Poeti del Duecento: Testi arcaici, Scuola siciliana, Poesia cortese, didattica, popolare e giullaresca, Laude, Dolce StilNovo
Poeti del Duecento: Testi arcaici, Scuola siciliana, Poesia cortese, Poesia didattica, Poesia popolare e giullaresca, Laude, Poesia realistica toscana, Dolce Stil Novo
Quest'opera è il frutto d'una larga collaborazione, proprio quello che nelle cosiddette scienze della natura si chiama lavoro d'équipe, almeno per constatarne l'avvento, quando non per auspicarlo alle aree più depresse. Simile procedura era nel complesso evitabile per gli altri volumi della collezione, ma era l'unica seriamente possibile per un settore, quale questo del nostro Duecento poetico, quasi sprovvisto di vulgate accettabili senza verifica: mentre dei testi più recenti, in modo speciale di quelli che seguono l'invenzione della stampa, la discutibilità in massima verte solo su particolari, se non minori, discontinui, tanto che la relativa filologia assume nel giudizio del pubblico veste d'un divertimento per specialisti, qui è revocabile in dubbio non meno che l'assieme della sostanza verbale, e l'assistenza del tecnico è ininterrottamente necessaria a qualsiasi lettore. Occorrevano dunque una collazione preliminare dei documenti, o nell'originale o in accettabili riproduzioni fotografiche (solo in rari casi si è stimata sufficiente l'edizione diplomatica di taluni canzonieri), quindi una sistemazione razionale dei dati, a norma di critica interna o, soccorrendo attestazioni multiple, della logica formale in quella sua peculiare applicazione che si suol chiamare metodo lachmanniano. Poiché tale lavoro varcava le possibilità d'un solo individuo, si è ricorso all'industria e alla compiacenza di parecchi studiosi giovani o (all'atto delle prestazioni) giovanissimi, dei quali più d'uno è nell'intervallo assurto a una posizione scientifica eminente, cordialmente riconosciutagli proprio dagli amici della Ricciardiana in cui hanno corso nobili palestre.
È sommamente doloroso che uno di essi, Achille Pagnucco, immaturamente spento in un lontano ospedale, a Johannesburg, dove professava con zelo letteratura italiana, non possa più ricevere il ringraziamento che gli è dovuto.
Ecco il lungo elenco dei collaboratori, a fianco d'ognuno dei quali è l'indicazione degli autori o dei testi su cui hanno lavorato, restando inteso che dove nulla è avvertito l'incombenza è stata assunta dal compilatore dell'antologia:
Franca AGENO in BRAMBILLA, per le Laude Cortonesi, Jacopone, ser Garzo;
D'Arco Silvio AVALLE, per l'Anonimo Veronese, l'Anonimo Genovese, Matazone, il Rainaldo e Lesengrino, Guido Guinizzelli, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi;
Romano BROGGINI, per i Proverbia, Girardo Patecchio (ma il compilatore s'è poi deciso a un tentativo di ricostruzione testuale delle Noie), Uguccione da Lodi, Giacomino da Verona, compreso il cosiddetto poemetto della Caducità;
Domenico DE ROBERTIS, per Cino da Pistoia;
Guido FAVATI, per Guido Cavalcanti;
Mario MARTI, per l'intera sezione della poesia «realistica»toscana (tolta la Canzone del fi' Aldobrandino); Achille Pagnucco, per Chiaro Davanzati;
il padre Giovanni Pozzi (da Locarno), per Brunetto Latini;
Ezio RAIMONDI, per i Memoriali bolognesi e i serventesi dei Lambertazzi e romagnolo;
Cesare SEGRE, per Guittone d'Arezzo e tutti gli altri toscani fino al Mare amoroso (escluso Chiaro ma incluso frate Ubertino), la Canzone del fi' Aldobrandino, Lapo Gianni.
Ciò che mette in rilievo l'abnegazione di questi valenti cooperatori, è il fatto che i loro progetti di testo non erano destinati a travasarsi tali quali nell'antologia (né assolutamente potevano, dato il carattere disparatissimo degli ingredienti), ma che il compilatore s'era riservata, e ne ha usato infatti senza limiti, la più totale libertà di utilizzazione: non soltanto per coordinare, ma per rifare puntualmente le loro operazioni mentali, di solito col sussidio della loro documentazione, ma in moltissimi casi tornando a verificare direttamente le fonti o loro parti. Per chi abbia qualche dimestichezza col mestiere, la Nota ai Testi (nella quale sono state incorporate anche le indicazioni bibliografiche strettamente funzionali, nonché quanto consenta di ricostruire per via implicita la letteratura principale sull'argomento) apreuno spiraglio eloquente sul laboratorio comune. Sta di fatto che in questa pasta così fittamente intrisa sarebbe assurdo, non meno che futile, cercare di riconoscere ancora le mani. Ai fini d'un'ideale «proprietà letteraria», un compromesso accettabile sarebbe quello che attribuisse ai singoli collaboratori tutto quello che c'è di buono, quello che di non buono al Compilatore.
Interamente di mano di quest'ultimo è l'illustrazione, come esigeva il più elementare scrupolo di unità, prevalente anchè sul criterio delle competenze, per dir così, sezionali. Preme rammentare che questa esegesi è conforme alle norme della collezione, ha cioè frugali intenti esclusivamente o prevalentemente letterali. Sarebbe singolare che si tentassero voli quando non si fosse versato lume sufficiente su una lingua più lontana dal costume moderno nell'intimo che a prima superficie, e su testi non di rado ardui per natura od oscurati dalla trasmissione, anche là dove non imperversino le endemiche intenzioni del formalismo prezioso. (È appena il caso di aggiungere che, errori interpretativi a parte, non tutto è stato capito: di norma, tuttavia, l'avvertenza è esplicita; come d'altra parte si registrano gli ausili ricevuti dalla bibliografia precedente o per tramiti privati.)
Una parte considerevole del commento è intessuta di rinvii interni,[1] sia perché non era economico ripetere la dichiarazione di fatti elementari o comunque diffusi, che bastava elucidare una o poche volte, più spesso naturalmente la prima, sia soprattutto perché il reticolato di punti giova alla comprensione delle posizioni singole. La sua utilità crescerebbe di tanto di quanto riuscisse a prolungarsi oltre i limiti di quest'antologia; ma anche un regesto esauriente del suo materiale farebbe progredire sensibilmente la conoscenza dell'italiano antico, e sulla linea della storia linguistica cogliere altri importanti passaggi di storia culturale (basti pensare ai servizi che già rendono, non si dice le concordanze dantesche o il lessico cavalcantiano in appendice all'edizione del Favati, ma il glossario del Monaci, o quelli che così opportunamente chiudono più raccolte della Ageno, dell'Egidi, del Marti, del Santangelo, del Vitale ecc.). È perciò da rallegrarsi che la signora Ageno abbia acconsentito ad allestire un compiuto lessico della presente antologia: strumento di lavoro che fra l'altro permetterà di risolvere un buon numero di problemi rimasti aperti, o addirittura inavvertiti. In un campo affine, una ricca utilità di riscontri permette fin d'ora il minuzioso indice dei nomi contenuti nei testi e nel commento, dovuto alle pazientissime cure dell'Avalle.
Per la sua estensione e varietà, un lavoro come quello che qui si offre non può scompagnarsi da una severa previsione delle sue inesattezze e lacune - perfino, oseremmo dire, se fosse stato intrapreso da mani più attrezzate. Il lettore che collaborasse al loro raddrizzamento s'inserirebbe assai bene entro l'economia d'un'opera che somma apporti di più persone e comunque si lusinga d'interpretare istanze collettive della cultura specializzata.
A furia di maneggiare testi, e soprattutto di accostarne minutamente o di molto omogenei (ma perciò stesso da identificare e differenziare continuamente) o viceversa di piuttosto eterogenei, è inevitabile che qualche novità venga in luce, anche eventualmente di portata generale. Ma il compilatore è fermamente convinto che non toccasse a lui avanzare o insinuare nuove inquadrature o terminologie storiografìche: il suo compito si esauriva nell'àmbito particolare, quello che una moda, per quanto sembra, d'altri tempi chiamerebbe monografico (se pure le monografie sarebbero parecchie). Anche la cultura è, s'intende, un sistema di relazioni, che è colpito dalla variazione delle posizioni singole: non per questo, una volta accennate discretamente le implicazioni, occorreva precipitarsi ad alterare tavole e schedari (da valutare dopotutto come produttivi d'immediata comodità pragmatica). Lo schema adoperato, non si sa se dire ostentato, è pertanto quello più accettato, frusto e pacifico: gli inconvenienti sembrano sopportabili, come non più gravidi quelli che ineriscono a qualsiasi altra classificazione empirica; col vantaggio, se non è tattica fallace, che l'utente si ritrovi in paese conosciuto, e magari sia più lenemente indotto a una spregiudicata considerazione, angolo per angolo, del panorama familiare. Certo, classificare Rustico Filippi tra i «realisti» sarebbe stato di qualche nocumento per chi avesse avuto modo di rappresentarne anche la ragguardevole opera cortese; ma, a parte il fatto che al riparo di quell'etichetta l'espertissimo Massèra (da cui poi i vari successori) riuscì a stampargli tutto, un simile bifrontismo l'avrebbe accomunato, nonché a un atteggiamento accusatissimo di Dante, a una procedura poco meno drastica del Guinizzelli, del Cavalcanti, di Cino; mettendo così, ben giustamente, in crisi l'altra epigrafe di Dolce Stile. O si veda quello che accade nella sezione inscritta, al perento modo romantico, come di poesia «popolare» (e giullaresca): il commento non fa che insistere, a buon conto, sul carattere colto o del frammento Papafava o di tale o tale componimento (frequentemente siciliano, per nulla indigeno) dei Memoriali; che se poi ai pezzi finali, quelli del Castra o della Zerbitana, si fossero aggiunte, che poteva essere ben legittimo, le altre parodie linguistiche, quale il contrasto di Cielo, o addirittura espressivo-tematiche, come la canzone di Auliver o magari il Mare amoroso, si sarebbero però sciolti i (didattici) legami coi rispettivi ambienti lirici, sul cui sfondo si evidenzia la loro stessa natura di controcanto. L'Elegia giudeo-italiana, inserita nella sezionedetta di«Testi arcaici» (nonostante concordanze stilistiche con testi cristiani di età più avanzata), probabilmente si scolara in un ambiente tanto generico; ma come la si potrebbe avvolgere del suo più specifico terriccio? Del resto, che è più decisivo, una buona parte dei testi ospitati ritrova il proprio senso plenario soltanto in una simbiosi, la quale non potrebb'essere che sottintesa, con la letteratura di lingua latina, talora francoitaliana od occitanica. Si faccia senz'altro un caso estremo: quello delle personalità che si confondono entro il repertorio assegnato dalla tradizione danconiana e masseriana a Cecco Angiolieri. Gli studi promossi dal Santangelo, poi quelli del Marti, hanno inciso radicalmente sulla questione: in particolare siriesce ormai a 'girare attorno' a un concittadino di Cecco, amico di Dante e d'altri illustri, Meo de' Tolomei. Quest'antologia si accontenta di costituire un gruppo di rime dubbie entro la scelta di Cecco, ed esaminandole partitamente può anche ragguagliare sui risultati di queste lodevoli ricerche, i quali stanno già raggiungendo i luoghi comuni delle storie letterarie. Non è con questo che manchi, non si dice nelle singole province, ma nello stesso impianto regionale, ogni fermento polemico. Tra i Siciliani, ad esempio (cui fra l'altro sopravanzano con ben più ingente numero di versi, non soltanto perché meno divulgati, ma perché veramente costituiscono una posizione-chiave del secolo, sola atta a render ragione, per continuità e contrasto, della grande fioritura degli ultimi decenni, i cosiddetti Siculo-toscani), sono esaltati, oltre s'intende quel perfetto demiurgo che fu il Notaio, i rimatori squisiti rivalutati (ma d'accordo con Dante) nell'ultima critica, da Guido delle Colonne a Pier della Vigna,e aggiungiamo Stefano Protonotaro, depressi i popolareggianti cari a un corsivo romanticismo, da Giacomino Pugliese a certo Rinaldo d'Aquino; per non dire dell'imperatore, che (quando si dia per risolta la questione attributiva) appare così modesto rimatore, tanto più ove lo si compari allo stesso Enzo, e soprattutto ai dinasti svevi che trovarono in «mittelhochdeutsch», da Arrigo VI (per quanto pare) a Corradino. I lombardi sono presenti in buon dato, ma non c'è bastato l'animo di riaccogliere un insipido tante volte stampato come Pietro da Bescapè; mentre è parso rappresentato a sufficienza l'angolo cui appartiene (e qui certo con ben più notevole rilievo culturale) il serventese dello Schiavo da Bari. Qualche esclusione è coatta, e può risultare lacerante. Colui di cui più si deplora l'assenza è lnghilfredi da Lucca, il più suggestivo latore di un lucido «ermetismo»medievale: sfortunatamente non v’è una sola delle sue poesie la cui comprensibilità, per lo stato della tradizione,regga fino all'ultimo; e per principio sono stati accolti solo testi compiuti, o che, pur contenendo passi bui, non offrano così ingenti eclissi di senso, proprio accanto a cari sfolgorii. È incerto, per quanto augurabile,che nuove indagini consentano un recupero non troppo evasivo d'un personaggio che ogni tanto si torna a incidere sull'orizzonte dantesco, fra Remigio Gerolami. Negli stessi paraggi, a ogni modo, due testi che soffrono di non vedersi inclusi sono: la serie di proverbi un tempo attribuita a Jacopone; e il laudario già di Urbino. Ma della prima la versione più arcaica (seppure non del tutto ineccepibile) è una rivelazione troppo recente, mentre rimane da risolvere il problema del rapporto con le altre redazioni; il secondo è quasi ancora un caso vergine, e bisognerà pure un giorno saper discernere quali parti del materiale che in esso è unico possano prestare aggiunte da mettere in parallelo a Jacopone per età, cultura, rilevanza espressiva.
Quanto alle date, la superstizione del secolo di cent'anni è ovvio che non potesse risibilmente ipotecare la tavola delle presenze e delle assenze. Cino, che pianse la morte di Beatrice (e poi di Arrigo VII, e poi di Dante), se addirittura non rispose al sonetto di Dante ai fedeli d'Amore, e carteggiò col Cavalcanti, era tuttora attivo in versi nel 1330-1 (XXXVI); dell'opera di Folgore (ciò vale a fortiori per la parodia di Cenne), se una parte, che qui non compare, cade anche più in là, quella accolta non sembra anteriore al primo decennio del Trecento. Altri sono semmai i casi delicati. Non si vuoi nemmeno parlare della cosiddetta Giostra delle Virtù e dei Vizi: poiché, se è ben probabile che materialmente il poemetto non sia stato confezionato prima del secolo XIV, esso rappresenta uno stato di cultura più antico, anzi può stare a designare un tipo d'irradiazione press'a poco napoletana (dalle versioni dei Bagni di Pozzuoli o del Regimen sanitatis a quella catoniana di Catenaccio) che per alcuni individui sembra possa farsi risalire al Duecento, e comunque è caratteristico di periferie conservatrici (lo stesso Buccio di Ranallo non è un dugentista ad honorem?). Un'argomentazione in qualche modo affine varrà per l'Elegia, che, anche per la ragione accennata, non stupirebbe troppo di saper composta, letteralmente, più verso l'epoca dei manoscritti, il Trecento, che nelle tenebre venerabili a cui la risospinge l'ammirazione rabbinica. A controversia si presterebbero caso mai testi come Auliver o la Zerbitana o Matazone o lo stesso Fi' Aldobrandino, che non soltanto sono o sicuramente o probabilmente composti al più presto nel secolo successivo (l'ultima canzone veramente nel manoscritto unico è solidale di rime duecentesche o del primo Trecento), ma rappresentano interessi, come l'espressionismo vernacolare o un odio di classe postcomunale o il simbolismo dei gueux, che anche idealmente varcano la frontiera del nostro Duecento. È vero che, situandosi (con stacco) sul prolungamento d'una ben accertata tradizione duecentesca, essi, oltre che a deferire all'opinione tradizionale (tolto per forza maggiore l'ultimo caso, di scoperta relativamente vicina e quindi sottratto ai repertori), servono a sancire un ottimo punto di riferimento. Il confine superiore fa meno difficoltà: a rovescio, infatti, talune presenze sono talmente ritardatarie (una buona parte di quelle della prima sezione) che duecentesche saranno magari di fatto, non categorialmente. I ritmi di Cassino o su sant'Alessio, anche se redatti entro il secolo XIII, vanno devoluti a una cultura ben arcaica. Aggiungiamo una palinodia. Nel momento in cui venne incluso, il Ritmo Laurenziano pareva sicuramente, a norma della dichiarazione Cesareo-Mazzoni, cosa della metà del secolo XII; un'illuminante trovata di Augusto Campana sta conferendo autorità all'ipotesi del Torraca, e così esso cala alla fine del secolo o addirittura entro il Duecento; e anche questa presunta eccezione viene a svanire.
Ancora un avvertimento. La presente antologia comporta (e come potrebb'essere altrimenti?) scelte di canzonieri; ma nessun testo esteso compare che non sia intero (si pensi ai Proverbia, al Rainaldo, al Tesoretto ecc.), e ciò vale per lo più (la limitazione si riferisce al Bestiario di Gubbio) anche per le serie organiche: basterà citare la Corona del cosiddetto «Amico di Dante».
Da ultimo occorrerà giustificare talune novità anche fisicamente abbastanza vistose che sono state introdotte nella presentazione dei testi, le une di natura metrica, le altre di carattere in largo senso grafico.
Appartiene al fondo più inconcusso della cultura corrente, non scalfito a ritroso, nella considerazione storica, dall'esperienza prima della strofe, poi del verso libero (tenuti inconsciamente, anche dai loro ammiratori e magari cultori, fuori del pomerio «classico»), la convinzione che schema metrico e paradigma strofico siano moduli rigorosi e costanti. Un endecasillabo ha sempre undici sillabe; una strofe ha un numero fisso di versi, con misura ricorrente, e una riconoscibile periodicità di rime. È questo un elemento della coscienza umanistica, che attraverso il Rinascimento può ben dirsi europeo (valido cioè anche per ambienti, come il germanico, inaugurati da tutt'altre esperienze). Nondimeno, alle risultanze filologiche, il fronte presenta notevoli crepe. La principale eccezione, in paese neolatino, è costituita dalla Spagna, dove, magari fomentandola il mito della cultura nazionalmente specifica, la categoria dell'anisosillabismo ha assunto una fisionomia ben consolidata: il Menéndez Pidal ha attribuito all'originale del poema sul Cid (noto frattanto da un manoscritto solo, posteriore di circa due secoli) quasi esattamente la licenziosità aritmetica del suo codice; l'Henriquez Urena, più discretamente il Navarro (Tomas), hanno teorizzato la «versificazione irregolare» in territorio castigliano; e se questi maestri paiono rassegnarsi un po' troppo agevolmente, quando non con compiacimento, a stati di fatto che possono essere secondari e incontrollabili dalla ragione, altre ricerche, misurando su più testimoni (manoscritti) le escursioni possibili, e ravvisandole tanto più plausibili quanto più sommesse (tali quelle del francese Félix Lecoy su Juan Ruiz), le hanno collocate di là da ogni dubbio.
Il verso epico (di cui infatti si è voluto rifiutare il rapporto col decasillabo-alessandrino francese) parrà soverchiamente elastico? Ci si può sempre consolare con un alessandrino 'didattico' i cui emistichi possono essere validi come ottonari altrettanto che come settenari.
La cultura francese (basti questo secondo termine di confronto) è molto più resistente, diciamo cartesiana, o conservatrice, o classica. È la soprastruttura d'una prassi fattasi presto rigorosa in materia di calcolo sillabico. Le anomalie sono ben circoscritte, specializzate. Si concedealla letteratura anglonormanna,persimbiosi germanica, un qualche margine di libertinaggio. Altre volte gli studiosi reagiscono, si direbbe, in obbedienza alle loro ipoteche pedagogiche. Non sembra dubbio che l'equipollenza di decasillabo epico edi alessandrino (il suo successore nel medesimo genere) debba considerarsi legale; ma non manca chi calcola la frequenza degli alessandrini fra i decasillabi, e chiama il quoziente così ottenuto «percentuale di disattenzione». Si anticipi sùbito che, come riconobbe in un suo studio giovanile il Meyer-Lubke, quest'abitudine riguarda direttamente l'Italia, attraverso la letteratura francoveneta; e anzi che essa fa significativamente la sua comparsa in scritture del nostro volgare (ma influenzate, si può ora dimostrare, da quella cultura), anzitutto in Uguccione da Lodi.
Non si può dire che il principio dell'anisosillabismo italiano sia una novità inaudita sulla piazza filologica. Perfino un manuale, come quello assai interessante, benché non altrettanto conosciuto, di Pasquale Leonetti, gli dà il competente rilievo. La pari legittimità del novenario all'ingrosso giambico e dell'ottonario pure approssimativamente trocaico, a riproduzione dell'octosyllabe francese, fu affermata in varie occasioni, in particolare da uno studioso di laude umbre a cui la cultura ufficiale fece accoglienze piuttosto avare, Giuseppe Galli. Lo Schmitt, pubblicando sugli italiani «Studi Medievali» introdusse nelle sue, ormai antiche, analisi metriche jacoponiche il principio dell'anacrusi. Eppure, nel complesso, la nozione non è attecchita: la danneggia una notevole vischiosità dell'educazione umanistica, dunque antimedievale.
Nella presente antologia è stato fatto un tentativo sistematico di rappresentazione tipografica delle alternanze legittime, sempreché lo consentisse lo stato della tradizione. I versi di pari misura, equivalenti ad altri di misura diversa, sia che si tratti, come nel primo esempio addotto, di confluenza di due tipi distinti, sia che si tratti di traduzioni varianti (inizialmente d'una, progressivamente di più battute) d'un solo schema primitivo, come nel secondo caso, ricevono allineamenti uguali e separati, così da garantire un'immediata riconoscibilità. Qui non interessa, per così dire, l'etimologia del fenomeno, cioè la sua matrice latina medievale e melodica; ma l'acclaramento positivo del fatto. L'anisosillabismo è un'ipotesi di lavoro più economica di quella che ad esempio indusse il Salvioni, recensendo Emil Keller editore di Bescapè, a uniformare ortopedicamente tutti i suoi novenari-ottonari, incontrando purtroppo, in un'edizione successiva, il plauso attivo dello stesso recensito. La fenomenologia, che comincia appunto a manifestarsi nel settore didattico-edificante (qui si confronti anche l'ineccepibilità di Bonvesin con l'alternanza di emistichio settenario e senario presso Giacomino da Verona), tocca i suoi estremi numerici con le laude, particolarmente con Jacopone; ma naturalmente era difficile misurarla finché si disponeva praticamente solo della princeps del 1490, e non della varia lectio diligentemente raccolta dalla signora Ageno. Sennonché pare che non ne vada esente neppure la lirica cortese. Alternanze di novenari-ottonari sembra di sorprendere, nonché in Guittone, aduso più tardi a ballate sacre (cioè a laude), nello stesso Notaio; di ottonari-settenari, in Bonagiunta. Con ciò non si nega affatto l'esistenza d'una tecnica bonaria, ispirata a un sistematico lassismo, ma l'esperienza del rigore pur nella mutazione propone l'opportunità di cercarne sempre la prova anche quando possa farla presumere il tono «giullaresco» della fattura: ad essa va oggettivamente ascritto il Serventese dei Lambertazzi, perché ciò mostrano i trasformistici endecasillabi contesti di tutti cognomi.
Quello che è vero del verso, si ripete, quantunque in più tenue misura, per la strofe. L'ilota ebbro di turno potrebb'essere un altro rispettabile operatore filologico, il Casini, violentante, per restituire loro una presunta uniformità, le stanze di Chiaro Davanzati. Eppure il rispetto del documento (qui il canzoniere Vaticano) consente di reperire formule di razionale e accettabile alternanza. Un corollario non privo d'interesse sarà che la relativa elasticità delle ballate di Lapo Gianni andrà ricondotta alla tecnica di Chiaro (a quello stesso modo che gli echi di rime e di parole in rima si rifanno alla maniera del Notaio, perdurante nel Guinizzelli). In altri termini, si dimostra in modo sperimentale il carattere basilarmente antiquato di questo leggiadro ma un po' attardato stilnovista.
Intermedia fra metrica e grafia è la questione delle rime linguisticamente abnormi per ragioni culturali. Parliamo, si capisce, della rima siciliana. Nei 'Siciliani' veri e propri il restauro, per sé indubitabile, della rima foneticamente esatta importerebbe di necessità la ritraduzione dei testi interi, con percentuale variabilissima di sicurezza da punto a punto. Non v'è nulla da aggiungere alla tipologia dei cinque metodi possibili prospettàta dal Tallgren (-Tuulio), e alla ragionata scelta della soluzione mediana: sicilianizzazione, in rima e fuori, al massimo consentito positivamente dai manoscritti. È un rimedio tuzioristico, per usare un termine dei teologi, perché la rinuncia a elementi sicuramente siciliani è il prezzo che si paga per evitare l'introduzione di dati spuri: anche le carte Barbieri, coi loro concorrenti non vernacoli (cioè, se esatti, latineggianti o provenzaleggianti) accanto alle forme siciliane, sembrano porre un freno all'automatismo della retroversione.
Ma l'autentica rima siciliana, con le sue varianti, è ovviamente quella dei non siciliani, particolarmente dei toscani. Per molto tempo il livellamento è stato d'obbligo: con i non poteva rimare, si presumeva, che i (non é), con u non altro che u (non ó). Teorizzatore di questo atteggiamento è stato un grande filologo, il Parodi, seguito, per !imitarci a un altro nome capitale, dal Barbi: le vulgate dei primari dugentisti, e in primo luogo di Dante, palesano flagranti simili interventi. Eppure a codesto modo si perpetua una pratica sostanzialmente inaugurata dall'umanesimo fiorentino, esempio insigne la Raccolta Aragonese, e attuata specialmente nelle prime stampe dei classici: quegli egregi studiosi operavano sempre nel solco (estetico prima che tecnico) dell'ambiente laurenziano. Con qualche maggiore traccia di rima sicilianizzata in fase antica, ad esempio nel canzoniere Palatino (anche fuori delle grandi raccolte, ha per esempio nive in rima con vive, circa il 1270, uno dei sonetti scoperti fra carte sangimignanesi dal Castellani), si può ben dire che l'ispezione dei manoscritti del Due e del Trecento non lascia dubbi quanto alla legittimità della rima di vedere con dire o di sotto con tutto, non inferiore a quella di vérde con pèrde o di fiore con l'eterno còre.
Anche per altri dati fonici, non legati a una particolare posizione entro il verso,ma attestati da un consensus che non può essere meramente ortografico, occorrerà sottoporsi a un congruo riadattamento. Tale la semplificazione toscana delle doppie protoniche, particolarmente alla saldatura d'un prefisso quale a-. Lo stato reale dei fatti è non di rado velato dalla circostanza che viene a mancare un'organica distinzione fra rappresentazione delle semplici e delle lunghe o geminate: nel citato canzoniere Vaticano, per esempio, prevale il segno scempio, e non si può raggiungere alcuna conclusione. Occorrerà dunque, senza trascurare i dialetti, collazionare altri manoscritti autorevoli, quali il Laurenziano, praticanti una più rigorosa distinzione. Con tali ausili si raggiunge la formula indicata, e in particolare la più specifica variante. Casi come agrandire, aproverò, atacca, abondanza, acordanza, ecc. ecc., qualunque sia la parte del gallicismo, sono patrimonio antico irrecusabile.
Un altro fatto, questo tutt'altro che estinto, anzi vivacissimo per quasi tutta l'Italia peninsulare, è il cosiddetto raddoppiamento fonosintattico. La scrittura moderna, in tutto analitica, sostanzialmente anch'essa di ascendenza umanistica tardo-quattrocentesca, ne prescinde completamente. Ma parecchi manoscritti antichi lo rappresentano in modo, se non veramente sistematico, pure abbastanza organico: tale, per certe sue parti almeno, il Vaticano, tale più attivamente il Chigiano, tale anche il codice Riccardiano (di gran lunga il più autorevole) del Tesoretto. I due fenomeni descritti si specificano in attuazioni via via più complesse di samdhi, come la semplificazione (in protonia) di geminate appartenenti a vocaboli diversi (del lin, tal lezzo, per rima, pur ristringe, lor ritegno passati a ciò che si stamperà de·lin, ta·lezzo, pe·rima, pu·ristringe, lo·ritegno); le quali possono risultare da assimilazione (ma·riguardo per mal riguardo, u·laido per unlaido),in cui eventualmente si smarrisce una desinenza (faccia·risa per faccian risa); ma può scomparire addirittura, per semplificazione, magari preceduta da assimilazione, una terza parola, s'intende un'enclitica ormai ridotta a sola consonante (e·lado per e’l lado, denti·le per denti·lle da denti 'n le). O ancora si veda il raddoppiamento, innanzi a vocale, di -n delle proclitiche, tipo inn-une conn-altri. Tutti questi fenomeni, se rispettati nella grafia, provocano un sicuro effetto di gusto vernacolare. Nella presente antologia sarebbe stato insensato un livellamento generale: non si poteva procedere se non per sezioni. Ora, messo da parte Brunetto, il primo manoscritto, cioè il Libro di varie romanze volgare, è proprio il solo testimone di Rustico, e d'altra parte del cosiddetto «Amico di Dante», il secondo il principale, non di rado l'unico, di Cecco Angiolieri. È evidente come la nuova veste, così «parlata», si attagli bene ai due eminenti «realisti», mentre è prezioso conoscere le abitudini grafiche (si tratta di scrittura autografa o immediatamente apografa) d'un vicino dello Stil Novo.
Semplicemente grafico potrebbe sembrare un fatto non toscano: nei testi di Bonvesin, come anche, più sporadicamente, in altri lombardi (o addirittura non lombardi), gli elementi caduchi, in particolare le vocali finali, sono stati contrassegnati da un puntino espuntorio sottoscritto. Ma puramente scrittorio quel fatto non è, perché quelle tali vocali possiedono una virtualità fonetica che, in dipendenza da variazioni (anche stilistiche) d'accento, può sempre permettere loro di riassumere valore sillabico, quale indubbiamente hanno davanti a forte pausa, in fin di verso o d'emistichio. E col medesimo gesto si rende omaggio alla conservazione degli elementi etimologici, tradizionali, della veste in sostanza latina, dei valori comuni agli altri volgari d'Italia. Anche i più minuti fenomeni di cui s'è trattato non sono insomma aneddoti esterni, ma, oltre che eventi culturali, dati di gusto, componenti di stile.
NOTE
[*] I testi della presente antologia sono citati secondo la sua propria numerazione, la quale, sia per nuovo raggruppamento della materia, sia soprattutto per il suo carattere transuntivo, non coincide con quelle correnti. Ovunque esistesse una vulgata, la sua numerazione è stata aggiunta nel corpo dell'antologia entro parentesi quadre. Ma, poiché si è chiarita l'opportunità di qualche riscontro che varchi il confine della scelta qui operata, sono adottati, a evitare equivoci, alcuni artifici supplementari: così la numerazione delle laude, cortonesi o jacoponiche, è stata fatta secondo numeri arabi, in modo da fare intendere sùbito che quelli romani rimandano alle raccolte complete; altre volte la citazione secondo queste ultime è accompagnata dal nome dell'editore (per Guittone o l'Angiolieri, ad esempio, l'aggiunta dell'indicazione "Egidi" o "Massèra" individuerà i volumi delle Rime o dei Sonetti burleschi, mentre la sua assenza immediatamente alluderà alla nostra antologia). Non si è potuto sfuggire a qualche discrepanza nella numerazione progressiva dei versi, poniamo nel caso di Jacopone, fra noi e la vulgata, posta una nuova interpretazione della struttura aritmetica; ma sarebbe riuscito soverchiamente macchinoso sovrapporre una seconda numerazione.