Poeti del Cinquecento, Tomo I, Poeti lirici, burleschi satirici e didascalici - Introduzione
L'introduzione a questi Poeti del Cinquecento deve farsi carico di una storia editoriale travagliata. Più che a scusante dei curatori, che vedono stampato il loro lavoro a molti anni dalla scadenza contrattuale e dalla consegna dei materiali, è per collocare il libro nel tempo, in una vicenda esterna, ma non estranea al suo destino, che lo ha condizionato strettamente. Di là da puntuali inadempienze o ritardi nella stampa, ci si può chiedere perché una silloge di poeti del Rinascimento sia stata di così lunga realizzazione.
Si tratta, come per altri volumi della collana, di un lavoro di vecchia data, concepito fin da quando fu divulgato il progetto «La letteratura italiana. Storia e testi», sotto la direzione di Raffaele Mattioli, Pietro Pancrazi e Alfredo Schiaffimi. Collana nuova per concezione grafica e formula editoriale, che nasceva con un'eredità prestigiosa, ma vincolante. Su di essa si stendeva infatti il patrocinio ideale di Benedetto Croce e gravava l'ipoteca della sua idea di storia letteraria, lucida certo, ma invecchiata senza rimedio. Croce a quella data era ancor vivo, più che ottuagenario. Con invidiabile energia approntò in prima persona la raccolta Filosofia - Poesia - Storia, «pagine tratte da tutte le opere a cura dell'autore», settantacinquesimo e ultimo volume previsto a coronamento della serie, ma primo a essere pubblicato nel marzo 1951.
Dei Poeti Urici, burleschi e didascalici del Cinquecento (esclusi dunque i satirici, ma inclusa una piccola schiera d'autori di esametri) avrebbe dovuto assumere la cura Ettore Bonora, che sottoscrisse un contratto nel dicembre 1949. Il libro, che prevedeva la collaborazione di Luigi Ronga «per la parte musicale», non si fece. Ne resta un piano, di concezione non più ben perspicua, partito in sette sezioni, la più attraente delle quali è l'ultima, «Appendice: canzoni epico-liriche, villanelle, zingaresche, storie di canterini», di consistenza incerta. Tramontato questo progetto, a partire dal 1962 appare un nome autorevolissimo di curatore, quello di Carlo Dionisotti, come si ricava da vecchie schede che preannunciano il libro. Sennonché la candidatura di Dionisotti era solo virtuale, una specie di auspicio dei direttori che l'interessato non smentì mai, senza che l'impegno si traducesse in carte. Dionisotti, a quanto risulta anche dall'archivio della casa editrice, non fu mai sotto contratto. E nel corso degli anni dimise il giovanile interesse per le rime del Bembo e dei petrarchisti dell'età sua volgendosi ad altro, segnatamente a studi sul Machiavelli e sull'Ottocento. È da esprimere un sincero rammarico, come di un'occasione perduta, che il suo progetto non avesse corso: era ancora attuale nel febbraio 1967, se Dionisotti, declinando nel contempo l'invito a redigere la prevista Storia della letteratura del Cinquecento, opera promessa a suo tempo all'editore Vallardi, poteva scrivere a Schiaffimi «Non dispero di venirne a capo entro l'anno prossimo». Bibliografia alla mano, si può recuperare qualche frammento dell'operosità di Dionisotti intorno alla poesia cinquecentesca, probabilmente in servizio del progettato volume ricciardiano, negli anni che vanno dal saggio di Nuove rime di Niccolò da Correggio (1959) e dall'edizione di Prose e rime di Pietro Bembo per i «Classici Italiani» Utet (1960, 19662), agli Appunti sulle rime del Sannazaro (1963) e ai contributi su Annibal Caro (1966), su una canzone del Bandello (1968), su Lepanto nella cultura letteraria e sui Capitoli del Machiavelli (1971). Era destino che la lirica del Cinquecento, cui Croce aveva dedicato pregevoli saggi nei Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, restasse sequestrata in un'esemplarità fuori dal tempo, quella stessa che aveva decretato la sua precoce fortuna in Europa; chiusa in un canone a cui neppure l'erudizione settecentesca era riuscita a strapparla.
Comunque sia, dopo una quiescenza di anni, ai primi del 1973 Mattioli affidò a chi scrive la cura dell'unico volume allora previsto (peraltro già diviso in due tomi), cui avrebbe collaborato anche Silvia Longhi. Per parte mia a quel tempo, dopo aver redatto una tesi di laurea su un poeta minore del Cinquecento, nutrivo interessi tutt'altri, metrici, quattrocenteschi e albertiani. Ma il contratto con la Ricciardi, cosi impegnativo per mole, non si voleva esclusivo: si metteva in conto un lavoro lento e intermittente, senza scandalo del tollerante editore, non uso a misurare il tempo per calendi. E a Mattioli era impossibile dire di no. «Ti occuperai dell'Alberti quando sarai vecchio», decretò. In quegli anni la Ricciardi aveva incluso nei «Documenti di filologia», una collana creata apposta per Contini, una mia edizione di Rime e versioni poetiche di Leon Battista Alberti e pubblicato una raccolta di lettere inedite del Castiglione alla madre, talché il giovane studioso riconosceva volentieri dei debiti di gratitudine verso Mattioli e la sua casa. Fui promosso d'autorità antologista della poesia cinquecentesca, e tale rimasi.
Nel frattempo molte cose erano cambiate. La collezione aveva perso i suoi padri fondatori, dopo che anche Mattioli era morto nel luglio 1973. L'uscita dei volumi, tutti di alta qualità, si era diradata fin dai primi anni Sessanta, diminuendo d'intensità - a ragion veduta - dopo il primo rapido e forse troppo baldanzoso esordio. Non posso render conto qui di cambiamenti che coinvolsero la Ricciardi: nuovi assetti di proprietà e soprattutto nuove tecniche di stampa che influirono sulle sorti del libro. Basti citare i fatti editoriali salienti, esigenze e orientamenti generali nel cui contesto il presente volume s'iscrive. Stella fissa in questi cieli tempestosi e rotanti è stato Gianni Antonini, che ha seguito fino all'ultimo, con la consueta perizia, la lavorazione del volume e ne è buon testimone a ogni effetto. La menzione del suo nome in questa prosa preliminare valga idealmente ad associarlo, a pieno diritto, alla cura dei nostri Poeti.
L'originario impianto crociano della collana era stato silenziosamente, ma fermamente soppiantato da una nuova pratica, che imponeva di necessità tempi di esecuzione più lenti. La lezione fornita da Contini nei Poeti del Duecento, la più bella antologia della nostra storia letteraria, aveva fatto scuola; ma era anche un precedente frustrante, che intimoriva e paralizzava ogni miglior zelo. Eccellenza a parte, i Poeti del Duecento erano nati con una formula originalissima. Dopo una più che decennale attesa, i due tomi uscirono nell'ottobre i960 sotto la responsabilità di un solo curatore, che nel fissare la lezione dei testi si era avvalso a suo piacimento della collaborazione di alcuni giovani filologi, i maestri della generazione successiva. Presso chi era avvertito e sensibile a questi fatti, la filologia testuale e la nuova ricetta in cui era stata tradotta pesavano come un esempio impreteribile e non però eguagliabile, alto e scoraggiante. Di fatto, fu il deterrente a non percorrere con la disinvoltura del passato un cammino tracciato a suo tempo con preoccupazioni storiche, documentarie ed erudite, prima che filologiche. Bisognava tornare agli originali, manoscritti e stampe; e si misurava a quel punto quanto lavoro restasse da fare: lavoro arduo, dispersivo e bibliograficamente insidioso. Per attenersi al caso nostro, si trattava di un compito non compatibile coi tempi che di solito sono impartiti per compilare un'antologia. La nuova ricetta significò l'abbandono delle edizioni correnti di cinquecentisti e delle stampe settecentesche della loro poesia, sulle quali era presumibile che la scelta dovesse fondarsi. Per restare in ambito rinascimentale, il primo tomo (unico uscito, nel 1988) del Teatro del Cinquecento, ossia La Tragedia, a cura di Renzo Cremante, offre un significativo paradigma dell'impegno gravoso di verifica testuale (incluse le citazioni in nota) che la nuova pratica e le attese dell'editore comportavano.
La crisi del modello tradizionale di crestomazia provocata dai Poeti di Contini fu profonda. Come si vide, per la poesia lirica e morale in senso lato, quando uscì, nel 1969, la silloge di Rimatori del Trecento che Giuseppe Corsi pubblicò nella collezione dei «Classici Italiani» Utet, fondata da Ferdinando Neri e diretta da Mario Fubini. Libro inusitato per mole e per i fitti apparati filologici, mai visti in quella collana prima d'allora e ripugnanti al gusto medio del lettore di classici. Libro imperfetto, greve, non bene accolto dalla filologia accreditata, ma che oggi appare un monumento di probità e d'impegno. Era un altro segno che le aspettative erano mutate. Fatto sta che dopo i Poeti del Duecento la Ricciardi non produsse altre antologie collettive di poesia compilate per secoli. Non videro la luce, nonché quelli del Cinquecento, neppure i Poeti del Quattrocento. Oggi possiamo valerci, per altri periodi, solo di volumi di antica fattura. Come i Lirici del Settecento, a cura di Bruno Maier (e di Dante Isella per Balestrieri e Tanzi) con Introduzione di Mario Fubini, usciti nel novembre 1959. O dell'Appendice di poeti satirici e didascalici del Settecento alle Poesie e prose del Parini: un volume misto che Lanfranco Caretti potè confezionare fiduciosamente nel 1951, ma che dopo i Poeti di Contini non sarebbe potuto uscire in quella compagine. Caretti aveva avanzato anche a stampa intuizioni brillanti sul testo critico del Giorno, da rifare di sana pianta : non per questo l'antologia si era arenata in attesa del meglio. Tra il dire e il fare, prima che si desse un'edizione veramente critica di Giorno e Odi, che Isella realizzò molti anni dopo, poteva ben starci una riproposta dei testi vulgati, stampata in bei caratteri da Mardersteig e commentata da uno studioso di vaglia.
Resistono meglio al dopo Contini, ai tempi mutati e al rigore degli anni i due tomi di Poeti minori dell'Ottocento approntati da Luigi Baldacci, che assunse da solo la cura del primo, uscito nel gennaio 1958, e che per il secondo, pubblicato nel novembre 1963, si associò nell'impresa Giuliano Innamorati. Poeti minori perché privi di Foscolo, Manzoni, Leopardi e perfino di Monti, destinati a uno o più tomi tutti per loro, e senza la triade di Pascoli, Carducci e D'Annunzio. Che nella collana «La letteratura italiana. Storia e testi» l'antologia di più autori fosse entrata in crisi intorno al fatale i960, lo rivela anche la diversa consistenza delle due Introduzioni che Baldacci scrisse, a distanza di qualche anno, per i suoi due tomi: per il primo una quarantina di pagine (pp. IX-XLVI), seguite da un'effusa Nota bibliografica, per il secondo quindici sole (pp. IX- XXV), che esordiscono così: «Le nostre pagine altro carattere non vogliono avere che quello di giustificare l'impianto di questo secondo tomo, esercitando quasi la modesta funzione di guida topografica».
Era la fine di un mito, il sintomo che qualcosa era mutato nella pratica della crestomazia e del commento. Ancora nel 1959 Fubini poteva rivendicare a sé un ruolo di caposcuola, intervenendo sui Lirici del Settecento da fuori cantiere: nella volta tiepolesca della Sala, il tondo del soffitto, la Medaglia, non spettava ad altri che a lui, maestro degli studi settecenteschi. La bottega si occupasse del resto, testi e commenti, sovrapporte e decorazioni: quel che importava era specialmente l'affresco principale, la storia effigiata o il mito che dava il nome all'ambiente. Contini invece del Duecento poetico - un settore, più che rinnovato, inventato ab imis dalla sua antologia - non offriva affreschi di sorta. La consueta Introduzione è surrogata da una più modesta Avvertenza (pp. XI-XXIII), apologetica ed esplicativa. Contini aveva scelto la sordina per il tono e la metascrittura per il genere, affidando a un resoconto uscito in altra sede, Esperienze d'un antologista del Duecento poetico italiano, più che un bilancio storiografico, una meditazione tecnica sul lavoro compiuto.
Marino e i marinisti
Fuori collana, non mancavano naturalmente antologie moderne della poesia rinascimentale. Se si menzionano qui, è soprattutto per ragioni d'inventario, per redigere un canone di presenze e di assenze, perché il commento ai testi, con poche eccezioni (l'antologia di Baldacci per taluni componimenti e, con programmatica diligenza, quella recente di Segre e Ossola) si riduce a una ben magra chiosa, non di rado insufficiente anche alla dichiarazione della lettera. Ricordo i Lirici del Cinquecento (1958) di Daniele Ponchiroli per i «Classici Italiani» dell'Utet. Ponchiroli proponeva in veste dignitosa, senza pretese filologiche, ma con buona informazione, la poetica suppellettile di una quarantina di cinquecentisti. Il libro ebbe credito, tanto che se ne procurò una ristampa arricchita di cinque autori dieci anni dopo, a cura di Guido Davico Bonino. Ponchiroli era un lettore acuto, che a suo tempo aveva ristampato (su suggerimento di Contini) il diffìcile canzoniere di Galeazzo di Tarsia e annotato, sia pur in modo stringatissimo, il Canzoniere petrarchesco. Da queste esperienze gli veniva l'idea di un Cinquecento tutto sotto il segno del Petrarca, un secolo di manieristi che non potevano non dirsi petrarchisti. Ma ciò è vero solo in parte. Far coincidere il Cinquecento poetico col petrarchismo è un'idea sbagliata, che il presente volume si è industriato di rettificare.
L'altra antologia che andava per le mani erano i Lirici del Cinquecento di Baldacci, editi a Firenze nel 1957 presso Salani e ristampati a Milano nel 1975 nei «Classici della Società Italiana» di Longanesi, con aggiornamenti di Giuseppe Nicoletti. L'annotazione era più ampia che nel volume omonimo dell'Utet, e il curatore moveva da un'adesione convinta a quella poesia, oggetto di un suo studio specifico, Il petrarchismo italiano nel Cinquecento, uscito da Ricciardi quello stesso anno e ristampato a Padova, presso la Liviana, nel 1974. Baldacci si era voluto giudice di poesia, curioso di scoprire nella selva dei petrarchisti voci liriche autentiche, senza preoccupazioni rappresentative. Nella sua silloge, a Bembo e a Michelangelo spettano circa trentacinque pagine ciascuno, e poco meno a Giovanni Della Casa; a Gaspara Stampa, debitamente rivalutata, una cinquantina con ottantuno componimenti, e sono trentotto le poesie di Chiara Matraini, non inclusa da Ponchiroli nella sua scelta (ma non più di sei quelle d'Isabella di Morra, voce femminile già riscoperta da Croce). E se Michelangelo è presente con cinquantatré testi, cinquantuno ne può vantare il madrigalista Giovanni Battista Strozzi (ventitré presso Ponchiroli). Prevalgono insomma le ragioni del gusto e della riscoperta. L'ordinamento degli autori è fatto per aree geografiche, dal Veneto di Pietro Bembo ai lirici del Reame, e all'interno delle sezioni vigono beninteso le ragioni della cronologia. Nella ristampa del 1975, in tempi postdionisottiani (Geografia e storia della letteratura italiana è del 1967), si rivendica la novità di tale ordinamento, anche se, a mio parere, il pregio della silloge è piuttosto di natura critica che storiografica, affidato all'intelligenza del curatore meglio che alle convenzioni della museografia. E andrebbe messa in giusta luce l'adesione alla poesia femminile, rappresentata con larghezza e illustrata con simpatia.
La Poesia del Quattrocento e del Cinquecento, curata da Carlo Muscetta e Ponchiroli per il «Parnaso italiano» di Einaudi nel 1959, è ricca di testi senza note, proposti in una collezione - il nuovo «Parnaso» appunto - che per sua natura scoraggiava dall'affrontare seriamente problemi di canone: basti dire la continuità proclamata di due secoli così diversi. Una parata di testi che ebbe scarsa efficacia storiografica. Anche perché, di lì a pochi anni, si vide bene cosa aveva prodotto per davvero il Quattrocento, in rima. Fu quando Antonio Lanza, con abnegazione mai vista, stampò i suoi Lirici toscani del Quattrocento (Roma, Bulzoni, 1973 e 1975): due tomi di proporzioni badiali, che riversavano sulle angustie dei florilegi (composti fior da fiore da sillogi pregresse) un diluvio di circa sessantacinquemila versi, in massima parte inediti. Scrissi allora che Lanza si era fatto «l'esecutore testamentario del Flamini», avendo ricalcato alla lettera il canone alfabetico della bibliografia delle rime raccolta in appendice a La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico (1891). Vorrei riprendere quella formula spogliandola dell'ironia di cui era condita. E constatare che dopo trent'anni quella stampa fluviale e lutulenta è un lemma insostituito e forse insostituibile per la conoscenza della poesia minore del nostro Quattrocento.
Per il periodo anteriore alle antologie uscite nel dopoguerra, può valere la recensione che Dionisotti fece ai Lirici del Cinquecento di Carlo Bo (Milano, Garzanti, 1941) sul «Giornale storico della letteratura italiana», lviii (1941), pp. 56-63. Recensione severa, che è anche il sintomo della divaricazione tra ragioni estetiche ed erudite, poste quest'ultime sulla linea di Croce e di Vittorio Cian. Delle censure filologiche oggi non ci si potrebbe contentare, e andrebbero indagate le istanze del gusto e della poetica ermetica che suggerirono a Bo le sue scelte. Ma è forse con la mente a questo lucidissimo scritto che Schiaffini e Mattioli pensarono a Dionisotti come al curatore ideale del volume ricciardiano.
Dopo queste, altre antologie sono state date alle stampe, con intento Storico, illustrativo e documentario che, in linea di massima, relega in secondo piano il criterio estetico. Come la Poesia italiana del Cinquecento a cura di Giulio Ferroni (Milano, Garzanti, 1978). La curiosità del curatore va oltre il genere lirico, che occupa circa una metà del volumetto, tre sezioni su sette. È dato spazio alla «Poesia femminile», affrancata dalla geografia e dai generi; è concesso credito al Berni e ai titolari di «Esperienze marginali ed eterogenee», e si segnala una sezione di poesia dialettale. La destinazione divulgativa della silloge non può prendere in conto esercizi di poesia neolatina (è presente solo il macaronico del Folengo), ma la sazietà nei confronti del canone tradizionale è evidente. Ferroni però non è un eversore: la Poesia italiana del Cinquecento si colloca, quasi per ammenda storica, accanto a un'antologia tutta petrarcheggiante, redatta pochi anni prima insieme con Amedeo Quondam, La «locuzione artificiosa». Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell'età del manierismo (Roma, Bulzoni, 1973): silloge rapidamente congegnata, ma interessante e nuova, cui rese omaggio, pur dissentendo, un saggio di Giovanni Parenti, Vicende napoletane del sonetto tra manierismo e marinismo (in margine a una recente antologia), in «Metrica», I (1978), pp. 225-39. Ed è Quondam che l'anno seguente, in Petrarchismo mediato. Per una critica della forma «antologia» (Roma, Bulzoni), riportava la ricezione franta, selettiva, antologica appunto, della lirica cinquecentesca alle sue origini, ai Fiori o al Rimario di Girolamo Ruscelli e ad altri sistemi di aggregazione testuale. Quondam resterà fedele al suo orientamento in senso lato statistico e alle ricerche di storia della tradizione a stampa, come documentano i saggi raccolti in II naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo (Modena, Panini, 1991).
Antologie di antologie dunque, in un'inquietante rarefazione della storia nell'esemplarità. L'antologia, si rammenti, è un'istituzione tipica di un secolo che si apre in questo tomo, non senza ragione, con le Collettanee in morte di Serafino Aquilano: Templi in onore di nobildonne, Rime in morte, Rime di diversi eccellenti autori o, con puntuale delimitazione spaziale, di diversi illustri signori napoletani si susseguono senza remissione. Se si aggiunge alla lista la cosiddetta Giuntina di rime antiche, ovvero Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani in dieci libri raccolte, uscita a Firenze nel luglio 1527, si vedrà bene come il Cinquecento meriti a pieno titolo il primato in materia di florilegi poetici delle nostre lettere.
Il Cinquecento minore di Riccardo Scrivano (Bologna, Zanichelli, 1966) comprende ventotto autori o testi anonimi come la Ven(i)exiana. Nella silloge, in cui la prosa è egemone e l'assunto anticlassicistico operante più di ogni altro parametro, la poesia - fatti salvi Ariosto e Tasso, separati come maggiori - perde ogni aggetto, riportata a un ruolo minore e a una funzione secondaria (quale magari ha anche avuto). Il Bembo di Prose, Lettere e Asolarti mette in ombra il rimatore (dieci componimenti), e così il Casa del Galateo, dell'Orazione a Carlo V e delle Lettere. Anche Michelangelo, che pure presenta il numero più alto di liriche, ventisei, le associa a venti lettere, e una scelta analoga spetta a Vittoria Colonna. La silloge di Scrivano ci avverte che il Cinquecento traguardato dalla sola specola lirica è un secolo impoverito, come un'Arcadia arida e spoglia: paradosso storico, evasione e separazione da una realtà drammatica e luttuosa in un'età difficile, che ai suoi esordi è scandita dall'esemplare destino del Bembo, da cortigiano a cardinale, e che alla fine è chiusa dalla morte sul rogo di Giordano Bruno.
Si cita infine il secondo volume (Quattrocento-Settecento) dell'Antologia della poesia italiana diretta da Cesare Segre e Carlo Ossola nella «Biblioteca della Plèiade» di Einaudi-Gallimard, Torino 1998 (un'edizione economica, che include solo II Cinquecento, è stata procurata nel 2001). Nove le sezioni afferenti al Cinquecento, che per numero di pagine è inferiore a quanto spetta al secolo precedente, accreditato in genere, anche se a torto, di scarsa vena poetica. Marco Ariani, Lucia Lazzerini, Silvia Longhi, Vercingetorige Martignone, Stefano Prandi e Cesare Segre hanno curato le singole sezioni. Con ogni evidenza è al Tasso che si riconosce il primato nella lirica del secolo, il che è storicamente equo: giusto per la quantità, non per la qualità, che nel Tasso lirico è decorosa, piuttosto che ispirata, specie a paragone di Michelangelo, del Casa e dello stesso ultimo Bembo. Fuori dal poema, versi davvero memorabili il Tasso compose nella meravigliosa favola di Aminta o nel Torrismondo. L'autore più rappresentato è l'Ariosto, specialmente come autore delle Satire, capolavoro che apre una via poetica nuova, nella quale si collocano i capitoli del Berni e del Mauro. Il Sannazaro, le cui Rime uscirono postume nel 1530, entra alfine nei ranghi dei cinquecentisti, rompendo una tradizione che lo relegava artificiosamente al secolo precedente: sorte che è giusto riservare in futuro anche al Cariteo (1450-1514), il cui destino editoriale è cinquecentesco. E si dà spazio alla poesia latina non solo in omaggio al Folengo, un classico ormai riconosciuto, ma anche per la riproposta di versi latini di Castiglione, Sannazaro, Ariosto e Marcantonio Flaminio. I lirici cosiddetti minori, scissi in «Petrarchisti e manieristi» e «Rime spirituali», hanno una presenza più discreta del consueto, a conferma della diffidenza con cui si guarda ormai alla lirica cinquecentesca, che ancora per Croce era un genere egemone.
Il presente è il primo di tre tomi di Poeti del Cinquecento. Se si pon mente che i Poeti del Duecento ne comprendono due soli, si deve concludere che i compilatori, dando prova forse di un gusto un po' attardato, persistono a credere che la poesia del Cinquecento in sonetti, canzoni e capitoli sia un genere d'importanza storica, proponibile ancora con abbondanza ai lettori contemporanei. Perché indubbiamente l'impresa qui realizzata non ha precedenti, almeno per quantità, cioè per numero di autori prescelti - prescelti sempre a partire dagli originali - e di versi commentati. E non si è trattato di un'annotazione corsiva, ma articolata su più livelli, storico, stilistico, e l'individuazione delle fonti, che non si riduce però a censire le riprese dall'onnipresente Petrarca. Ogni commento è passibile di ampliamenti, né si pretende di aver detto qui l'ultima parola. Solo il confronto con la tradizione esegetica precedente potrà far emergere l'impegno speso per questi Poeti. anche se con scarto modulare e con incremento differenziato rispetto al punto di partenza. Se alcuni testi erano terreno vergine (specie quelli di molti minori), altri fruivano già di una chiosa che sfida l'emulazione, come il Bembo lirico commentato da Dionisotti. Le notizie filologiche e i 'cappelli', di misura disparata o anche di natura diversissima tra loro, fanno il punto su autori noti e su altri poco familiari o senz'altro ignoti, mai sottoposti alla verifica dei fatti o a un serio giudizio critico, e raccomandati al più da note apologetiche di eruditi locali.
Le raccolte antologiche di più voci liriche - che ebbero tanta importanza per le imitazioni che ne fece la Plèiade - al tempo loro, e ancora nella Storia e ragione d'ogni poesia (1739-1752) di Francesco Saverio Quadrio, o nella Biblioteca dell'eloquenza italiana (1753) di Giusto Fontanini e Apostolo Zeno, furono promosse a canone per eccellenza della versificazione italiana. Nove stampe collettive di rime, apparse presso più editori e con vario intento tra il 1545 e il 1560, ebbero il nome di nove Muse della lirica rinascimentale. Perché il prestigio del genere, oltre che dai canzonieri degli autori famosi, era assicurato anche dalla quantità, grazie a una miriade di minori.
Centralità della poesia, dunque, nel Tableau del secolo. E singolare che il Tableau historique et critique de la poesie franfaise et du théàtre franfais au XVIe siècle di Charles-Augustin Sainte-Beuve, altamente apologetico, sia uscito nel 1828, contemporaneamente al dileggio che nel Fermo e Lucia (II XI) il Manzoni riserva ad Angelo Di Costanzo e alla sua «empia tigre in volto umano»: a dire le mutevoli sorti di un classicismo esaltato o esecrato negli stessi anni per ragioni di poetica militante, piuttosto che di giudizio storico. Per altro verso, non ci si è illusi di scoprire voci nuove. Abbiamo attraversato la selva dei petrarchisti senza condividere i pregiudizi di Arturo Graf, che del petrarchismo faceva la «malattia cronica» delle nostre lettere; e però senza cedere a seduzioni e lusinghe, anche se è affiorato qualche nome inatteso di lirico eccellente finora ignoto, come ad esempio (nel secondo tomo) l'intensa produzione di Mario Colonna. Nel riesame della rimeria cinquecentesca si sarà forse perduta l'occasione di qualche pregevole scoperta, è più che probabile. E l'amico Alessandro Parronchi non troverà antologizzato, del Brocardo, un verso che ho sentito ripetere a mente e con ammirazione da lui, «Espero il dì cacciando, egli l'armento». Rammento anche il titolo spassoso di un saggio dell'erudizione passata: Un buon lirico parmigiano del Cinquecento, e si trattava di Iacopo Marmitta.
Questa nuova carta del navigar poetico cinquecentesco non traccia la sola rotta possibile, vale semmai da guida e da invito a percorrerne di nuove. Alla fine della ricognizione è stato proposto alla Stima dei moderni quel che magari già si supponeva degno di ammirazione, le rime del Casa più di ogni altra raccolta. Ma nella percezione dei valori qualcosa è cambiato e la programmatica durezza talora ha dovuto arrendersi. Come nel caso di Michelangelo, dove lo stupore e il culto del sublime in prove di non-finito han fatto posto all'umiltà di perseguire in primo luogo l'intelligenza della lettera, sdipanando le spire di una sintassi accidentata o cercando di restituire un senso a parole inaudite o difficili. Michelangelo, con Galeazzo di Tarsia, era stato segnalato all'attenzione novecentesca da un lettore d'eccezione quale Contini, che aveva percorso, disappetente e distratto, il canzoniere di un poeta assoluto come il Casa, e che a torto deve aver stimato noioso il Bembo lirico, per il quale si segnalano invece franche e pudiche aperture di credito nel commento pur ascetico di Dionisotti.
Capisaldi di questo primo tomo per la lirica sono il Bembo e Michelangelo, anche se si è voluto aprire il catalogo nel nome del Tebaldeo e con le Collettame in morte dell'Aquilano, a segnare l'inerzia della tradizione quattrocentesca, cui danno fiato anche il Cai- meta, Giovanni Bruni de' Parcitardi, Enea Irpino, Marcello Filosseno, Guidotto Prestinari e Baldassarre Olimpo da Sassoferrato con le rime loro. Una maniera mista, attiva e ancora in auge oltre il termine fatale del 1530, l'anno che vide l’editio princeps delle Rime dell'ormai sessantenne Bembo e, postumo di pochi mesi, il doppio canzoniere inedito di Iacopo Sannazaro. Del Bembo non si è offerta una scelta antologica - inevitabile per Michelangelo, sia per il numero dei pezzi superstiti (oltre trecento), sia per la natura franta e diseguale dei prodotti -, bensì un intero canzoniere. Per la prima volta da allora son state ristampate nella loro integralità le Rime del 1530, centoquattordici invece delle centosessantacinque dell'edizione postuma del 1548, curata da Carlo Gualteruzzi. Sono queste del 1530, a ridosso delle Prose (1525), le Rime che fecero testo per i cinquecentisti: era opportuno recuperarle nuovamente al nostro sguardo, col corredo di un commento che è il primo che sia stato redatto a loro illustrazione. Di seguito alle Rime del 1530, si propone una scelta di tredici sonetti tardi (significativamente, quasi tutti di corrispondenza), che mostrano l'estrema maniera dell'autore. Tra le due serie di rime, le cinquanta Stanze urbinati del 1507 documentano meglio di ogni altro testo coevo un impiego lirico e galante dell'ottava rima che sarà decisivo nella storia del metro, tra le Stanze del Poliziano, il Tirsi del Castiglione e la Ninfa tiberina del Molza. Se per il Bembo la filologia ha portato al recupero di una voce anteriore a quella comunemente accessibile, per Michelangelo l'ispezione e il vaglio dei materiali hanno convinto della necessità di procedere, in altra sede, a una nuova edizione, di cui ho dato una sommaria idea nel contributo Casi di filologia cinquecentesca: Tasso, Molza, da Porto, Michelangelo, uscito nella miscellanea Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1996, pp. 425-42.
I lirici settentrionali adunati nella v sezione sono epigoni tutti, anche ben avanti nel secolo, di un bembismo che non annulla le tradizioni, attardate e un po' anarchiche, della provincia tenacemente conservatrice che è la loro: mantovana (Baldassar Castiglione e Giovanni Muzzarelli), bergamasca (Giovanni Bressani, che aveva, come Ennio, tria corda : toscano, latino e bergamasco) 0 la regione dello Scrivia (Matteo Bandello e Luca Valenziano), rimatori a cui si aggregano Giovan Battista Schiafenato, milanese d'elezione, come pure il cremasco Niccolò Amanio, che rivela qui le radici sforzesche della sua poesia, e Iacopo Bonfadio, personaggio inquieto con fama di eterodosso, bresciano di nascita, ma tutt'altro che stanziale. Il più notevole del gruppo è naturalmente il Castiglione. L'autore del Cortegiano, come si vede dalla scelta qui operata, può guardare sia a Urbino col Tirsi, sia ai «superbi colli» e alle «sacre ruine» di Roma col suo famoso sonetto, ma idealmente resta di qua dalla maniera cinquecentesca più affermata, fiduciosa nei propri mezzi espressivi e libera da soggezioni nei confronti del passato. Il suo è un esercizio della poesia volgare nobilmente cortigiano, di adesione non proprio incondizionata alla poetica schiettamente promulgata dal Bembo, impregnato di un classicismo che si colloca tra la maniera nostalgica del Mantegna e quella archeologica del suo grande amico Raffaello Sanzio.
La sezione vi spetta a Francesco Maria Molza, tanto curiale nel dettato, oratorio e fastoso, quanto il Castiglione è schivo e riflessivo. Gli si dà udienza qui con una larga scelta di ottave della Ninfa tiberina. Ma anche il lirico in senso stretto, autore di sonetti e canzoni, è presente, come si addice a un Tebaldeo che abbia una riuscita più elegante di quello, o a un Marino minore, eloquente, sonoro, ma purtroppo in difetto d'armonia. La piccola sezione di Rimatori cortigiani e segretari di principi (VII) - Pietro Barignano, Francesco Beccuti detto il Coppetta, Luca Contile - intende dare un riconoscimento sociale e letterario a una tipica figura d'intellettuale cinquecentesco, versato nelle belle lettere e partecipe della vita del suo tempo al seguito di più padroni, che si affianca ai dionisottiani Chierici e laici, quale che sia il suo stato. Annibal Caro e altri poeti farnesiani (VIII) ne sono un sottogenere ragguardevole, che include autori di primissimo piano come Giovanni Guidiccioni e Claudio Tolomei. La maniera caratteristica della cerchia farnesiana - all'ombra di papa Paolo III (1534-1549), del figlio di lui Pier Luigi, duca di Parma e Piacenza dal 1545 al 1547, e del figlio di questi, il famoso mecenate cardinal Alessandro (1520-1589) - è però quella di Annibal Caro, non tormentato come quei primi due e meno pensoso di loro, e dall'ornato lucido ed esteriore di Antonfrancesco Rainerio. Del Caro è documentata qui anche la polemica con il modenese Ludovico Castelvetro, tanto più dotto e attrezzato di lui, ma chiuso nella sua impervia dottrina e come sperduto nella letteratura militante in cui incautamente andò a cacciarsi, fino a esserne travolto.
Forse la parte più inattesa del presente tomo va cercata altrove, apparentemente lontano dai paraggi della lirica. Si segnala il commento, adeguato all'importanza del testo, delle poesie di Francesco Berni, un irregolare che è un classico delle nostre lettere nella chiave delle Epistulae e dei Sermones oraziani. Dei ventotto capitoli del Berni, dei suoi sonetti, quasi sempre forniti di una cauda spropositatamente lunga, e dei pochi componimenti in altro metro è stata approntata un'edizione critica che cambia la vulgata sia nella lezione, sia nell'ordinamento dei testi: edizione completa di apparato e di vari accertamenti di storia della tradizione, raccolti in un'apposita Nota. Da quando la curatrice, Silvia Longhi, ha concluso il suo lavoro critico e filologico sulle rime del Berni, a poca distanza dall'uscita dell'innovativa monografia su Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento (Padova, Editrice Antenore, 1983), a lui e seguaci è stato riconosciuto con sempre maggior simpatia un ruolo rilevante nelle lettere rinascimentali. Caduto il pregiudizio per cui non si darebbe poesia fuori dalla stretta ortodossia petrarchesca, i ternari di Berni e compagni sono considerati come l'altra faccia della lirica cinquecentesca, quasi la garanzia in negativo della sua tenuta storica. Non è un caso se tra gli adepti dell'una e dell'altra maniera si trova il poeta più dotato del secolo, Giovanni Della Casa. E non meraviglia se al tutto Berni tien dietro qui, come risarcimento storico di una lunga negligenza, una cospicua sezione (XI) di rime di Giovanni Mauro, presenza nuova nelle antologie, nonché una di Altri burleschi (XII), che include firme squisite di scrittori polivalenti o anche prove di artigiani unius libri: Niccolò Campani detto lo Strascino, Pietro Aretino, Giovanni Della Casa, Giovan Francesco Bini, Agnolo Firenzuola, Mattio Franzesi, Lodovico Dolce, Niccolò Franco, Anton Francesco Grazzini e il Coppetta. Come per dovere d'ufficio è presentato uno smilzo gruppo di Canti carnascialeschi (XIII), firmati o anonimi. Ma i Poeti satirici (XIV) - cioè Luigi Alamanni, capofila di questa maniera in terza rima, insieme con Ludovico Ariosto (antinomico a lui per tono ed esiti stilistici), Ercole Bentivoglio, Francesco Sansovino e Cesare Caporali - rivendicano una dignità 'di genere' che può appoggiarsi a Orazio, anche se nei titoli e nella pratica si nota la tendenza ad abbandonare la via canonica e l'indignazione della «satira» per adottare la divisa meno corrucciata delle «rime piacevoli», o invece proporre una variante moderna in terza rima del serventese morale. La sezione di Poeti didascalici (XV) antologizza ampi brani del poema postumo di Giovanni Rucellai Le Api, a buon diritto dedicato al Trissino, lo sperimentatore più spregiudicato del secolo, e dell'altro esemplare canonico del genere, La coltivazione di Luigi Alamanni. Si trattava di operare recuperi testuali più estesi di quanto di solito accade, per restituire un tutto tondo alla poesia del secolo in canzoni, sonetti, ternari e anche in sciolti. La Crestomazia italiana poetica (1828) di Leopardi - innovativa e tutt'altro che deferente verso i canoni classici che pure erano i suoi, del suo gusto e della sua estetica, contemporanea anch'essa al Tableau di Sainte-Beuve - può valere da precedente. Nella Crestomazia, a rappresentare il «Secolo decimosesto» (cinquantacinque brani, da IX a LXIII) ci sono molti più versi sciolti che in rima. E le rime sono più spesso tolte da ottave e ternari, che da canzoni e sonetti, forma metrica detestata, che Leopardi praticò esclusivamente in chiave parodica, imitando ad esempio i Mattaccini del suo conterraneo Annibal Caro.
La Nuova poesia toscana (XVI), prodotta da un nucleo di letterati un po' maniacali raccolti a Roma intorno a Claudio Tolomei, e la scelta dei Cantici di Fidenzio (tredici sonetti antologizzati sui venti componimenti firmati da Camillo Scroffa, in xvil) chiudono il volume, come a segnalare la sanità di un sistema letterario, il cinquecentesco, che nutre i lieviti della propria contestazione, tollera e apprezza l'uso della parodia. La coesistenza di opposti registri si può esemplificare con due lettere di Anton Francesco Doni del luglio 1543, l'una al pittore Iacopo Tintoretto e l'altra al conte Agostino Landi: descrivono entrambe, in chiave burlesca o in versione aulica, il Museo di Paolo Giovio (cfr. Scritti d'arte del Cinquecento, tomo III, a cura di Paola Barocchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977, pp. 2894 e 2899-2900). Il Cinquecento è un secolo disciplinato solo in apparenza: a dispetto del conclamato, universale petrarchismo, è assetato di soluzioni intentate e di tecniche originali, oltre a quelle elaborate dall'instancabile Trissino.
Giovan Giorgio Trissino è presente come autore in apertura della sezione di Poeti veneti (IV), d'avanzo rispetto a quelli censiti nella Cerchia veneta del Bembo (in), formata da Giovanni Aurelio Augurello, Trifon Gabriele, Paolo Canal, Vincenzo Querini, Nicolò Delphino o Dolfin, Andrea Navagero, Luigi da Porto, Veronica Gambara, Bernardino Daniello e Antonio Brocardo. Sono nomi di autori malnoti, alcuni dei quali mai inclusi prima d'ora in antologie moderne, come pure Ludovico Pascale e l'area dalmata che dietro a lui (e a Niccolò Liburnio) si fa luce. Va detto che nel caso del Brocardo e del Trissino, che pure hanno goduto di qualche credito in tempi recenti, si è trattato di una palese ingiustizia. Anzi per il Trissino, qui rappresentato da tre ballate, un sonetto, un serventese e una canzone, si ha il sentimento che la documentazione offerta sia inadeguata al rilievo del personaggio: la sua scarna e scostante suppellettile lirica va integrata con gli scritti del trattatista, le iniziative del filologo e dantista dottissimo e la pratica rigorosa dello sciolto, a teatro e nel poema storico. Anche altri suoi colleghi di sezione (IV) - Antonio Isidoro Mezzabarba, Niccolò Liburnio, Alvise Priuli, Gaspara Stampa, Ludovico Pascale, Marco Cademosto (di famiglia veneziana, come si sospetta dal nome, e che però è di Lodi, come non manca di specificare la stampa, lui vivo, delle sue rime), Giulio Camillo Delminio e il versatile Girolamo Muzio - si raccomandano alla storia letteraria per meriti extralirici, Giulio Camillo più di tutti e con fama anche fuori dai confini della penisola. Potrà sembrar scandaloso che a Gaspara Stampa sia stato riservato uno spazio inferiore alla sua odierna stima, che si reputa altissima. L'episodio o il presunto scandalo consente una breve messa a punto. La chiosa di Massimo Danzi a Gaspara Stampa non si estende oltre dieci sonetti: non sono pochi, ma sono meno del consueto. Se però si considera l'introduzione biografica e filologica, si troveranno sei pagine di cose, non di parole, tutte per lei, il che costituisce un serio omaggio. Non si guardi a questo libro come a una semplice mostra di testi: si tenga anche conto - e ciò vale specialmente per la parte di Danzi, che si è voluta più erudita che critica, ricca di realia inediti e rari - delle notizie di prima mano e dei nuovi materiali segnalati o raccolti. Per certi rimatori del tutto sconosciuti è ben comprensibile che la restituzione storica abbia avuto il sopravvento sulla raccolta di esempi che ci si aspetta da un'antologia. A proposito di Alvise Priuli, cui è stato restituito qui un volto già offuscato da omonimie, l'intemerato curatore parla di «cameade veneziano»: e se lo dice lui, c'è da credergli.
La confezione del libro è stata lunga e accidentata, il che ha creato talune diseguaglianze e sproporzioni tra le parti che non si possono ignorare. Un caso evidente di disarmonia è costituito dalla bibliografia relativa alle diciassette sezioni di cui il libro si compone. Chi scrive ha fermato al 1987 ogni nuova accessione alle sezioni di sua spettanza, fosse pur di saggi propri, come accade almeno per il Bembo e Michelangelo. Il fatto è che oggi si dispone di bibliografie raffinatissime, a stampa o su altro supporto, e chi vuole le può consultare agevolmente. Vale per me quod scripsi scripsi, non per pigrizia o arroganza, ma per una sorta di deferenza e superstizione nei confronti del lavoro passato, chiuso ormai (anche se rimasto inedito) a una bibliografia posteriore alla sua conclusione, destinata a risultare inefficace. Massimo Danzi e Silvia Longhi invece hanno meritoriamente seguito fino all'ultimo quanto si è pubblicato intorno agli autori loro; dandone conto (la Longhi, in particolare) in un aggiornamento ragionato (Aggiunta bibliografica), distinto da quanto precede. Sono opzioni differenti, che compongono il piccolo Parnaso cinquecentesco in una mostra non proprio tutta coerente, le cui aporie sono alleviate in parte dalla diversità dei generi letterari.
Nei due tomi che seguiranno, la scelta dei testi (entro sezioni già definite) e il commento saranno cura di altri studiosi. Verranno stampate, con le debite messe a punto, le parti già realizzate di Giuliano Tanturli per il Casa, il Varchi e altri fiorentini, e di Giovanni Bardazzi per Vittoria Colonna e Antonio Minturno. Il terzo tomo, a norma del progetto originario, è riservato al lavoro del compianto Giovanni Parenti intorno ai poeti neolatini, commentati e tradotti a fronte degli originali: un recupero che è un'autentica novità storiografica. Per la prima volta si scommetteva seriamente, traendone le conseguenze, sul valore della poesia rinascimentale in latino, fortunatissima in Europa, ma non più letta da secoli. È l'ultimo capitolo veramente creativo di un bilinguismo istituzionale delle nostre lettere: il Tasso, per dire, a differenza di Bembo, Ariosto o Castiglione, non compose carmina (i pochi versi latini tramandati sotto il suo nome sono modestissima cosa, o non sono suoi). L'altro bilinguismo invece, quello col dialetto, resisterà a lungo nel tempo.