la memoria a quelli che, a nostro avviso, costituiscono i presupposti contingenti della messa in crisi della poesia. Essi sono sostanzialmente due, anche se poi finiscono col coincidere sul piano tecnico della prevista e auspicata revisione linguistica degli strumenti espressivi tradizionali.
Il primo può essere sintetizzato con la celebre formula di tordre le cou à l'éloquence, che è quanto dire ‛prosaicizzare' la poesia (umiliazione della poesia), per cui si veda più avanti i ÈÈ d-g. Il secondo consiste invece nell'esaltare, ‛sublimare' l'attenzione del lettore attraverso pratiche allucinatorie quali l'ambiguità o polivalenza semantica oppure l'immissione nel testo di elementi linguistici e tematici abnormi secondo la tecnica dell'écart e dello ‛straniamento' (esaltazione della poesia), al fine di ‛attualizzare' un lessico e una sintassi oramai consunti dall'uso (v. §§ h, i).
d) La poesia umiliata
Quello della ‛prosaicizzazione' della poesia è motivo ricorrente dalla letteratura romantica in poi. Uno dei primi tentativi fu ad esempio quello compiuto in Russia nel decennio 1830. ‟A quel tempo - scrive J. Lotman (v., 1970; tr. it., p. 219) - cominciò a formarsi quella costruzione d'intonazioni che B. M. Ejchenbaum ha definito come ‛parlata'. Elementi di formazione di simile intonazione furono fondamentalmente i diversi tipi di ‛rifiuto': rifiuto della sintassi ‛poetica' [...] rifiuto del particolare lessico ‛poetico' [...]". Più conseguente l'operazione di R. Browning (‟Starknaked thought is in request enough: Speak prose and hollo it till Europe hears!"), la cui prodigiosa attualità riesce di giorno in giorno sempre più flagrante. La tecnica è ben nota e in Italia è stata validamente sperimentata da Montale, come già riconosciuto da Gargiulo, sin dalle Occasioni; essa ha tuttora cultori validissimi nell'Europa occidentale e in America, dove è giunta a coniugarsi con l'arte figurativa. A parte i risultati che, evidentemente, variano da poeta a poeta, l'operazione si è rivelata doppiamente delusoria sul piano teorico per una sorta di sottile incomprensione sia di quanto distingue la poesia dalla prosa (v. §§ e, f), sia della distanza che separa la prosa e la poesia dalla lingua parlata (v. § g).
Prima di tutto sarà forse eccessivo, anche per l'epoca più vicina a noi, parlare di ‛riduzione' della poesia allo stato della prosa. L'operazione ‛umiliazione della poesia', tranne nei casi di autocensura come successe per esempio a Rimbaud, non è mai andata oltre una prudente, e non certo indiscriminata, immissione di elementi prosastici nella poesia, il che significa riconoscimento dei diritti della poesia e di un suo accresciuto spessore letterario tanto dal punto di vista tematico, quanto da quello più specificamente linguistico.
La poesia dunque è in crisi, ma con questo non si è mai affermato o dimostrato, sia pure implicitamente, che la poesia non si differenzi ‛in qualche modo' dalla prosa. Si può giungere sino al vers libre, alla rimozione forzata della rima, alla ridistribuzione degli accenti ritmici, all'interpolazione di ‛citazioni' in prosa come nel Waste land di T. S. Eliot (non diverse dalle ‛citazioni' di pittori antichi in opere moderne, sempre più frequenti in questi ultimi anni), al discorso continuo, al poème en prose, e così via, ma nell'operatore non viene mai meno la ‛coscienza' che quello che fa è poesia. Tale ‛coscienza' è, ad esempio, nettissima in Rimbaud il quale, per una sorta d'infantile divinazione, ha previsto nei pur minimi particolari l'attuale riduzione di non poca poesia (non necessariamente ‛impegnata') al bric-à-brac della prosa più sprovveduta.
‟Depuis longtemps je me vantais de posséder tous les paysages possibles, et trouvais dérisoires les célébrités de la peinture et de la poésie moderne.
J'aimais les peintures idiotes, dessus de portes, décors, toiles de saltimbanques, enseignes, enluminures populaires; la littérature démodée, latin d'église, livres érotiques sans orthographe, romans de nos aieules, contes de fées, petits livres de l'enfance, opéras vieux, refrains niais rhythmes naïfs.
Je rêvais croisades, voyages de découvertes dont on n'a pas de relations, républiques sans histoires, guerres de religion étouffées, révolutions de moeurs, déplacement de races et de continents: je croyais a tous les enchantements.
J'inventai la couleur des voyelles! - A noir, E blanc, I rouge, O bleu, U vert. - Je réglai la forme et le mouvement de chaque consonne, et, avec des rhythmes instinctifs, je me flattai d'inventer un verbe poétique accessible, un jour ou l'autre, à tous les sens" (Une saison en enfer. Délires. II Alchimie du verbe, in Oeuvres complètes, Paris 1963, pp. 232-233).
Dunque il materiale è quanto di più scandaloso si possa immaginare: ‟la letteratura fuori moda, latino ecclesiastico, libri pornografici sgrammaticati, romanzi delle bisnonne, racconti di fate, libri per l'infanzia, vecchi libretti d'opera, ritornelli insulsi, ritmi ingenui". Ma il fine, almeno sul piano delle intenzioni, non si differenzia da quello dei poeti che si propongono di ‛sublimare' l'attenzione del lettore. Rimbaud è esplicito a questo riguardo: la poesia, un ‟verbo poetico [si osservi la terminologia della tradizione orfica] accessibile, un giorno o l'altro, a tutti i sensi".
e) Poesia e prosa
Quella di distinguere fra prosa e poesia è pratica che risale ad epoca immemorabile e, nonostante i tentativi di alcuni filosofi (fra cui ad esempio Croce) di ridurle a un'unica categoria (l'arte), resta pur sempre l'oscura ‛coscienza' che fra le due ci sia un salto di ‛qualità', qualcosa di irrimediabile che le separa nell'universo dei prodotti letterari. Forse qui il procedimento dimostrativo andrebbe riformulato in termini meno semplicistici di quelli impiegati dalla retorica e dalla poetica classiche, termini che comunque Croce ha da tempo provveduto a espungere dalla discussione sulla natura dell'arte. Questo non toglie che a essi si ritorni periodicamente, come se l'essenza della poesia si basasse su istituti grammaticali collaudati da una qualche tradizione.
L'ultimo tentativo, in ordine di tempo, di dare un fondamento ‛positivo' a tale differenza è quello operato da Lotman nel suo, per altro discutibile, libro sulla Struttura del testo poetico (v. Lotman, 1970; tr. it., pp. 120 ss.). Il principio su cui si ritorna con insistenza è che ‟la rappresentazione del limite tra verso e prosa" si colleghi ‟non solo con la realizzazione, nel testo, di questi o quegli elementi della struttura, ma anche con la loro assenza significante" (ibid., p. 129). Fra tali elementi Lotman elenca ad esempio la maggiore complessità della prosa nei confronti della poesia (ibid., pp. 126 e 130), oppure la stessa impostazione ‟grafica" del testo (ibid., pp. 131 e 212). In altri luoghi ricorda che ‟il linguaggio poetico possiede una risonanza diversa da quello della prosa e della conversazione. Esso ha una melodia, facilmente può essere declamato" (ibid., pp. 147 e 213 ss.); infine che ‟il ritmo è segnale di appartenenza del testo recepito [...] alla ‛poesia in quanto tale'. Esso chiarisce [...] i limiti del discorso poetico che si esprimono nelle opposizioni ‛poesia-prosa' e ‛poesia-testo non artistico' ‟ (ibid., p. 187).
Ognuno di questi elementi, come si potrà convenire facilmente, ha di per sé un valore molto relativo e non tocca la sostanza del problema se non in via tangenziale. Gli stessi argomenti potrebbero infatti valere anche in favore della prosa, per cui - conclude Lotman - non resta che affidarsi a quanto ‛nella pratica' ci si aspetta che debba essere la poesia. ‟Il verso è una unità di articolazioni sintattico-ritmiche e di intonazioni del testo poetico. Questa definizione, a prima vista assai triviale e per niente nuova, sottintende che la ricezione di un brano staccato di testo come verso si situa a priori: essa deve precedere l'evidenziarsi dei ‛contrassegni' concreti del verso. Nella c o s c i e n z a dell'autore e dell'uditore deve già esistere, in primo luogo, un'idea di ciò che è la poesia e, in secondo luogo, un sistema reciprocamente concordato di segnali che obbligano colui che trasmette e colui che riceve a prepararsi a quella forma di rapporto che si chiama poesia. In qualità di segnali possono presentarsi la forma grafica del testo, le intonazioni declamatorie, una serie di contrassegni che vanno sino alla posa di colui che parla, le denominazioni dell'opera o persino una determinata situazione non linguistica (per esempio, noi siamo a una serata di poesia e sappiamo che l'uomo che sale sul palcoscenico è un poeta)" (ibid., p. 212).
La definizione qui proposta da Lotman ha numerosi precedenti nella storia della ‛poetica' russa (Potebnja e Tynjanov ad esempio). Se la poesia è un ‟rapporto" basato su ‟un sistema reciprocamente concordato di segnali", è indubbio che essa si situa non tanto sul piano degli istinti naturali, quanto su quello, storico, di una convenzione accettata socialmente. Quando si parla di ‛coscienza', non ci riferiremo quindi d'ora in poi a una presunta naturalità del fenomeno in base a premesse, per così dire, intuizionistiche o immanentistiche, ma a un certo tipo di ‛esperienza' localmente connotata, legata a una fase precisa nella storia della cultura. Che poi questa ‛esperienza' si sia trasformata in ‛coscienza' è un altro fatto che non ci deve però ingannare sulla sua origine e sui suoi limiti, oltre che cronologici, anche geografici e, in taluni casi, addirittura sociali.
Sull'essenza della poesia ‛in sé', in quanto specifica ‛qualità' di realizzazione dei ‛segni' rientranti in quell'insieme che convenzionalmente indichiamo col termine di ‛letteratura', c'è tutta una vastissima bibliografia che ha dovuto, comunque, riconoscere il proprio fallimento dal punto di vista di una spiegazione ‛razionale' del fenomeno. È il fondo oscuro di un passato di cui si è spenta la memoria che preme sulla definizione di poesia, e che, nello stesso tempo, mette in moto quella acutissima e quasi dolorosa ‛coscienza' che il mondo poetico ha una sua particolare ragione di essere nell'universo dei prodotti letterari, che esso non può confondersi, ad esempio, con la prosa e tanto meno con il discorso quotidiano. Il fare appello in questa occasione, al concetto di ‛coscienza' non appaia quindi un alibi di fronte alla responsabilità di verificarne o, eventualmente, di falsificarne la solidità teorica e razionale. Eppure basterà qui riandare con la memoria alle esperienze che ogni lettore può aver fatto nel corso di una ‛esecuzione' sinottica, ad esempio, delle Fleurs du mal e delle prose contenute nello Spleen de Paris di Baudelaire, o delle poesie e delle Illuminations di Rimbaud, o ancora, per passare ad epoca più vicina a noi, dei montaliani Ossi di seppia e di non poche delle prose raccolte nella serie della Farfalla di Dinard, per rendersi conto che il medesimo tema trattato in versi o in prosa comporta nel passaggio dall'uno all'altro ‛genere' una messa in crisi della sua struttura profonda. Il lettore non saprebbe indicare con esattezza su che cosa (su quali dettagli tecnici) si fondi la differenza; egli ha però la ‛coscienza' che il tema trattato in versi non è neppur lontanamente paragonabile a quello stesso tema una volta che sia trasferito nel ‛genere' della prosa.
f) Differenze fra poesia e prosa
A titolo di esempio si potrebbe rileggere La chevelure di Baudelaire in parallelo con uno dei poèmes en prose contenuti in Le spleen de Paris, Un hémisphère dans une chevelure (XVII). Prima di tutto la poesia: ‟O toison, moutonnant jusque sur l'encolure! / O boucles! O parfum chargé de nonchaloir! / Extase! Pour peupler ce soir l'alcove obscure I Des souvenirs dormant dans chette chevelure, / Je la veux agiter dans l'air comme un mouchoir! // La langoureuse Asie et la brulant Afrique, / Tout un monde lointain, absent, presque défunt, / Vit dans tes profondeurs, forêt aromatique! / Comme d'autres esprits voguent sur la musique, / Le mien, ô mon amour! nage sur ton parfum, // J'irai là-bas où l'arbre ei l'homme, pleins de sève, / Se pâment longuement sous l'ardeur des climats; / Fortes tresses, soyez la houle qui m'enlève! / Tu contiens, mer d'ébène, un éblouissant rêve / De voiles, de rameurs, de flammes ei de mais: // Un pori retentissant où mon âme peui boire / A grands flots le parfum, le son et la couleur; / Où les vaisseaux, glissant dans l'or et dans la moire, / Ouvrent leurs vastes bras pour embrasser la gloire / D'un ciel pur où frémit l'éternelle chaleur. // Je plongerai ma tête amoureuse d'ivresse / Dans ce noir océan où l'autre est enfermé; / Et mon esprit subtil que le roulis caresse / Saura vous retrouver, ô féconde paresse! / Infinis bercemenis du loisir embaumé! // Cheveux bleus, pavillon de ténèbres tendues, / Vous me rendez l'azur du ciel immense et rond; / Sur les bords duveiés de vos mèches tordues / Je m'enivre ardemment des senteurs confondues / De l'huile de coco, du musc eitdu goudron. // Longtemps! toujours! ma main dans la crinière burde / Sèmera le rubis, la perle et le saphir, / Afin qu'à mon désir tu ne sois jamais sourde! / N'es-tu pas l'oasis où je rêve, et la gourde / Où je hume à longs traits le vin du souvenir?
Ed ecco la prosa (Un hémisphère dans une chevelure): ‟Laisse-moi respirer longtemps, longtemps, l'odeur de tes cheveux, y plonger tout mon visage, comme un homme altéré dans l'eau d'une source, et les agiter avec ma main comme un mouchoir odorant, pour secouer des souvenirs dans l'air.
Si tu pouvais savoir tout ce que je vois! tout ce que je sens! tout ce que j'entends dans tes cheveux! Mon âme voyage sur le parfum comme l'âme des autres hommes sur la musique.
Tes cheveux contiennent tout un rêve, plein de voilures et de môtures; ils contiennenet de grandes mers dont les moussons me portent vers de charmants climats, où l'espace est plus bleu et plus profond, où l'atmosphère est parfumée par les fruits, par les feuilles et par la peau humaine.
Dans l'océan de la chevelure, j'entrevois un port fourmillant de chants mélancoliques, d'hommes vigoureux de toutes nations et de navires de toutes formes découpant leurs architectures fines et compliquées sur un ciel immense où se prélasse l'éternelle chaleur.
Dans les caresses det chevelure, je retrouve les langueurs des longues heures passées sur un divan, dans la chambre d'un beau navire, bercées par le roulis imperceptible du port, entre les pots de fleurs et les gargoulettes rafraîchissanies.
Dans l'ardent foyer de la chevelure, je respire l'odeur du tabac mêlée à l'opium et au sucre; dans la nuit de la chevelure, je vois resplendir l'infini de l'azur tropical; sur les rivages duvetés de la chevelure, je m'enivre des odeurs combinées du goudron, du musc et de l'huile de coco.
Laisse-moi mordre longtemps tes tresses lourdes et noires. Quand je mordille tes cheveux élastiques et rebelles il me semble que je mange des souvenirs".
La precedenza cronologica dei due testi (La chevelure è del 1859, mentre di Un hémisphère dans une chevelure si hanno tre edizioni con varianti, rispettivamente del 1857, del 1861 e del 1862) non ha, ai nostri effetti, importanza. Alle sette strofe della poesia corrispondono esattamente i sette capoversi della prosa. Il contenuto delle sette parti è pressoché identico nei due testi e la strutturazione formale degli argomenti corre praticamente parallela, compreso il particolare della ‛composizione anulare', vale a dire la messa in evidenza all'inizio e in fine della parola souvenir. I ricordi sono quelli nascosti nella capigliatura di Jeanne che Baudelaire porta alla luce accecante di un mattino tropicale.
Il gusto per l'esotismo e le immagini relative, tutto sommato abbastanza comune nel sistema di ‛segni' (o universo letterario) del primo romanticismo, non ha forse più al giorno d'oggi il medesimo potere magico ed evocatorio di un tempo. Eppure, una volta immesso nel giro della poesia, esso viene, per così dire, alleggerito della sua specifica connotazione temporale. Evidentemente a questo proposito si può fare appello a fattori di varia natura. Prima di tutto alla struttura incomparabile dell'alessandrino, solenne e quasi funebre, che con le sue misure ampie e ritmiche riesce a dare una sorta di fissità ieratica a un mondo fra l'onirico e l'allucinato e, nello stesso tempo, un rigore nuovo all'assetto sintattico delle frasi. Fenomeno questo particolarmente vistoso nella penultima parte, dove alla purezza di una cadenza come quella della prosa: ‟sur les rivages duvetés de la chevelure, je m'enivre des odeurs combinées du goudron, du musc et de l'huile de coco", la poesia oppone qualcosa di assoluto tanto sul piano lessicale (‟mèches tordues" contro ‟chevelure", ‟senteurs confondues" contro il banale ‟odeurs combinées"), quanto su quello ritmico, come nel caso dell'enumerazione finale, rovesciata nella poesia: ‟Sur les bords duvetés de vos mèches tordues / Je m'enivre ardemment des senteurs confondues / De l'huile de coco, du musc et du goudron".
Altri elementi che fanno, per così dire, sentire lo stacco fra i due testi, possono ricavarsi dal diverso modo di strutturare le immagini. Così, ad esempio, nella prima parte il poeta vuole agitare i capelli come un fazzoletto per farne cadere i ricordi (molto probabilmente i ricordi di un sogno...). Nella prosa scrive: ‟Laisse-moi [...] les [sc. les cheveux] agiter avec ma main comme un mouchoir odorant, pour secouer des souvenirs dans l'air". Nella poesia cade la frase, non certo felicissima, di ‟secouer des souvenirs dans l'air", e a essa viene sostituita l'immagine di un interno tenebroso popolato da ricordi: ‟[...] Pour peupler ce soir l'alcove obscure / Des souvenirs dormant dans celle chevelure, / Je la veux agiter dans l‛air comme un mouchoir"
Lo stesso dicasi dell'ultima frase, dove al crudo, ma anche gracile, realismo della prosa: ‟Quand je mordille tes cheveux élastiques et rebelles il me sembla que je mange des souvenirs", si oppone una bellissima metafora di sogno, il ‟vino del ricordo", l'ebrezza della memoria: ‟N'es-tu pas l‛oasis où je rêve, el la gourde, / Où je hume à longs traits le vin du souvenir?"
Potremmo ancora osservare la diversa giacitura di alcuni avverbi ‛chiave' come longtemps. Nella prosa essi sono nascosti dopo il verbo: ‟Laisse-moi respirer longtemps, longtemps [...]"; nella poesia invece sono messi debitamente in rilievo quello che conta è la durata ...: ‟Longtemps! toujours! ma main dans la crinière lurde / Sèmera le rubis [...]".
Importante anche l'uso della punteggiatura che suggerisce una diversa ‛esecuzione', piana e puramente dichiarativa nella prosa (‟Laisse-moi mordre longtemps les tresses lurdes et noires", e qui segue un punto fermo; ‟Quand je mordille tes cheveux élastiques et rebelles il me semble que je mange des souvenirs", altro punto fermo), commossa e sintatticamente scandita nella poesia (tre punti esclamativi nel primo periodo: ‟Longtemps! toujours! [...] / [...] / [...] tu ne sois jamais sourde!" e un'interrogativa diretta nel secondo periodo: ‟N'es-tu pas [...]?", che evoca con un tuffo al cuore la persona che ha scatenato quei ricordi).
Più indicativa infine la cura estrema con cui Baudelaire sembra aver distrutta la ‛rima' nel testo in prosa. L'impressione che se ne ricava è, a volte, di un periodare sintatticamente acerbo (forse per non essere riuscito a sbarazzarsi completamente della ‛poesia'?). L'unico elemento su cui si fonda l'architettura della prosa è l'anafora, in una sorta di litania dolorosa. Si vedano i gruppi di tre o più elementi legati paratatticamente o per via di coordinazione o di ripetizione. Primo capoverso: ‟Laisse-moi respirer [...] plonger [...] agiter". Secondo capoverso: ‟Si tu pouvais savoir tout ce que [...] tout ce que [...] tout ce que". Quarto, quinto e sesto capoverso: ‟Dans l'océan de ta chevelure [...]. Dans les caresses de ta chevelure [...]. Dans l'ardentfoyer de ta chevelure [...]dans la nuit de ta chevelure [...]sur les rivages duvetés de ta chevelure". Ma nella poesia la rima rivela in pieno la sua funzione sublimante. Vocaboli nascosti fra le pieghe della prosa e per tanto senza rilievo di sorta, assumono attraverso l'omofonia finale del verso un potere di suggestione eccezionale. Basti qui osservare il caso di mouchoir, quasi invisibile nell'enunciato prosastico (‟comme un mouchoir odorant") e nella poesia invece accoppiato in quella rima straordinaria con nonchaloir che ne esalta la funzione magica e propiziatoria. Lo stesso dicasi di chevelure, la cui apparizione è preparata dalla rima con encolure e, soprattutto, con obscure, dove la luminosità dei ricordi si contrappone allo squallore di un giaciglio tenebroso. O ancora il parfum, tutto sensuale nella prosa, e che nella poesia si lega invece al pensiero della morte (‟presque defunt"). E così via.
Naturalmente si potrebbe allungare di molto la lista dei tratti che sembrano contraddistinguere il testo in versi nei confronti di quello in prosa, come ad esempio la sua più alta concentrazione formale, il suo indiscusso rigore strutturale. Analisi non diverse andrebbero poi fatte per altri casi simili a questo, col rischio di non riuscire mai a giungere a una conclusione soddisfacente, a raccogliere una casistica non dico completa, ma quanto meno statisticamente fondata. Infine anche i dati raccolti potrebbero essere a loro volta falsificati, riconosciuti contraddittori o addirittura smentiti dall'uso di altri scrittori, e così via all'infinito. Tutte queste perplessità non eliminano però quella ‛coscienza', l'oscura, ma non per questo meno vivida, sensazione di scendere nelle regioni del sangue, di toccare con mano un tipo di esperienza che i romantici identificavano con l'ebbrezza (ivresse) e con l'estasi (extase) provocate, ad esempio, dagli allucinogeni (opium) e dall'alcool (vin), e gli antichi avevano già definito col concetto di orfismo. Questo è anche uno degli effetti che Baudelaire ha voluto sperimentare nella Chevelure, straziante ‛paradiso artificiale' evocato in un momento di grazia e di lucidità; ed è appunto quella ‛sostanza', per dirla con Valéry, che ci porta nel mondo a noi familiare della poesia (familiare, ovviamente, in quanto fatto di cultura), quel volto noto che noi riconosciamo nei versi di Baudelaire, e che ci permette, se non altro, di affermare che in essi si esprime una qualità di realizzazione del tutto diversa da quella che contraddistingue il testo prosastico.
g) Poesia e lingua parlata
La ‛prosaicizzazione' della poesia quale strumento per tordre le cou à l'éloquence (v. § c), non può dunque approdare che, o alla distruzione ('umiliazione') della poesia stessa, o, in casi speciali (come ad esempio in non poca poesia montaliana), a un arricchimento delle sue armoniche, alla fondazione di una nuova e diversa ‛eloquenza'. Tuttavia, ancora più illusoria si è rivelata l'altra operazione di trasferimento nella poesia di elementi della lingua parlata (v. § d). La lingua parlata è un fenomeno puramente naturale; tranne nei casi di particolare preparazione da parte dei singoli parlanti, essa è irriproducibile per iscritto, soprattutto se si tien presente che la sua intelligibilità è molto spesso affidata a fattori soprasegmentali o addirittura contestuali sul piano della situazione.
Se la poesia dunque fa parte a sé in rapporto alla prosa, dovremmo anche riconoscere che, nei confronti del parlato, essa non si distingue per nulla dalla prosa cui è unita da un'identica tendenza all'artificio' e al costruito. L'attività artistica nel campo letterario, sia che si manifesti sotto forma di poesia oppure di prosa, coinvolge notoriamente precise responsabilità in rapporto al controllo sui materiali di natura. Quello che si richiede all'artista è un oggetto strutturato in modo tale da risultare praticamente autosufficiente, quasi autonomo nei confronti di chi l'ha elaborato, e, per di più, liberamente agibile da chiunque abbia passione e sensibilità per le cose dell'arte.
Un caso tipico è quello del cosiddetto troisième français di R. Queneau, ‟C'est malheureux - scrive l'autore di Zazie dans le métro - pour les Français de ne pas avoir le droit d'écrire comme ils parlent, et par conséquent comme ils sentent. Nous sommes à plaindre". Il fine che si propone Queneau è di smitizzare la lingua furiosamente astratta che i Francesi si ostinano a scrivere e di sostituirla con una specie di stile orale, ispirato in pari grado alle prove di L. Céline e di J. Joyce. Il trasferimento di elementi del parlato nella poesia è, ad esempio, macroscopico in un testo (pubblicato in Si tu t'imagines, 1920-1951, Paris 1952) come MAIGRIR: ‟ Y en a qui maigricent sulla terre / Du vente du coq-six ou des jnous / Y en a qui maigricent le caractère / Y en a qui maigricent pas du tout / Oui mais / Moi j'mégris du bout des douas / Oui du bout des douas Oui du bout des douas / Moi jmégris du bout des douas / Seskilya dplus distinglé // Lautt jour Boulvar de la Villette / Vlà jrencontre le boeuf a la mode / Jlui dis Tu mas l'air un peu blett / Viens que jte paye un belle culotte / Seulement jai pas pu passque / Moi jmégris du bout des douas / Oui du bout des douas Oui du bout des douas / Moi jmégris du bout des douas / Seskilya dplus distinglé // Dpuis ctemps-là jfais pus dgymnastique / Et jmastiens des sports dhiver / Et comme avecfureurjmastique I Je pense que si je persévère I Eh bien / Jmégrirai du bout des douas / Oui du bout des douas Oui du bout des douas / Jmégrirai même de partout / Même de lesstrémité du cou".
La vistosità dei mezzi impiegati non riesce però a modificare in alcun modo la natura del pezzo, fatto questo di cui pure Queneau è affatto cosciente, se è vero che l'utilizzazione del parlato ha nel suo caso finalità puramente parodistiche. La stessa strutturazione della poesia, il gusto per il parallelismo, le ripetizioni, il senso di cantabile che ne deriva, escludono a priori qualsiasi possibilità di contaminazione. Il parlato, in questo caso, è ridotto al rango di puro e semplice materiale stilistico, eventualmente alternabile con materiali di altra origine come vuole un'esperienza, tutto sommato, molto tradizionalmente plurilinguistica (il saltare di palo in frasca, dal punto di vista del contenuto, rinvia al genere, altrettanto tradizionale, del coq-à-l'âne).
Considerazioni non diverse potrebbero essere fatte per quel che riguarda l'utilizzazione, frequentissima in questo secondo dopoguerra, del dialetto, soprattutto in Italia, dove però il richiamo al mondo popolare, ai valori incontaminati del parlato, resta puramente mitico, a cominciare, per esempio, da Pasolini sino a T. Guerra e ad A. Pierro. Qui si tratta in effetti di un legato romantico, tutto intessuto sul motivo, già settecentesco, delle forze di natura, del mondo del primitivo. Ancor oggi, sebbene ci si sia resi conto che i tropici sono ‛tristi' e non così felici come credevano Baudelaire, Rimbaud o Gauguin, che l'apparente ‛naturalezza' del profondo Sud è intessuta di complicatissimi cerimoniali, ci appassioniamo alla cultura del Terzo Mondo, ricorriamo con la fantasia all'universo delle fiabe e delle leggende, alla cultura del mondo cosiddetto popolare. A tale prospettiva è legata, fra l'altro, una delle figure centrali dell'arte moderna (ora sfruttata con le tecniche proprie del Kitsch): il naïf Ma il nostro ‛ingenuo', come ci spiegano gli antropologi, non è poi così sprovveduto; egli è portatore di valori non meno sofisticati (Si veda l'utilizzazione dell'art nègre da parte dei cubisti) di quelli del mondo cosiddetto civilizzato, anzi, in molti casi, il grado di ritualizzazione da lui raggiunto risulta molto più alto di quanto non appaia a una prima ‛lettura' affrettata dei suoi prodotti. Le analisi di Propp (v., 1927), le ricerche della moderna antropologia hanno rivelato tesori di sapienza compositiva e di raffinatissima capacità artigianale, di modo che, se veramente crediamo che la salvezza per la letteratura non possa venire che dall'utilizzazione del parlato (sia pure sotto forma di flusso della coscienza, come in Joyce) e dai moduli del ‛primitivo', dovremo andare a cercare i nostri modelli in tutt'altra direzione, sempre ammesso che i testi per esempio (oggi di moda) delle cosiddette ‛letterature orali' possano comunque definirsi artistici.
Se avevamo dunque dei dubbi sulla reale autonomia dei prodotti poetici, i tentativi che da più di un secolo si stanno facendo di ‛umiliare' la poesia, o semplicemente, di ‛prosaicizzarla', hanno portato alla luce la sua fondamentale irriducibilità e la sua autonomia non solo in rapporto all'esperienza del parlato, ma anche nell'ambito stesso dell'arte. Quali poi siano i destini della poesia è questione di tutt'altro genere, che non infirma la legittimità di un discorso portato specificamente su essa.
h) Poesia e allucinazione
La polivalenza semantica (ambiguità) da una parte, e lo scarto dalla norma, l'eccezionale, dall'altra, ai fini di ‟donner un sens plus pur aux mots de la tribu" (Mallarmé, Le tombeau d'Edgar Poe, verso 6, in Oeuvres complètes, Paris 1945, p. 70), costituiscono il secondo dei presupposti fondamentali della moderna poesia dai simbolisti al giorno d'oggi (v. § c). L'arte si fa ‛difficile', i sensi si moltiplicano in un gioco allucinante di rinvii all'infinito, le complicazioni formali si accumulano sulla pagina, sia nel senso della ricerca della parola rara e delle espressioni inconsuete, sia per quel che riguarda la sintassi degli enunciati e delle immagini.
La coscienza critica di tale nuova impostazione del problema della poesia si fa particolarmente viva negli anni venti in tutta la cultura europea, dall'Inghilterra di E. Pound e di T. S. Eliot, alla Francia di Valéry e dei surrealisti, la Germania di G. Benn, Brecht e così via, la Russia di Šklovskij e in genere dei ‛formalisti', e più tardi l'Italia degli ‛ermetici'.
Per quel che riguarda l'ambiguità o polivalenza di significati basterà qui ricordare l'opera fondamentale di W. Empson (Seven Types of Ambiguity, 1930) e l'uso che ne ha fatto Eliot nei suoi drammi. La moltiplicazione dei sensi, e sia pure con mezzi e fini a volte assai diversi, è poi divenuta pratica corrente nella letteratura di questo secondo dopoguerra, come constatato da U. Eco nella sua Opera aperta (1962).
Quanto invece al concetto di scarto sono di importanza fondamentale, oltre alle note postulazioni di Brecht, la teoria šklovskijana dello ‛straniamento' e la dicotomia da lui stabilita fra automatismo e percezione. Scrive a questo proposito uno studioso del formalismo russo: ‟La teoria šklovskijana di ‛straniare' l'oggetto rappresentato spostò il discorso dall'uso poetico dell'immagine alla funzione dell'arte poetica. Il tropo fu visto qui semplicemente come uno degli artifici a disposizione del poeta, artificio che sta a testimoniare la generale tendenza della poesia e anzi di ogni arte. Nel trasferimento dell'oggetto ‛in una sfera di nuova percezione', cioè quel particolare ‛spostamento semantico' prodotto dal tropo, si vide il principale fine e ragion d'essere della poesia" (v. Erlich, 19652; tr. it., p. 191). Naturalmente la concezione che Šklovskij ha dell'arte è in larga misura debitrice delle esperienze che stavano allora compiendo le avanguardie europee postsimboliste in rapporto all'auspicata risemantizzazione del vocabolario poetico tradizionale. Del problema si occuperà anche Paul Valéry in una pagina del 1928 dove, oltre all'insegnamento del maestro Mallarmé, vengono prese in esame le esperienze compiute durante i primi decenni del Novecento nel campo della ‛parola poetica' assoluta. ‟A mio avviso - scrive nel Calepin d'un poète - tutte le opere scritte, tutte le opere verbali, contengono alcuni frammenti, o elementi riconoscibili, dotati di proprietà di cui parleremo più avanti e che chiamerò provvisoriamente poetiche. Tutte le volte che la parola mostra un certo scarto (écart) nei confronti dell'espressione più diretta, vale a dire più insensibile del pensiero, tutte le volte che questi scarti lasciano trasparire, in qualche modo, un mondo di rapporti distinto dal mondo puramente pratico, ci rendiamo conto più o meno nettamente della possibilità d'ingrandire quest'area di eccezione, e abbiamo la sensazione di cogliere il frammento di una sostanza nobile e viva, suscettibile forse di sviluppo e di coltivazione; e che, sviluppata e utilizzata, costituisce la poesia in quanto effetto dell'arte" (Oeuvres, t. 1, Paris 1959, pp. 1456-1457). Valéry parla di ‟scarto nei confronti dell'esperienza più diretta". Non diversamente Sklovskij mette in rilievo l'importanza che ha lo ‟spostamento semantico", vale a dire la deviazione dalla norma, ai fini della rappresentazione poetica: ‟In questo modo il poeta attua il suo spostamento semantico; scioglie un concetto dalla serie semantica in cui si trovava e lo trasferisce, con l'aiuto di un'altra parola (di un tropo), in un'altra serie semantica. Noi percepiano l'oggetto come qualcosa di nuovo perché esso si trova in una nuova serie" (v. Šklovskij, 1929; tr. it., p. 86; ma la prima formulazione di questo principio risale al 1917).
i) Comprensione della poesia e teoria dell'informazione
Sulla traccia di proposizioni di questo genere, come anche in via poligenetica, date le condizioni generali della cultura nei primi decenni del Novecento (‟La nozione di scarto è nell'aria del tempo", scrive ad esempio A. Henry; v., 1960, p. 556), il principio di deviazione dalla norma verrà poi ribadito nelle Tesi della Scuola di Praga del 1929 (‟Dalla teoria, in cui si afferma che il linguaggio poetico tende a mettere in rilievo il valore autonomo del segno, risulta che tutti i piani di un sistema linguistico, aventi nel linguaggio della comunicazione un ruolo strumentale, assumono nel linguaggio poetico valori autonomi più o meno notevoli. I mezzi di espressione propri di tali piani e le mutue relazioni esistenti fra questi, e tendenti a diventare automatici nel linguaggio di comunicazione, tendono invece ad attualizzarsi nel linguaggio poetico": v. Circolo Linguistico di Praga, 1966, p. 72) e quindi nelle teorie della Scuola di Praga stessa, per cui basterà ricordare l'uso che Mukařovský fa del concetto di aktualisace. Contemporaneamente o poco dopo lo stesso principio riappare nella teoria dell'informazione, quale è stata elaborata da Shannon e Weaver, secondo cui, come è noto, il tasso di informazione contenuta in un messaggio è inversamente proporzionale al grado di probabilità semantica, e si ritrova infine nei saggi di analisi statistica applicata ai testi letterari prodotti nei tardi anni sessanta sia in Francia (P. Guiraud, Ch. Muller), sia in Italia (L. Rosiello) e in URSS (J. Lotman e A. N. Kolmogorov, ma su un piano completamente diverso).
Le applicazioni più consistenti di questo principio sul piano teorico (per l'aspetto pratico del problema si rimanda ai lavori di Ch. Muller) sono quelle fornite da J. Lotman in La struttura del testo poetico. ‟Perché la struttura generale del testo conservi la sua capacità informativa, deve uscire costantemente dalla condizione di automatismo, propria delle strutture non artistiche. Opera tuttavia contemporaneamente la tendenza contrapposta: solo gli elementi posti in certe successioni preindicate possono adempiere alla funzione di sistemi comunicativi. In tal modo, nella struttura del testo artistico agiscono contemporaneamente due contrapposti meccanismi: il primo cerca di sottoporre al sistema tutti gli elementi del testo, di trasformarli in una grammatica automatizzata, senza la quale è impossibile l'atto di comunicazione, l'altro cerca di distruggere questa automatizzazione e di rendere la struttura stessa portatrice di informazione" (v. Lotman, 1970; tr. it., p 93). La capacità di informazione dipende dunque anche per Lotman dal grado di prevedibilità del messaggio poetico. Solo l'arte deautomatizzata è capace di fornire un massimo di informazione e questo è il fine che si propongono, ad esempio, le moderne avanguardie.
La posizione di Lotman non si discosta nel complesso da quella degli studiosi che a datare dagli anni cinquanta, e soprattutto per influenza di R. Jakobson, hanno creduto di poter applicare la teoria dell'informazione alla stilistica. Il successo di tale approccio, che fu vivacissimo dopo la pubblicazione dell'intervento di Jakobson, Linguistics and Poetics al congresso interdisciplinare sullo stile tenuto presso l'Università dell'Indiana (New York 1960), è ora meno grande che per il passato. Quello che però a noi preme di sottolineare è la tempestività con cui è stato accolto anche in URSS, se non altro a riconferma dell'importanza storica di un'esperienza che ha investito un po' tutte le letterature europee dal simbolismo in poi.
Se dunque il testo letterario si distingue dal linguaggio comune per la sua capacità di concentrare una congrua quantità di informazione, è indubbio che la poesia, in quanto subsistema nell'ambito del sistema dei ‛segni letterari' o, come s'è detto, ‛qualità' particolare di realizzazione degli stessi, tanto più si avvicinerà al suo modello ideale quanto più sarà ‛complessa' (si veda la ‛complicazione della forma' in Šklovskij) e quanto minore sarà il tasso di prevedibilità dei suoi elementi. Ora, un'estetica di questo genere comporta giudizi di valore ben precisi. L'opera aperta, vale a dire nella maggioranza dei casi ‛ambigua' o, meglio, semanticamente polivalente, ad esempio, non potrà che essere superiore a un'opera a senso unico o, se si vuole, ad alto grado di probabilità semantica. Lo stesso dicasi dell'opera in cui i vari oggetti (parole, immagini, ecc.) sono utilizzati fuori del loro contesto abituale (straniamento), e offrono pertanto un quoziente di informazione superiore alla media.
Secondo Lotman tali posizioni delle poetiche moderne non dipenderebbero tanto dall'influenza della teoria dell'informazione (questo è possibile forse per i soli Stati Uniti), quanto dall'opera di V. Šklovskij e di J. Tynjanov che nello studiare ‟il problema della deautomatizzazione delle leggi strutturali di un testo in arte [...] anticiparono una serie di posizioni essenziali della teoria dell'informazione" (v. Lotman, 1970; tr. it., p. 100). Comunque sia, i risultati ottenuti in questa direzione dalla poesia moderna lasciano irrisolti alcuni problemi di ordine non solo teorico, ma anche e soprattutto pratico sul piano combinatorio. Le difficoltà vengono, più che dai formalisti russi, dalla teoria dell'informazione, nella misura in cui essa implica per definizione la messa in rilievo del livello semantico a detrimento del livello che più conta in sede letteraria, quello cioè della Forma. Se la probabilità semantica diminuisce la capacità informativa, dovremo dedurre che solo i testi altamente ‛improbabili' offrono solide garanzie in tema di realizzazione poetica. Questa è ad esempio la posizione dell'‛espressionismo' nella sua accezione più generale, dove quello che più si raccomanda è la deformazione del reale. La teoria è interessante, ma ci lascia ugualmente dubbiosi su due punti particolari. Prima di tutto, e sia pure in sede storica, ci si può chiedere quale conto si possa fare di testi, che sentiamo comunque poetici, debolmente motivati dal punto di vista della ‛violenza verbale', secondo la dimostrazione fornitane da O. Contini nel suo saggio sul Petrarca (1964). In secondo luogo si affaccia il problema di come distinguere, sempre in questa prospettiva, l'arte dall'improbabile', o, rovesciando temporaneamente i termini in questione, di stabilire i limiti, sia pure approssimativi, entro cui l'anfibologia può essere promossa a carattere distintivo delle opere letterarie.
2. Progetti per una nuova poesia
a) La poesia e altro
Quando si parla di ruolo della poesia nell'attuale universo dei segni, ci si riferisce evidentemente a quanto per tradizione si intende con il termine di ‛poesia'. È questa una accezione - come già riconosciuto da Croce stesso - singolarmente ristretta di poesia, in quanto nella stessa sarebbe finalmente necessario far rientrare anche i fenomeni che quella ‛coscienza' ci rivela di natura poetica, ma che, altrettanto per tradizione, vengono esclusi dal canone a causa di pregiudizi di tipo, per così dire, intellettualistico. Nelle annuali rassegne della poesia, nei consuntivi di fine anno, di fronte ai solenni tribunali dei premi letterari compaiono, tranne in casi eccezionali, solo le opere degli addetti ai lavori selezionate attraverso i processi misteriosi della deformazione professionale. Gli stravaganti restano emarginati e la loro deve essere un'esperienza non dissimile da quella di quanti, per una ragione o per un'altra, soffrono di qualche forma di discriminazione sociale. Subito dopo però si mettono in moto meccanismi di difesa. Gli esclusi si riconoscono, costituiscono (ma non sempre) nuovi gruppi con programmi vari, sia di alternativa sia di pressione sul sistema centrale.
D'altro canto la poesia costituisce un subsistema nell'ambito del sistema dei ‛segni letterari' (v. §§ b,c) e, allo stesso tempo, riesce sempre più difficile distinguere quest'ultimo da altri sistemi, come, ad esempio, quelli delle letterature etniche (fiabe, leggende, miti, ecc.), dei segni visivi (fumetti, rotocalchi) e audiovisivi (teatro, cinema, televisione, comunicazioni di massa). In una situazione del genere è ovvio che si faccia sempre più viva la consapevolezza della necessità di una dilatazione del canone (v. §§ d-g) e, parallelamente, di una sua più ampia articolazione interna, anche a garanzia di una retta intelligenza della sua portata storica (v. § h).
b) Il segno letterario e il ‛personaggio'
Che la poesia costituisca un subsistema nel quadro del sistema dei ‛segni letterari' o, come si è detto, una ‛qualità' di realizzazione degli stessi, è provato dal tipo dei segni di cui si servono i poeti, per cui sarebbe difficile distinguerli da quelli normalmente impiegati negli altri ‛generi' (narrativa, teatro e così via).
Il problema di che cosa sia un ‛segno letterario' costituisce uno dei nodi fondamentali della scienza semiologica più avanzata. Noi sappiamo che cosa è un segno verbale (in genere la parola, o anche un enunciato nella misura in cui comporti un significato unitario), che cosa è un segno dell'alfabeto (la lettera); siamo molto meno informati invece su che cosa sia un segno in musica (sicuramente non la nota) e tanto meno, ad esempio, nel campo cinematografico.
Il primo e in sostanza l'unico che si sia posto il problema, sia pure nel particolarissimo ambito delle letterature etniche, è stato Saussure (v., 1972; v. i contributi di Avalle, 1973) nelle note sulla leggenda dei Nibelunghi e di Tristano e Isotta. Il ‛segno' (qui indicato con il termine di symbole) si identifica con il personnage o ‛tipo' (qualcosa come la dramatis persona di Propp, o il ‛personaggio' descritto da Trubeckoj nelle sue lezioni viennesi sulla tecnica e sull'arte di Dostoevskij), nel senso che a questo termine si dà nel teatro (vedi i riferimenti in Saussure), come ad esempio nel campo della commedia dell'arte. Il symbole (o ‛segno letterario'), in quanto ‛tipo' umano contraddistinto da un certo numero di attributi e qualità, gode di almeno un paio delle proprietà del ‛segno' così come sono state descritte da Saussure stesso. Esso si definisce prima di tutto oppositivamente nei confronti degli altri ‛segni-personaggi' (‟la position vis-à-vis des autres"; v. Avalle, La sémiologie..., 1973, p. 29; non diversa la definizione propostane da Trubeckoj, 1964), che è quanto dire differenzialmente e negativamente. Di questa proprietà si parla nel quarto capitolo della seconda parte del Cours, dove è affermato che ‟arbitrario e differenziale sono due qualità correlative" (v. Saussure, 1972, p. 143; EC 1908) e che da esse dipende la possibilità di assegnare un valore determinato al ‛segno' stesso. In secondo luogo, non diversamente dai segni linguistici, anche il ‛segno-personaggio' è reale solo nel momento in cui è ‟versato nella massa sociale" (‟versé dans la masse sociale"), oppure è ‟messo in circolazione" (‟lancé dans la circulation") (v. Avalle, La sémiologie..., 1973, pp. 28-29). Queste formule assieme a un'altra analoga che si trova in Saussure (v., 1972, p. 277, n. 39): ‟un objet lancé dans la circulation avec abandon de l'origine" ricordano le espressioni usate a questo riguardo nel Cours: ‟[...] tale principio deve verificarsi anche a proposito delle lingue artificiali. Chi ne crea una la tiene in pugno finchè essa non è in circolazione: ma dal momento in cui essa compie la sua missione e diventa cosa di tutti, il controllo sfugge" (v. Saussure, 1972, pp. 94-95; EC 1268 ss.). Anche questa è una delle proprietà fondamentali del ‛segno' che distingue i sistemi di segni dalle altre istituzioni sociali (si veda il terzo paragrafo del cap. III dell'Introduzione). Essa è così definita in una nota degli allievi: ‟Essi [sc. i segni di cortesia] sono impersonali - tranne la nuance, ma lo stesso si può dire dei segni della lingua [e, per altro, di ogni tipo di segno] -, non possono essere modificati dai singoli e si trasmettono tali e quali al di fuori del loro controllo" (EC 280; Il R 17). Nello stesso modo i symboles (o ‛segni-personaggi' delle leggende) una volta messi in circolazione, si staccano dalla matrice (l'‛origine') e divengono proprietà di tutti alla pari degli altri segni appartenenti, per esempio, ai sistemi linguistici.
Le teorie di Saussure sollevano non pochi interrogativi per quel che riguarda il problema della poesia. Prima di tutto se sia possibile (contrariamente a quanto sostenuto da Saussure stesso e da Propp) parlare di ‛segni' anche nel campo della letteratura vera e propria. In secondo luogo, se esistano segni specificamente letterari o se, viceversa, non sia più corretto parlare di ‛segni culturali' utilizzabili tanto a livello letterario, quanto a livello filosofico, morale, comportamentistico, e così via. In effetti, anche per le ragioni che vedremo più avanti (v. §§ d-g) se la letteratura ha una sua specificità, essa discende non tanto dal suo assetto semiologico, quanto piuttosto dalla natura particolare (la ‛struttura') dell'oggetto artistico (v. cap. 1, § g).
Tutto questo risulta evidente dall'utilizzazione promiscua (cioè tanto letteraria, nel senso tradizionale della parola, quanto genericamente ideologica o addirittura comportamentistica) di taluni ‛personaggi' a cominciare dall'eroe solare' (Perseo, ecc.), la ‛donna abbandonata' (Medea, Didone, ecc.), i vari ‛tipi' della tragedia e della commedia classiche, e così via, sino all'antieroe della letteratura contemporanea.
Tanto per esemplificare, si potrebbe prendere in esame il caso del ‛ribelle' romantico, chiaramente ispirato a motivi sociologici e non solo letterari, personaggio proteiforme dai mille volti che continua a informare di sé, con tutti gli adattamenti del caso, non poca della letteratura contemporanea (si pensi al filone di Hemingway...) e che L. Goldman vorrebbe identificare con l'‟eroe economico del capitalismo della libera concorrenza". Esso si presenta all'inizio sotto l'aspetto del Satana di Milton, ma può comparire anche sotto la veste di Don Giovanni, del marchese de Sade, di Faust, Cagliostro, e poi, via via, del Caino di Leconte de Lisle, del Satana di Baudelaire, di Prometeo, di Ulisse, o addirittura del dannato, ma solo del dannato, di Rimbaud. Sono tutte figure queste, a modo loro, nobili o, comunque, nobilitate da una tradizione antica, biblica o più genericamente leggendaria. L'ordine contro cui si ribellano è quello della virtù, intesa un po' vagamente come pregiudizio sociale, una virtù ancora troppo astratta per identificarsi con un contesto sociale preciso, con ragioni storiche concrete. D'altronde l'esaltazione e l'esercizio del vizio e del crimine si configurano come il prodotto di una casistica puramente filosofica, sono considerati come un mezzo di autogratificazione, in alcuni casi esprimono addirittura una vera e propria volontà di potenza.
Questa impostazione è già evidente in Sade: ‟[...] l‛homme-de-lettres, assez philosophe pour dire le Vrai, surmonte ces désagréments, et cruel par nécessité, il arrache impitoyablement d'une main les superstitieuses parures dont la sottise embellit la vertu, et montre effrontément de l'autre a' l'homme ignorant que l'on trompait, le vice au milieu des charmes et des puissances qui l'entourent et le suivent sans cesse. C'est en raison de ces motifs que [...] nous allons [. . .] peindre le crime comme il est, c'est-à-dire toujours triomphant et sublime, toujours content et fortuné, et la vertu [. . .] toujours maussade et toujours triste, toujours pédante et toujours malheureuse" (La nouvelle Justine, 1797, vol. I, pp. 3-4). La stessa concezione è poi fatta propria, sia pure in diversa misura e con adattamenti suggeriti dal momento, dai romantici della prima metà del secolo scorso, sia nell'ambito del romanzo ‛popolare' da Eugène Sue in poi, sia in quello della letteratura ‛maggiore', da Byron, Schiller a Balzac, Baudelaire, Rimbaud, e così via. ‟ Une belle tête d'homme - scrive ad esempio Baudelaire (Journaux intimes, Fusées in Oeuvres complètes, Paris 1963, p. 1 255) - [. . .] contiendra aussi quelque chose d'ardent et de triste, - des besoins spirituels, des ambitions ténébreusement refoulées, - l'idée d'une puissance grondante, et sans emploi, - quelquefois l'idée d'une insensibilité vengeresse, (car le type idéal du Dandy n'est pas a négliger dans ce sujet) , quelquefois aussi, - et c'est l'un des caractères de beauté les plus intéressants, - le mystère, et enfin (pour que j'aie le courage d'avouer jusqu'à quel point je me sens moderne en esthétique), le malheur. - Je ne prétends pas que la Joie ne puisse s'associer avec la Beauté, mais je dis que la Joie [en] est un des ornements les plus vulgaires; - tandis que la Mélancolie en est pour ainsi dire l'illustre compagne, à ce point que je ne conçois guères (mon cerveau serait-il un miroir ensorcelé?) un type de Beauté où il n'y ait du Malheur. - Appuyé sur, - d'autres diraient: obsédé par - ces idées, on conçoit qu'il me serait difficile de ne pas conclure que le plus parfait type de Beauté virile est Satan, - à la manière de Milton".
L'esaltazione del negativo è qui portata sino alle sue ultime conseguenze. I valori morali tradizionali sono rovesciati ed è Satana, sul modello di Milton (come già riconosciuto, per altro, anche da P. B. Shelley) a rappresentare l'ideale supremo della bellezza maschile. A Satana in pratica sono dedicate le Fleurs du mal, sin dalla prima poesia della raccolta, Au lecteur: ‟Sur l'oreiller du mal c'est Satan Trismégiste / Qui berce longuement notre esprit enchanté, I Et le riche métal de notre volonté / Est tout vaporisé par ce savant chimiste. Il C'est le diable qui tient les fils qui nous remuent! // Aux objets répugnants nous trouvons des appas; I Chaque jour vers l'Enfer nous descendons d'un pas, / [...]".
Ed è Satana la divinità infernale che vi compare più spesso, assieme ai dannati, ad esempio in L'irréparable (ispirato a un melodramma, La belle aux cheveux d'or, dove si narra di un traditore che in un'atmosfera satanica non riesce a esprimere il suo amore se non perseguitando la donna amata e che morirà senza avere avuto il tempo di pentirsi) o ancora nelle celebri Litanies de Satan appartenenti alla sezione, significativamente intitolata Révolte, sempre delle Fleurs du mal.
Il ribelle di Rimbaud, pur rispettando scrupolosamente la tradizione del genere, presenta notevoli varianti nei confronti del ‛segno-personaggio' romantico. Sin dall'inizio esso si spoglia dei connotati letterari assegnatigli dalla tradizione, prende un aspetto più realistico, si incanaglisce. Da ‛dannato' che era, diventa il barbaro, il pagano, quindi il negro, il cannibale, il bruto, la bestia. Tutti questi esseri appartengono a una razza inferiore; per tanto - come logica conseguenza - non si differenziano dal criminale, l'ozioso, il maledetto, il degenerato. Interviene, in modo netto e inequivocabile, un concetto razzistico: il negro appartiene a una razza inferiore, quindi è un ozioso, non ha voglia di lavorare ed è privo di senso morale. Si ciba di carne umana e non si distingue quindi dalle belve. In questo caso è la civiltà borghese a essere rivelata nella sua più segreta vocazione razzistica.
La parabola dell'eroe romantico può sfociare infine nelle figure del superuomo nietzschiano o dannunziano, oppure, viceversa, di Mackie Messer nell'Opera da tre soldi di B. Brecht. Ma può anche dar vita all'antieroe di non poca letteratura moderna, afflitto da vari mali o ‛complessi', ad esempio l'incomunicabilità, il fallimento esistenziale, l'incapacità di vivere pienamente, la mediocrità. Esso è già presente in Puskin e in Flaubert, e continuerà nel romanzo realista della fine del secolo scorso, presso i crepuscolari in Italia, nella figura dell'impiegata del Waste land di T. S. Eliot, nella poesia di Montale, in Svevo, Musil, Kafka, Beckett, in non poco nouveau roman (ad esempio Pinget), e così via.
c) Gli altri segni letterari
Tuttavia il ‛segno culturale' nella sua denominazione letteraria non si esaurisce col ‛personaggio'. Esso infatti è riconoscibile in altri elementi comuni alla prosa e alla poesia che i formalisti russi degli anni venti omologavano al concetto di ‛materiale', e che, per comodità di esposizione, divideremo nelle due classi: a) del ‛contenuto' e b) della ‛forma' (da non confondersi coi concetti di ‛significato' e di ‛significante'). La distinzione fra ‛contenuto' e ‛forma', secondo i moduli tradizionali, non comporta in effetti alcuna diversità di sostanza; come già dimostrato dai formalisti, ambedue appartengono alla Forma (in quanto ‛procedimento'), che è poi l'unico dato che interessi il lettore, non essendo possibile formulare sul Contenuto vero e proprio di un oggetto artistico se non ipotesi difficilmente verificabili (a meno di ripiegare, crocianamente, sul cosiddetto ‛sentimento'). Alla classe del ‛contenuto' appartengono, oltre al ‛personaggio', il motivo, le immagini e i temi (fra cui andranno incluse anche le ‛filosofie'). Alla classe della ‛forma' attribuiremo invece il lessico, ma non la rima, la versificazione, le figure retoriche, i ‛generi letterari', e così via in quanto sprovvisti di ‛significato' e per tanto non omologabili al concetto di ‛segno'.
Fra i motivi, tanto per intenderci, ricorderemo quelli archetipici, (che indicheremo, per comodità di esposizione, con una formula riassuntiva del loro ‛significato') di tipo: a) monoargomentale, ad esempio i motivi del ‛rito dell'iniziazione', dell' ‛epifania del dio', della ‛scomparsa dell'eroe', del ‛ritorno (resurrezione) o memoria del passato', ecc.; e b) biargomentale, ad esempio i motivi basati su connettivi condizionali, hybris/nemesis ('delitto e castigo'), ‛merito/ ricompensa', ‛amore/morte', oppure su connettivi negativi, ‛età del ferro/età dell'oro', e così via. Tutti questi motivi si ritrovano puntualmente tanto nella prosa, quanto nella poesia, compresa la più moderna. Naturalmente quello che conta non è solo il ‛significato', ma anche la sua struttura ('significante'), vale a dire l'identità specifica, la qualità e l'ordine delle funzioni o microsequenze che ne costituiscono la base formale. Così ad esempio il motivo dello ‛specchio' nella letteratura ottocentesca (da Goethe a R. Browning e Mallarmé), come anche in quella contemporanea (Montale o Ramuz), si individua nell'universo dei ‛segni culturali' di applicazione letteraria, non solo in base al tipo di esperienza che gli soggiace, ma anche per lo schema compositivo risultante dalla combinazione di un certo numero di variabili (ad es. l'ambiente) e di costanti (le dramatis personae e le funzioni o microsequenze, ‛narremi').
Esso comporta normalmente: 1) il ‛mezzo' dove avvengono le operazioni - la superficie riflettente - via via identificata con quella dell'acqua, oppure di uno specchio, di un vetro appannato, oppure ancora di uno stagno o di un lago gelato, con possibilità di scambi e di interferenze; 2) l'‛oggetto', per lo più fisicamente ben determinato (α), ma anche, a volte, sentimenti o gesti (β), comunque sempre esterni al poeta. Le due soluzioni stanno in rapporto di alternativa, 2α o 2β, ma possono anche sommarsi, 2αβ; e 3) le ‛operazioni' che si compiono nel mezzo. Tali operazioni riguardano l'oggetto della contemplazione (non disinteressata) del poeta e sono di due generi: sprofondare (α) o riaffiorare (β); la scelta infine delle operazioni e la determinazione dell'ordine in cui si susseguono sono lasciate alla discrezionalità dell'autore. Di qui la possibilità di optare via via per questa o quella soluzione: 3α o 3β, oppure 3αβ (v. Avalle, 19723, pp. 76-77).
Per immagine intendiamo invece una figura, una condizione, un ambiente simbolici o metaforici. I sistemi letterari sono ricchissimi di tali ‛segni-immagine', per cui c'e' da augurarsi che in un prossimo futuro se ne forniscano repertori abbastanza ampi, alla maniera, per esempio, delle Realencyklopädien. Il lessico delle immagini di alcuni sistemi letterari è già abbastanza noto; basti qui ricordare quello del barocco, per cui, da quella più emblematica, l'immagine del pavone, alle più trite e frequenti, abbiamo studi eccellenti nei lavori di M. Praz e di J. Rousset. Per la poesia moderna si potrebbe ricordare l'immagine di quello che proporrei di chiamare l'interno squallido'. Esso ha precedenti già nel taudis di Baudelaire, da lui descritto in opposizione al lusso di ambienti di sogno (Rêve parisien) e in non pochi romanzi di V. Hugo. L'immagine si diffonde poi sia nella poesia, sia nella narrativa, con una infinita gamma di varianti che vanno dagli interni vecchiotti di Gozzano ai tuguri di Rimbaud e di non poca poesia moderna ‛impegnata', dai romanzi di Zola al roman policier di Simenon, con agganci alla pittura (van Gogh, ecc.), al film (Renoir, Duvivier, ecc.), al teatro (Brecht), e così via.
Sempre alla categoria dei segni di ‛contenuto' attribuiremo infine i temi, dando a questo termine il valore più generale: a) di esperienza esistenziale, sensibilità o gusto e b) di filosofia. Nell'epoca romantica, come ancor oggi in non poca poesia d'avanguardia, abbiamo ad esempio il tema dell'esotismo'. Esso non comporta solamente evasioni verso un Oriente o verso Tropici di sogno, ma anche viaggi più modesti dalla periferia al centro della città (Pavese), dalla propria casa alla casa di fronte o semplicemente alla strada (E. Dickinson), e così via. Nella letteratura più moderna il tema dell'esotismo' si collega all'altro tema dell'avventura'. Di avventura (oggi si direbbe ‛sperimentazione') si parla sin dal tempo di Mallarmé sia per quel che riguarda la tecnica del verso (Crise du vers), sia in rapporto a situazioni morali di eccezione, letterarie (Rimbaud) o esistenziali (si veda il roman de l'aventurier e il roman de l'aventure di cui parla A. Thibaudet). Questo ‛segno-tema' è già stato riconosciuto come specifico nella poesia del XX secolo da Du Bos, Rivière, Brémond, Thibaudet e Alain. Esso si diffonde nella ‛cultura' europea postsimbolista e soprattutto, oltre che in Ungaretti, nella lirica ‛ermetica' italiana degli anni trenta e in quella francese della stagione surrealista sino a Éluard e ai poeti di questo secondo dopoguerra. L'avventura' si somma naturalmente ad altri concetti analoghi, come quelli di ‛scacco', di ‛rischio', di ‛azzardo', di ‛naufragio', ecc., tutti debitamente valorizzati durante la stagione esistenzialista (anni quaranta); pertanto non sarebbe difficile ricostruirne il diagramma semantico ai vari livelli espressivi.
Quanto invece a quei ‛segni-temi' che abbiamo convenuto di chiamare con il termine di ‛filosofia', è indubbio che essi costituiscono il materiale base di moltissima poesia dalla letteratura dell'antica Grecia, a Dante, ai romantici e ai moderni. Al rignardo bisognerà togliersi dalla testa che la poesia ‛esprima' una filosofia; la poesia ‛si serve' della filosofia, come di qualsiasi altro segno, per esibirsi come presenza assoluta (astanza). La semantica della poesia è un fatto puramente sovrastrutturale, come già la più antica estetica del miscuit utile dulci, del ‛vero condito in molli versi'; il che, ovviamente, non esclude la possibilità di un suo sfruttamento sul piano della prassi.
Passando ora alla classe dei segni della ‛forma', anch'essi da intendersi come materiali di utilizzazione artistica, ci limiteremo a indicare il caso delle ‛scritture' nel senso dato generalmente a questo termine da R. Barthes (1953) in poi. Le ‛scritture', in quanto lessici speciali (significanti), hanno un loro preciso entroterra ideologico (significato). Pertanto la scelta di una ‛scrittura' comporterà automaticamente un certo grado di adesione alla ideologia che le è sottesa. Fra le ‛scritture' moderne basterà qui citare il lessico simbolista del primo Novecento, la sintassi disarticolata dei cubo-futuristi e della poesia transmentale (di Kručënych e Chlebnikov) in Russia, il ‛verso-libero' sempre dei simbolisti, il linguaggio degli ‛ermetici', l'informale, la scrittura visuale o poesia visiva, la scrittura automatica, e così via. Tutti questi elementi sono di estrema importanza per quel che riguarda un primo approccio al problema ermeneutico e storico dei singoli codici letterari, se non altro perché più facilmente formalizzabili di quelli appartenenti alla classe del ‛contenuto'.
L'esemplificazione qui prodotta non costituisce che un campionario minimo, o, quanto meno, puramente indicativo di quello che va inteso come ‛segno' nell'ambito dei sistemi letterari. Per quel che riguarda la poesia più vicina a noi, osserveremo che gli strumenti espressivi su cui è basato il suo tessuto connettivo, non si discostano sostanzialmente dalla grammatica che si è venuta elaborando nei primi decenni del Novecento, soprattutto a opera dei cubofuturisti. La ‛sperimentazione' non e andata molto più in là, anche se i mezzi impiegati appaiono, in alcuni casi, più intellettualizzati. Ma, quando si parla di ‛sperimentazione', ci si riferisce a un solo filone della poesia moderna; il panorama, come vedremo, è più complesso, soprattutto se riusciremo a liberarci dalla pregiudiziale intellettualistica di cui si è parlato più sopra (v. § a).
d) ‛Poesia d'arte' e ‛poesia popolare' nel XIX secolo
La dilatazione del canone della letteratura ad altre zone tradizionalmente considerate ‛minori' o, addirittura, non pertinenti per una loro supposta elementarità (o scarsa originalità) in favore di una concezione unitaria della ‛cultura', costituisce a tutt'oggi uno dei progetti più ambiziosi della semiologia orientata in senso tipologico. L'avvio a tale operazione è stato favorito nello stesso tempo da motivi di carattere ideologico-teorico (v. § e), dallo sviluppo travolgente degli studi etnografici e antropologici (Propp, Lévi-Strauss; v. § f) e dai movimenti di fondo che hanno sconvolto l'assetto tradizionale della letteratura e, in particolare, della poesia, in quest'ultimo secolo (v. § g).
La divisione fra la Letteratura in senso stretto e le altre forme espressive supposte meno originali, ripete la ben nota antitesi fra ‛poesia d'arte' e ‛poesia popolare'. Il problema così impostato ha avuto dall'epoca romantica in poi soluzioni divergenti e in parte contraddittorie. Se la ‛vera' poesia è, come volevano i romantici dei primi decenni del secolo scorso, il frutto della collaborazione di un gruppo sociale o etnico, l'espressione genuina e immediata dello ‛spirito' di un popolo, è ovvio che i prodotti letterari dei singoli autori non potessero allora esser considerati se non materia, per così dire, inerte, puro e semplice esercizio di vanità accademiche. Le due esperienze, in tale prospettiva, si qualificano come entità ‛categoriali' assolute, basate su principi universali opposti, quelli ad esempio di ‛poesia' (P) e di ‛non-poesia' (P̄). Fra i due mondi non si danno rapporti di alcun genere (se non di mutua esclusione) e al lettore non resta che scegliere: o il mondo, vivo e palpitante di poesia, della musa popolare, oppure quello morto, frutto di contorsioni intellettualistiche e freddamente retoriche, della letteratura ufficiale. Quanto infine al piano storico, andrà osservato che l'opposizione ha avuto un peso non indifferente nella polemica letteraria fra classici e romantici, notoriamente impostata su un rapporto di permanente e irriducibile dualità culturale fra conservazione e innovazione.
Le teorie dei romantici sono state messe in forse verso la fine del secolo scorso dal neoidealismo in Italia e in Germania, da Bédier in Francia, e da altre correnti filosofiche che R. Jakobson e P. Bogatyrëv (v., 1924) vorrebbero identificare col cosiddetto ‛realismo spontaneo' dell'etnologia moderna. La poesia, nella prospettiva di questa nuova corrente, non può essere il prodotto di una collaborazione anonima, ma porta pur sempre in sé l'impronta di un genio individuale, di una lingua unica ('in principio era il poeta'). Quindi anche nel campo del folclore si dovrà postulare l'esistenza di un'iniziativa individuale, i cui prodotti solo in un secondo momento sono entrati nel circolo della ‛riproduzione' collettiva, degradandosi a opera popolare dove tutto è semplificato e banalizzato (gesunkenes Kulturgut). I termini del problema vengono pertanto ribaltati nei confronti delle dottrine ottocentesche.
‛Poesia d'arte' e ‛poesia popolare' non costituiscono più due ‛categorie' distinte, opposte l'una all'altra, ma un solo momento dominato dalla creazione individuale di cui l'opera popolare rappresenterebbe al massimo l'immagine grottesca e deformata. Al dualismo romantico si sostituisce in tal modo un rigido monismo; l'unità della cultura viene ripristinata, ma, come è già stato osservato, con notevole danno per la comprensione della fenomenologia letteraria, ancora una volta affidata all'inconscio della creazione individuale.
e) ‛Poesia d'arte' e ‛poesia popolare' nel XX secolo
Le ragioni che hanno determinato la lunga querelle non sono banali. Tanto la teoria (romantica) della inconciliabilità fra ‛poesia d'arte' e ‛poesia popolare' come anche la riduzione (neoidealistica) di ogni attività artistica alla matrice individuale, si ricollegano all'impostazione (di ascendenza, notoriamente, aristotelica) che si suol dare al problema della natura dell'atto cosiddetto ‛poetico'. Se l'arte' è creazione, è ovvio che l'atto relativo, come quello della divinità nel momento in cui crea il cosmo, è preceduto dal ‛nulla'. Il poeta, sotto questo rispetto, può essere paragonato al demiurgo greco. L'atto da lui compiuto è frutto di ‛ispirazione' e le ragioni della sua opera sono inconoscibili, tranne per quel che riguarda l'osservanza delle norme della retorica. Fra il poeta che ‛crea' e gli uomini che ‛riproducono' si frappone in questo modo uno spazio incolmabile, e nella polis ideale, infine, di cui fanno parte tutti gli uomini, sembra di poter riconoscere l'esistenza, non solo di una precisa gerarchia di valori e di attributi, ma anche di quella che, come ebbero già a osservare Marx ed Engels (‟La concentrazione esclusiva del talento artistico in alcuni individui e il suo soffocamento nella grande massa, che a essa è connesso, è conseguenza della divisione del lavoro", L'ideologia tedesca, Roma 1958, p. 383), si potrebbe chiamare la ‟divisione del lavoro".
Il curioso è che questa concezione dell'arte sia sopravvissuta in non pochi settori dell'analisi semiologica (Propp, Jakobson, ecc.), anche dopo gli esperimenti compiuti dai formalisti russi degli anni venti sul testo dei classici della loro letteratura (Puskin, Gogol' ...), alla loro opera insomma di ‛smontaggio' (come si diceva allora) di pezzi celebri, come se si trattasse di congegni fabbricati con l'aiuto di ‛materiali' preesistenti e non di prodotti dell'ispirazione cosiddetta ‛poetica'. Tale opinione è abbastanza comune, tanto che U. Eco ha creduto di additare, ancora ultimamente, nelle comunicazioni di massa il più specifico campo di pertinenza per l'analisi semiologica, a esclusione dei prodotti tradizionalmente attribuiti all'attività letteraria. ‟[...] un territorio ampio e appassionante per la ricerca semiologica è quello delle comunicazioni di massa. Dal romanzo popolare al fumetto, dalla canzone alla stampa quotidiana, qui veramente la semiologia trova un suo campo ideale, dove la ricerca sul messaggio singolo può ‛coincidere' con la ricerca generale sui codici. E questo perché ci troviamo di fronte a messaggi altamente standardizzati, dove la quota d'informazione è minima rispetto agli elementi di ridondanza, e l'originalità cede il posto alla adesione a regole e convenzioni accettate da tutti. Tanto che qualcuno, già in Francia, ha fatto notare che probabilmente il territorio ideale della semiologia è quello dei messaggi a bassa quota di originalità (miti, fiabe, prodotti di massa), mentre il territorio comunemente assegnato alla critica, quello delle opere altamente originali, sarebbe inaccessibile al discorso semiologico" (v. Eco, 1970, pp. 381-382).
In effetti, fra ‛originalità' e ‛ripetibilità' (il secondo di questi due termini è proposto da Propp: v., 1927; tr. it., p. 227) non esistono confini ben precisi, ma un lento e insensibile digradare di dosature interne, misurabili unicamente sul piano quantitativo, o addirittura statistico, e non certo qualitativo, come generalmente si crede in base ai presupposti classici sulla natura dell'atto poetico. L'orientamento attuale è di ristudiare tutta la questione dal punto di vista di un'unità non fittizia ma reale della nostra ‛cultura'. Se un'unità ha da essere ricostruita, se si pensa che il principio della divisione del lavoro presenti un ostacolo sulla via di una sua affermazione, è indubbio che tale risultato non potrà essere ottenuto se non eliminando il dualismo della concezione tradizionale, ma non già sul piano di una degradazione della produzione etnica a sottoprodotto della poiesis letteraria, quanto su quello del riconoscimento che le leggi della produzione artistica sono pur sempre le stesse nei due campi della ‛poesia d'arte' e della ‛poesia popolare'.
Si veda ad esempio quanto osserva lo stesso Saussure in un'altra Nota inedita sulle versioni tarde di tono comico e parodistico, appartenenti al ciclo delle leggende germaniche su Teodorico, Sigfrido, e così via: ‟Je ne prends pas en considération naturellement les poèmes sur un ton plaisant ou persifleur composés d'assez bonne heure sur Dietrich, Sigfrid, etc. Déjà dans le fragment de Goldemar où [...] Dietrich a donné au poète allemand un type Don Quichotte traité avec esprit [...]" (Ginevra, Bibliothèque Publique et Universitaire, ms. fr. 3958, 8, p. 46). L'espressione ‟type Don Quichotte" è interessante nella misura in cui sembra implicare anche per Saussure una ‛continuità', un legame fra la leggenda e il romanzo di Cervantes, e non già un salto qualitativo fra esperienze sostanzialmente eterogenee. In effetti nel medesimo modo in cui Thomas o Béroul hanno utilizzato la storia di Tristano e Isotta nei loro poemi (racconti), così è lecito pensare che lo ‛scrittore', come lo chiama Saussure, utilizzi personaggi o ‛tipi' (forniti di attributi stabili e riconosciuti), temi, motivi, immagini (qui tutti intesi come ‛segni'), preesistenti nella ‛tradizione culturale' della sua epoca o anche di epoche precedenti, con tecniche non diverse da quelle che presiedono all'elaborazione dei prodotti delle letterature cosiddette popolari.
Jakobson e Bogatyrëv parlano di ‟censura preventiva della comunità" nel folclore, ma non escludono che anche lo scrittore incappi in tale censura, o, comunque, possa tener conto in una certa misura delle ‟esigenze dell'ambiente". Quello dei condizionamenti è il tema fondamentale su cui Jakobson e Bogatyrëv fondano la loro dimostrazione. Salvo che la ‟libertà" e l'‟indipendenza" dell'opera letteraria sono più postulate che dimostrate. Naturalmente andrà riconosciuto che i dati, insomma i ‛segni', di cui si compone la tradizione letteraria sono molto più numerosi e, soprattutto, meno facilmente formalizzabili di quelli della produzione popolare. Ma la differenza, con questo, non va oltre il piano puramente statistico, quantitativo, e l'universo semiologico, inteso nel senso di ‛cultura', cui ricorrono i singoli operatori, sia nel campo della ‛poesia d'arte' sia in quello della ‛poesia popolare', è praticamente lo stesso. Se poi dovessimo paragonare la produzione media dei vari ‛gruppi' d'avanguardia di quest'ultimo mezzo secolo con la cosiddetta ‛poesia popolare', ci accorgeremmo che il tasso di ‛ripetibilità', mimetismo e generale uniformità (considerato specifico della seconda) è nei primi, a volte, ancor più elevato di quanto non sia il caso nella ‛poesia popolare'. In qualunque modo si rigiri il problema, non si può negare che l'ipotesi qui sopra formulata trovi ampia giustificazione negli studi sulle comunicazioni di massa, una volta che il fattore comunicazione venga esteso a qualsiasi tipo di attività umana. Tanto il ‛riproduttore' (ma la dizione appare oramai impropria) della tradizione etnica, quanto lo scrittore della società letterana, soggiacciono allo stesso genere di condizionamenti, e con questa sola differenza: che la consapevolezza di tali condizionamenti è spesso molto più elevata nell'ambito della produzione etnica che non in quello della letteratura.
Il ‛momento culturale' delle due esperienze, etnica e letteraria, come terreno specifico della semiologia, rappresenta una delle conquiste più interessanti del pensiero critico del XX secolo. Tanto Saussure, quanto Propp, Jakobson e non pochi altri studiosi interessati all'analisi dei sistemi di segni, non sembrano aver previsto tale sviluppo. Tutto al contrario, essi lo hanno ostacolato in vario modo, confermando di conseguenza l'immagine tradizionale dei cosiddetti ‛mondi separati'.
La tendenza dei settori più progrediti, ma non per questo necessariamente più ‛impegnati', va invece in senso diametralmente opposto. Se si ha da perpetuare l'opposizione di langue/parole, che è ancora quella che meglio di ogni altra definisce la dinamica della ‛cultura' anche nei suoi aspetti più propriamente artistici, sarà bene riservare la prima all'universo dei ‛segni culturali', in quanto insieme di materiali utilizzabili per l'elaborazione di certi tipi di discorso indipendentemente da ogni distinzione storica, o semplicemente sociologica, fra i prodotti del folclore e quelli della tradizione letteraria; la seconda invece alle singole realizzazioni tanto nel campo della ‛poesia d'arte' quanto in quello della ‛poesia popolare'.
f) Etnografia e antropologia culturale
L'emergenza degli studi etnografici e antropologici in questo secondo dopoguerra è uno dei fenomeni più singolari e affascinanti della cultura del nostro secolo. Essa si inquadra, almeno per quel che riguarda la sensibilità, nel gusto per l'esotico, ancora vivo e operante, nonostante tutto, nella nostra società anche a livello di comportamento spicciolo, sul piano del Kitsch più sprovveduto. Etnografia e antropologia significano soprattutto rivalutazione del momento ‛selvaggio' della società umana, della sua positività storica e degli insegnamenti che l'Occidente civilizzato può riceverne a tutti i livelli. ‟Le prime frasi - scrive J. J. Rousseau - furono tutte in poesia; il ragionamento venne solo molto tempo dopo" (Essai sur l'origine des langues, Genève 1783, p. 565). Ora, questa in sostanza è ancora la posizione degli studiosi delle società primitive, con tutte le implicazioni di carattere operativo e ideologico che ne derivano.
Nel pensiero di Lévi-Strauss, fra i due mondi, quello delle società selvagge e quello della nostra civiltà altamente specializzata e tecnologica esiste una differenza di crescita, nel senso che l'istruzione impartitaci nella scuola ha sovrapposto alla logica universale del pensiero primitivo tutta una serie di logiche speciali come richiesto dalle condizioni artificiali dell'ambiente sociale in cui viviamo (v. Leach, 1970). Il richiamo all'unitarietà della ‛cultura' è esplicito, esso apre la strada al riconoscimento che l'accezione vulgata dell'arte (e quindi della poesia) comporta un certo grado di ‛separatismo', ignora insomma le strutture profonde della mente umana. Sotto questo rispetto Lévi-Strauss continua, sia pure non tanto nell'ambito delle esperienze private ma in quello delle esperienze collettive, l'opera di scavo di Freud, e approda a una visione globalistica della ‛cultura' in quanto prodotto dell'esprit humain. Come osservato da Leach (v., 1970, p. 119), dall'analisi compiuta da Lèvi-Strauss, per esempio nel campo dei miti e dei rituali collegati dagli indiani Hidatsa alle loro tecniche per catturare le aquile, risulta che in essi ‟argomenti di carattere pratico ed economico come la caccia e l'agricoltura sono mescolati inestricabilmente con i loro atteggiamenti nei confronti della cosmologia, la santità, il cibo, le donne, la vita e la morte", mentre dal punto di vista dello scienziato moderno i valori vengono di norma tenuti accuratamente ‟distinti" dai fatti. ‟Il nostro pensiero - aggiunge Leach - è il prodotto di una Cultura alienata dalla Natura: quello degli Hidatsa deriva da una Cultura integrata dalla Natura". Pertanto solo ‟l'arroganza del materialismo della fine del secolo scorso poteva ridurre la poesia del pensiero primitivo allo stato di una superstizione infantile".
A conclusioni non dissimili portano ancor oggi le analisi che sempre più frequentemente si vanno compiendo nell'ambito delle tradizioni etniche e dei prodotti della letteratura popolare. Qui l'influenza di Propp è evidente e i risultati che ne derivano confermano ancora una volta l'attuale tendenza ad allargare il campo della poesia ai settori tradizionalmente più depressi (come quelli dell'arte spontanea, della poesia ‛orale', delle culture regionali, dei ‛generi' stravaganti o, comunque, atipici) in nome di una ‛cultura' finalmente unitaria.
g) La poesia: dilatazione del canone
La pagina più sopra citata (v. cap. 1, § d) di Une saison en enfer di Rimbaud può essere considerata come il primo manifesto in assoluto (1873) dell'arte primitiva' o ‛povera'. La riduzione della poesia tradizionale al livello della letteratura fuori moda, del latino ecclesiastico, dei racconti di fate... ritornelli insulsi e ritmi ingenui, come anche della pittura al bric-à-brac dei dipinti idioti, sovrapporte, scenari, tele di saltimbanchi, insegne, miniature popolari (pittura di naïft e images di Épinal), prelude alla rivalutazione della ‛poesia popolare' e nello stesso tempo dell'arte figurativa come collage di materiali infimi, raccolti nei junkyards di periferia... E un po' più avanti avremo con I. Stravinskij il recupero del folclore russo e della sua musica popolare.
La poesia ‛primitiva' o ‛povera', erede diretta e prodotto delle note tecniche di prosaicizzazione, costituisce l'avvio più concreto a una diversa considerazione dell'arte in quanto attività generale dell'uomo, gioco e bricolage. La consapevolezza di tale possibilità non è forse ancora tanto chiara come si vorrebbe. Comunque sia, l'attenzione e, soprattutto la strumentazione critica adibita all'analisi di alcuni generi minori come il fumetto, il motivo popolare, la canzone di protesta, il proverbio, lo spiritual negro e così via, dimostrano una sempre maggiore disponibilità da parte dei lettori anche più sofisticati a una visione unitaria delle varie esperienze poetiche e pertanto all'allargamento del canone relativo.
Se così stanno le cose, sarà dunque necessario aprire un discorso più vasto e articolato sui territori di competenza di una poesia non più ridotta alla sola dimensione tipografica riconosciuta dalla tradizione. D'altronde di fronte ai dubbi già espressi sulle possibilità di sopravvivenza della poesia, si deve riconoscere che talune serie di fumetti, spirituals, ciclostilati semiclandestini (underground), costituiscono altrettanti punti di partenza per esperienze poetiche non meno valide di quelle del passato. Forse i mezzi di domani non saranno più perfettamente identici a quelli della tradizione. Forse la ‛qualità' di poesia si trasferirà in zone oggi ancora eccentriche nei confronti delle strutture formali correnti. In conclusione, se si ha da parlare di ‛morte della poesia, come in certa letteratura apocalittica moderna, dalla science-fiction al ‟brave new world" di A. Huxley o di non poca cinematografia anche banale, la ‛coscienza' poetica costituisce ancora qualcosa di profondamente connaturato nella nostra cultura che neppure le pratiche raffinate di una società tecnologicamente avanzata riusciranno a cancellare dalla mente dell'uomo (è questa ad esempio l'opinione di Montale, v., 1976).
h) Sistemi letterari e fattori anomali
Fondare la grammatica di un sistema di ‛segni culturali' costituisce senza dubbio impresa di non poco conto. La tendenza fin dall'epoca presemiologica è stata di privilegiare gli elementi che rientrano in un modo o in un altro nel sistema che si ritiene caratteristico dell'epoca presa in considerazione. Questo, ad esempio, è il metodo impiegato da J. Huizinga per descrivere l'autunno del Medioevo, oppure da E. R. Curtius e J. von Schlosser per descrivere il Medioevo stesso, H. Wölffiin per descrivere il barocco, M. Praz ancora per il barocco o per l'epoca romantica, e così via. Un analogo approccio metodologico è riscontrabile nei lavori della scuola di Tartu, come risulta ad esempio da uno degli ultimi saggi di J. Lotman su Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia della cultura russa prima del XX secolo (1973).
In realtà descrizioni del genere, anche se scientificamente corrette, peccano di teleologismo nella misura in cui si limitano a mettere in rilievo quanto, sul filo di un certo tipo di sviluppo storico, costituisce, tutto sommato, niente altro che una tendenza di fondo, la punta di diamante di un flusso ininterrotto di fatti eterogenei. Lo spaccato sincronico, in tali condizioni, risente dei condizionamenti di una prospettiva sostanzialmente ‛normativa' e per tanto va inteso come restrittivo in rapporto a una descrizione, se non completa, quanto meno attenta al vario disporsi alla periferia delle singole culture storiche di elementi irriducibili alla loro logica più profonda. Il difetto, se di difetto si può parlare, non è proprio solo dell'impostazione strutturalistica del problema tipologico, ma si ritrova un po' in tutta la storiografia cosiddetta descrittiva. Al riguardo non è chi non veda come gli appunti già mossi da J. Derrida alla ricerca più rigorosamente funzionalistica possano valere per qualsiasi tipo di ‛modello' storico-culturale limitato ai soli elementi del sistema dominante (egemone). Lo strutturalismo - scrive Derrida - ‟nei due campi dove si è manifestato all'inizio, vale a dire nella biologia e nella linguistica, tiene soprattutto a preservare il carattere di coerenza e di pienezza di ogni tutto al livello che gli è proprio. Lo strutturalismo rifiuta di prendere in considerazione nei vari assiemi quanto vi può essere di incompiuto o di difettoso, tutto ciò che potrebbe essere interpretato come l'anticipazione cieca o la deviazione misteriosa di una ortogenesi pensata a partire da un fine (telos) o da una norma ideale. Essere strutturalista significa occuparsi innanzi tutto dell'organizzazione del senso, della sua autonomia ed equilibrio, dell'esatta distribuzione di ogni momento, di ogni forma; significa rifiutare di ridurre al rango di accidente aberrante tutto quello che un tipo ideale non permette di comprendere. La stessa patologia non è una semplice mancanza di struttura. Essa è organizzata. Non la s'intende come una mancanza, una defezione o decomposizione di una bella totalità ideale. Non è una semplice sconfitta del fine (telos)" (v. Derrida, 1967, pp. 43-44).
In presenza di fenomeni semiotici complessi, come lo può essere una cultura storicamente determinata, sarà quindi opportuno elaborare ‛modelli' meno rigidi, o se si vuole, più articolati di quelli correnti. B. Uspenskij ad esempio, una volta riconosciuta la compresenza nell'ambito delle singole culture letterarie di varietà stilistiche multiple, pensa che il fenomeno sia sostanzialmente simile a quello che regola i rapporti fra le varietà linguistiche coesistenti in una data comunità, dove alla lingua letteraria si alternino altri registri fra cui, in prima linea, quello dialettale. Il termine da lui impiegato a questo fine è di ‟poliglottismo" (v. Uspenskij, 1968, p. 125) stilistico e il modello proposto si presenta come una somma di sistemi indipendenti gli uni dagli altri e per tanto utilizzabili alternativamente nell'atto di realizzare uno stesso contenuto. Uspenskij parla di ‟differenziazione dei livelli dell'espressione e del contenuto" (ibid., p. 124) e di ‟traducibilità" del contenuto da un sistema espressivo - stile - a un altro (ibid., p. 126). Il ‛modello', i cui precedenti vanno ricercati nelle teorie di Jurij N. Tynjanov, appare per altro inadeguato ai nostri fini, visto che gli ‛stili' si presentano normalmente come varianti ideologiche opzionali, possibilità espressive della ‛cultura' stessa e non certo culture alternative.
In effetti per ‛cultura' va inteso qualcosa di più generale, che investe la sostanza umana nei suoi valori (motivi e temi) più universali (v. § c). I motivi e i temi, già identificati col concetto di ‛segno', fondano il sistema o, se si vuole, il linguaggio della ‛cultura'. Tale linguaggio va inteso, a sua volta, come dominante dell'epoca; esso assolve alle funzioni di ‛momento egemone' e ha una sua struttura ben definita. Questo però non toglie che attorno a tale nucleo centrale (o sistema) si situi, sia pure in posizione subordinata, ma non per questo del tutto pacifica, un numero più o meno elevato di elementi o ‛fattori anomali' (v. Avalle, 1969) alternativi nei confronti di questo o quell'altro elemento del sistema stesso. I fattori anomali provengono non solo da strutture adiacenti nel tempo (arcaismi) e nello spazio (prestiti, influenze), ma anche da modificazioni avvenute nell'interno del sistema (neologismi), per cui accanto all'elemento primario vengono a collocarsene degli altri, più ‛moderni' o più ‛volgari' a seconda dei casi, prodotti dalle defaillances della struttura. In tale prospettiva i fattori anomali si qualificano quindi come frammenti destrutturati di sistemi adiacenti nel tempo e nello spazio, oppure come innovazioni locali, sostanzialmente irrelate, sul cui grado di strutturabilità è possibile fare previsioni solo a posteriori.
Lo stesso si può dire degli ‛stili', per cui non vale tanto il principio, postulato da Uspenskij, della ‛compresenza dei sistemi', quanto, ancora una volta, quello della proliferazione dei fattori anomali. Così, se volessimo descrivere il sistema di versificazione dei più antichi monumenti delle letterature romanze, grosso modo dal XII secolo in poi, potremmo osservare, accanto a una richiesta perfetta congruenza timbrica fra le vocali interessate dall'assonanza o dalla rima, omofonie (conservate soprattutto in Italia), oltre che fra le due varianti, stretta e aperta, della e e della o, fra la e stretta e la i, da una parte, e fra la o stretta e la u, dall'altra. Ora, queste varianti, indubbiamente anomale nei confronti del sistema centrale il cui punto d'irradiazione va individuato nella Francia carolingia (esso è già presente nelle assonanze della sequenza di S. Eulalia, c. 881), sono di origine merovingica, risalgono insomma a circa quattro secoli prima della più antica fioritura lirica italiana, dove prendono (forse impropriamente) il nome di ‛rima siciliana'. Per venire ad epoca più vicina alla nostra, si potrebbe ricordare il caso di canzoni popolari costituite di quartine monorime di alessandrini e cantate su motivi di fattura nettamente gregoriana, attestate verso la fine del secolo scorso nella campagna francese, durante insomma la massima fioritura del simbolismo... Il genere è notoriamente di ascendenza medievale (gli esemplari più antichi risalgono alla fine del XII secolo in Francia) e già nel XIV secolo era considerato, sempre in Francia, di gusto arcaico e popolare. Quanto invece ai ‛neologismi', la storia culturale è ricchissima di opere, esperienze sia di carattere ideologico, sia di tipo tecnico e formale, e così via, ‛giunte in anticipo' sui tempi, vale a dire anomale nei confronti del sistema dominante, e recuperate solo più tardi in un mondo ormai preparato a grammaticalizzarle. Classico il caso di Isidore Ducasse, comte de Lautréamont, rimasto sconosciuto all'epoca sua, e riscoperto quasi un secolo dopo dai ‛surrealisti' degli anni venti.
Naturalmente gli esempi della coesistenza di elementi estranei accanto al sistema culturale egemonico di un'epoca potrebbero essere moltiplicati a piacere. Nello stesso modo andrà detto che non sempre quello che viene considerato il sistema egemonico di un'epoca lo sia anche statisticamente sul piano della cultura di massa. Nella Francia della seconda metà del Settecento l'illuminismo costituisce in realtà il patrimonio di un gruppo molto attivo, ma nettamente minoritario; ancora all'inizio dell'Ottocento gli idéologues non rappresentavano più di una frangia ristretta dell'aristocrazia progressista. Se si dovesse descrivere quali erano le condizioni reali della cultura francese a cavallo fra i due secoli, anche in piena Rivoluzione, saremmo costretti a riconoscere la presenza massiccia o, se si vuole, la sopravvivenza del vecchio sistema culturale a tutti i livelli, e a considerare le nuove ideologie democratiche, lo stesso romanticismo, come fattori anomali d'incerto destino (almeno agli occhi dei contemporanei).
i) L'universo semiologico della poesia attuale
L'attuale sistema dei ‛segni culturali' di denominazione letteraria appartenenti al piano del ‛contenuto' (v. § c) non presenta novità di rilievo nei confronti di quello elaborato durante il secolo scorso. Questo risulta anche dall'esemplificazione addotta nei capitoli che precedono, dove i campioni di estrazione romantica e tardoromantica risultano prevalenti nei confronti di quelli del XX secolo. La nuova e sensibilità' portata alla luce dai romantici domina ancora incontrastata nonostante alcune sapienti mascherature. L'antieroe' è sempre l'eroe romantico anche se visto allo specchio. I libri di versi, compresi quelli politicamente più impegnati, traboccano di preoccupazioni personali (la ragazza, il gioco, il sesso, l'amicizia, l'odio, l'amore, il sangue...). La poesia oggettiva e didascalica, tranne eccezioni (ad esempio Brecht), resta un mito e tanto Eliot quanto Neruda, per citare due poeti situati in zone ideologicamente divergenti, non sono riusciti a liberarsi dalle loro angosce private. Questo terribile personaggio che è il ‛ribelle' e che con il suo anticonformismo, individualismo, pionierismo (il gergo impiegato allo scopo è quello dei militari: 'avanguardia', ‛lotta', ‛difesa dei valori', ‛posizione', ‛critica militante', ecc.), aggressività e fondamentale ottimismo (nonostante tutto anche la disperazione è una forma di ottimismo...) segna la marcia della civiltà delle macchine, costituisce ancor oggi il centro di non poche esperienze esistenziali sia in senso negativo (ad es. Céline) sia in senso positivo (Malraux).
Quanto invece al campo della ‛forma', è indubbio che si sono date delle novità, anzi delle grosse novità. Ma ancora una volta l'avvio a tali novità viene dall'Ottocento, e più precisamente dalla sperimentazione dei simbolisti, dal loro spirito di avventura. Prima di tutto Mallarmé e poi, soprattutto, Rimbaud con le sue profetiche visioni sul futuro di una poesia finalmente disancorata dai modelli del passato.
Il sistema nucleare, d'altro canto, e sempre quello della tradizione. La scuola, potente veicolo di modelli di comportamento sul piano della cultura di massa, non è andata oltre il verso libero; dominano ancora incontrastati, almeno nel campo della produzione ‛scolastica', l'endecasillabo in Italia, l'alessandrino e l'ottosillabo in Francia, il verso regolare nei paesi anglosassoni, il tetrametro giambico in Russia e così via. Percentualmente tale produzione rappresenta la fetta più notevole dell'attuale produzione poetica. Il fatto di essere per lo più semiclandestina (non per la vergogna della poesia, ma per la mancanza di riconoscimenti editoriali adeguati, oppure per essere canalizzata in organi di stampa ufficiali, burocratici...) spiega la scarsa considerazione in cui è tenuta. Questo non ci impedisce, comunque, di constatare che essa rappresenta tuttora l'ideale di un uditorio vastissimo, socialmente e culturalmente indifferenziato, su cui hanno forse più informazioni i sociologi (che non si interessano di letteratura), che non gli addetti ai lavori, i cosiddetti specialisti. Tuttavia neppure l'avanguardia ha totalmente eliminato il verso. In proposito sarà sufficiente sfogliare una qualsiasi rivista per rendersi immediatamente conto della ‛presenza' fisica della poesia nel senso tradizionale della parola: margini più ampi a destra e a sinistra del foglio, spazi bianchi fra strofe e strofe, caratteri più grandi e più spaziati. La poesia ha bisogno di silenzi e di sospensioni; l'obbligo per l'occhio di correre a lungo sulla pagina e di soffermarsi sulle parole non può che facilitarne la sillabazione. La lezione di Mallarmé è ancora valida per non poca poesia del giorno d'oggi: ‟Pourquoi - un jet de grandeur, de pensée ou d'émoi, considérable, phrase, poursuivie, en gros caractères, une ligne par page a emplacement gradué, ne maintiendrait-il le lecteur en haleine, la durée du livre, avec appel à sapuissance d'enthousiasme: autour, menus, des groupes, secondairement d'aprés leur importance, explicatifs ou dérivés - un semis de fioritures" (Le livre, instrument spirituel).
Il tenace perpetuarsi della tradizione non ci esime però da una constatazione di fondo: e cioè che la stagione dei ‛grandi poeti' sta ormai per tramontare, se non è già tramontata. Nessun nome nuovo, fra le generazioni recenti, è giunto a sostituire i Valéry e gli Éluard in Francia, gli Eliot e i Pound nei paesi anglosassoni, i Blok e i Pasternak in Russia, i Machado e i Neruda nei paesi di lingua spagnola; in Italia non si vede chi possa affiancarsi a Montale, l'ultimo ‛grande poeta' vivente.
In compenso assistiamo all'emergenza degli ‛idoli', i cantanti folk anglosassoni (ad esempio B. Dylan) e brasiliani (V. de Moraes, Ch. Buarque de Hollanda), i chansonniers francesi, i cantautori italiani, i declamatori americani (ad esempio A. Oinsberg), russi (A. Voznesenskij e E. Evtušenko), e così via. La loro tecnica, almeno per quel che riguarda l'impostazione formale del testo poetico, ricalca nelle grandi linee i modi tradizionali del verso libero; i temi sono quelli di sempre. Ma l'impatto è nuovo, gli ascoltatori riconoscono, sia pure oscuramente, una certa ‛qualità' e non si preoccupano più di tanto. La poesia è salva anche fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori e tutto ricomincia da capo, come se nulla fosse successo.
Lotman (v., 1970; tr. it., pp. 338 ss.), nel parlare di estetica dell'identificazione e di estetica della contrapposizione, mette in rilievo l'esistenza di due entità o classi di opere letterarie ‟tipologicamente correlate", sebbene spesso sia esistito fra loro un rapporto di ‟consequenzialità" (ibid., p. 338). La prima delle due estetiche ‟si basa sulla piena identificazione dei fenomeni della vita con i modelli standard già noti al pubblico e che rientrano nel sistema delle ‛regole'" (ibid., p. 339). L'estetica della contrapposizione invece è quella delle opere ‟in cui la natura dei codici non è nota al pubblico prima dell'inizio della percezione artistica" (ibid., p. 341). In effetti, se teniamo presenti le condizioni attuali della poesia, osserviamo che non sempre la divisione fra le due classi è così netta. Nella maggioranza dei casi l'estetica della contrapposizione, così come viene attuata sul piano della ‛forma', non si estende necessariamente al ‛contenuto'; anzi non cessiamo mai di meravigliarci di fronte alla banalità dei ‛contenuti' di opere formalmente stravaganti. Viceversa, poesie basate sull'estetica dell'identificazione quanto alla ‛forma', ci colpiscono per la straordinarietà del ‛contenuto': vero miracolo di novità, apertura su mondi sconosciuti anche ai lettori più informati.
In questo gioco di ‛contrapposizione' e di ‛novità' si stanno ora movendo due moderni filoni della letteratura contemporanea (sostanzialmente comportamentistici e gestuali). Essi tendono a sostituire all'immagine tradizionale della poesia come oggetto di contemplazione, una diversa accentuazione dei suoi aspetti pratici, della sua incidenza non solo sulla conoscenza, ma anche sulla trasformazione del mondo.
Il primo è quello della poesia-liberazione. Esso è stato descritto convenientemente da Marcuse e nello stesso tempo analizzato nella sua fondamentale contraddittorietà. ‟Lo sviluppo dell'Arte in direzione dell'arte non-oggettiva, dell'arte minimale, dell'antiarte scrive Marcuse (v., 1970; tr. it., p. 1 34) - rappresenta un moto verso la liberazione del soggetto, per prepararlo a un nuovo mondo-oggetto invece di indurlo ad accettare e sublimare, pulcrificare il mondo esistente, per liberare la mente e il corpo [. . .]. Si vuol andare verso l'arte vivente' (contradictio in adjecto?), si vuole un'arte in movimento, ‛in quanto' movimento". Tuttavia nello stesso tempo, si domanda Marcuse, ‟l'Arte Vivente, l'antiarte in tutte le sue varietà: non si tratta di qualcosa che trova in sé la sua sconfitta? Tutti questi frenetici sforzi per produrre l'assenza della Forma, per sostituire il reale all'oggetto artistico, per porre in ridicolo se stessi e il cliente borghese: non si tratta forse di attività frustranti, che fanno già parte dell'industria del divertimento e della cultura da museo? Io ritengo che lo scopo della ‛nuova arte' si sconfigga da sé poiché in esso permane, e deve permanere, non importa quanto ‛minimalmente', la Forma d'Arte in quanto differente dalla non-arte [...]" (ibid., p. 135).
L'altro filone è quello che manifesta piena fiducia nell'impiego degli elaboratori elettronici, unici strumenti atti a modificare la struttura dell'informazione e di conseguenza esercitare un potente influsso sulla concezione stessa dell'arte. Le previsioni, ad esempio, di J. W. Burnham (v., 1970; tr. it., p. 121) sono che ‟l'idea tradizionale degli oggetti e dei luoghi consacrati all'arte cederà gradualmente all'opinione che l'arte è un focus concettuale, e che la nozione di forma intesa come processo e sistema, trascende la più letterale nozione della forma geometricamente definita". A questo punto si entra nel campo dei ‛futuribili' e il tono dei discorsi rivolti a rappresentarsi le cose di domani si fa decisamente apocalittico. In un'epoca come la nostra di tanto incerto avvenire è indubbio che la tendenza prevalente sia al drammatico e al malinconico. Questo ad esempio è l'atteggiamento assunto da Montale. Ogni speranza però non è perduta, e non certo, come potrebbe sembrare, dalla specola di un'illuminata conservazione. Perché, se è lecito dubitare di alcuni falsi profeti, non cessa con questo la curiosità, umanissima, per quello che uscirà dalla buia caverna del futuro alla luce di un presente turbato e soprattutto scontento di sé.
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