Poeti minori dell'Ottocento. Tomo I
Una strana impressione potrebbe fare al lettore (e intendiamo anche quello più avvertito) sentir dire che questa poesia minore dell'Ottocento, presa in blocco, non è già un fondo di biblioteca inerte e polveroso, ma addirittura materia incandescente: fluida e lontanissima ancora da una definizione, anzi a una definizione di per se stessa mal riducibile.
Dopo che si raggiunse per tutta l'Italia un comune denominatore culturale - quella che si suol chiamare la repubblica delle lettere -, la poesia lirica del Cinquecento si chiamò petrarchismo, marinismo quella del Seicento, arcadia quella del Settecento. Ma con l'Ottocento ci ritroviamo in una babele di linguaggi discordi: l'unità poetico-culturale non si mantiene più per tutta la durata del secolo; nel giro di pochi anni si consumano esperienze che, a considerare anche la ricchezza di motivazioni teoriche ed estetiche, sarebbero altrimenti durate diverse generazioni. Assai spesso il decennio ultimo si trovava in atteggiamento di polemica con quello precedente, oppure lo vedeva già composto in una prospettiva lontana: la sensibilità storica si andava mutando a vista d'occhio, e non era possibile al poeta o al lettore di poesia immergersi due volte nella stessa acqua.
Ma c'è nella babele ottocentesca anche un altro carattere distintivo che non si fissa nel tempo, ma agisce secondo lo spazio geografico, accentuando il frazionamento. Intorno al Manzoni, al Nord, si stabilì un preciso ambiente poetico; e anche, più tardi, la «Scapigliatura» ebbe soprattutto carattere regionale; d'altra parte il De Sanctis aveva creduto di poter individuare una corrente autonoma di storia poetica nel Regno di Napoli : una corrente nella quale era poi possibile riconoscerne altre anche più definite: per esempio quella calabrese del Padula.
Un denominatore - se si vuole - generico è quello romantico: estensibile anche ai casi di apparente rifiuto dei canoni estetici e poetici del romanticismo. Ma accettare tale denominatore nella sua eccessiva apertura significherebbe, tutt'al più, ripetere nei suoi innumerevoli paragrafi un disegno di storia della cultura non dissimile da quello che fu tentato dal Farinelli col suo Romanticismo nel mondo latino.
Quando in una famosa poesia del Prati si legge che la « scienza è dolore », che importa sapere, come appunto il Farinelli ci avvertiva, che «la sentenza correva avvalorata dal giudizio del Leopardi, del Vigny, di quanti altri mai ... », ivi compreso il Sainte Beuve?1 Noi crediamo che l'apertura dello strumento critico debba misurarsi al carattere culturale dei vari momenti storici; e se allo studioso degli stilnovisti potrà bastare una schedatura limitata alla storia della cultura del secolo, a chi guarda la poesia dell'Ottocento tale schedatura serve poco o niente: per il semplice fatto che nell'Ottocento, anche nei poeti apparentemente più distratti, la poesia ha sempre un attaglio preciso con la vita strettamente attuale, da intendersi appunto come politicità, impegno, più o meno cosciente, della propria sensibilità storica alle esigenze vive del momento. E questo è, in ultima analisi, il denominatore più vero della poesia dell'Ottocento, anche nei momenti in cui essa aspira a definizioni assolute. Quando Leopardi dichiarava che
. . . conosciuto il mondo
non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
l'etra sonante e l'alma terra e il mare
al fanciullin, che non al saggio, appare . . .
certo il suo problema storico era essenzialmente diverso da quello che molti anni più tardi si sarebbe posto il Prati. Il Leopardi aveva presente l'esperienza scientifico-filosofica (ma soprattutto filosofica) del Settecento illuminista, e il Prati impostava invece uno sconsolato bilancio dell'esperienza soprattutto scientifica del positivismo trionfante.
Il rapporto storico è dunque un altro, anche se l'aspetto contenutistico delle due «schede» poetiche può essere ravvicinato. Qui sta appunto quella che dicevamo la politicità di questa poesia, che non esclude d'altronde la memoria letteraria: anzi, si può essere certi che quando il Prati scriveva «la scienza è dolore» si ricordava del Leopardi, ma la sollecitazione di base era diversa. La politicità di questa poesia sta insomma nel fatto che la memoria poetica subentra soltanto in un secondo tempo e veste di un'espressione comune due situazioni in realtà lontanissime.
Che poi l'Ottocento conosca anche un'industria puramente letteraria sarebbe troppo ingenuo negarlo. Ma quella dei fratelli Maccari, per portare un esempio, è appunto un'eccezione determinata forse da particolari ragioni ambientali, e a nostro avviso non del tutto positiva.
All'Ottocento italiano, dopo il primo scatenarsi della furia romantica, mancò certamente il dono della perenne invenzione. Il nostro romanticismo sul piano formale ed espressivo assai spesso non fece altro che aggirarsi sulle macerie del classicismo defunto, e chi legga la poesia matura del Berchet non può non avere l'impressione di un cataclisma che ha scompaginato il mondo della retorica settecentesca, senza che su quelle macerie sia stato ricostruito niente: anzi, quelle macerie stesse sono presentate abusivamente come il nuovo edificio della stilistica romantica.
In pratica il romanticismo ebbe troppa fretta per indugiare nella definizione di una nuova retorica, e tutta la sua più grande novità espressiva si risolse nel sostituire ai larghi handeliani della poesia classica il ritmo fortemente scandito delle nuove cabalette (anch'esse del resto di origine melica e settecentesca). L'improvvisazione si giustificava tuttavia nella diffusione immediata del prodotto poetico, quando soprattutto esso si esaurisse nella sua funzione civile e patriottica; e il momento patriottico della poesia dell'Ottocento si estende certamente per una grande quantità di testi, ma in un bilancio ultimo si può ridurre a poche e scarne motivazioni. Quali furono i caratteri negativi del Risorgimento fu documentato, dopo l'unificazione, da tanta parte della nostra letteratura più critica (pensiamo alla narrativa) e da molti poeti rappresentati in questa raccolta; ma quando si trattava ancora di fare quell'unità, al momento dell'azione, non c'era e non poteva esserci posto per l'analisi: donde la funzione di quella poesia che si può conguagliare a quella di una fanfara, nell'imminenza dello scontro, o di una carica di tamburo. È pertanto una poesia che, dovendo necessariamente ignorare ogni problematica critica, è anche necessariamente indifferenziata; onde si è creduto opportuno esaurire nell'esempio del Berchet, e in parte in quello del Rossetti, tutta l'enorme ipoteca della poesia patriottica: continuare, per esempio, coi canti patrii del Mameli non sarebbe stato nell'economia della nostra scelta.2 Nello Scalvini, più appartato, la poesia della patria assumerà invece una coloritura riflessa e particolarmente critica.
Il De Lollis volle ridurre la poesia del Berchet a «soltanto una buona azione»,3 e concludeva il suo saggio dicendo che « così stando le cose, vuotata poi che fosse del suo valore di attualità una tal poesia, doveva spogliarsi, come s'è spogliata, di quasi tutto il suo valore» (ivi, p. 54). Le conclusioni del De Lollis non piacquero a molti, e tra questi al Momigliano, che tentò più tardi una rivalutazione del Berchet cercando di limitare la «stroncatura» all'aspetto formale-stilistico di quella poesia, senza implicare cioè il suo bilancio estetico. Certamente quella recisa conclusione poteva riferirsi meglio ad altri poeti; eppure essa aveva il merito di sgombrare il campo da molte ipoteche extra-critiche. Così, venendo a dire del conio di quella moneta battuta per avere corso immediato, ancora il De Lollis non esitava a definire il linguaggio poetico del Berchet come «il più strano mostro che si possa immaginare» (ivi, p. 38). Il Berchet fu infatti l'inauguratore più autorevole di quell'ambiguo gusto linguistico, barbaro tra romantico e classico, in nome del quale Francesco Maria Piave, con abuso retorico, avrebbe fatto ascendere Alfredo Germont alle egre soglie di Violetta, e dichiarare alla medesima di avere di lacrime d'uopo, volendo significare che aveva voglia di piangere. Il fatto è che, per un caso felice, i versi del Piave si sposavano ad alcuni tra i più grandi momenti musicali dell'Ottocento, e il Berchet restava invece solo accanto al suo pastiche.
Da parte sua il Dall'Ongaro, con la Perla nelle macerie, era andato anche più oltre, anticipando in pieno romanticismo temi che il più crudo realismo ebbe ritegno a trattare; ma il Berchet, quando nel Romito del Cenisio volle mettere in scena (le sue romanze hanno sempre qualcosa di melodrammatico e sembrano rappresentate da una ribalta) Onorato Pellico che piangesse la sorte toccata al figlio Silvio, non ebbe coraggio di vestirlo alla moderna: lo immaginò eremita in povera capanna; e il fantasma che si para davanti al lettore è quello di un vecchio in rozzo saio con capelli e barba prolissi.
Dunque anche il romanticismo, o almeno quello del Berchet, aveva le sue esigenze di retorica e di decoro, se si riteneva sconveniente che un personaggio fosse introdotto a parlare senza che si fosse prima cambiato d'abito. E del resto anche in altre romanze, dove non era assolutamente possibile un travestimento senza rinunciare al senso di tutto un discorso, quanti sforzi per mitigare la realtà delle cose; e anche il Medioevo delle Fantasie è sì un portato del nuovo culto romantico della storia, ma è, sul piano dell'invenzione retorica, anche un alibi di fronte all'espressione e alla rappresentazione : una maniera insomma di trattare cose vere e attuali facendo ricorso all'epos medievale e nobilitando, nel segno della dignità storica e della prospettiva leggendaria, la crudezza dei fatti contemporanei.
Ma tutta la questione andrebbe ricondotta forse a una ragione più profonda: il manzonismo del Berchet e più generalmente degli altri romantici. È un manzonismo che non si limita soltanto a una trasmissione diretta di motivi formali e di luoghi poetici : si può dire piuttosto che la linea descritta dalla parabola manzoniana si ripete, in proporzioni minori, nel Berchet e negli altri « manzonisti ». Mosso dal perfetto equilibrio formale di Urania, il Manzoni degli Inni sacri si trova di fronte a problemi espressivi spesso insolubili ; e la caratteristica del secondo momento poetico manzoniano è individuabile soprattutto nel coraggio col quale tali problemi vengono affrontati : più che risolti. Quando il Manzoni scriveva nella Resurrezione:
. . . non è madre che sia schiva
della spoglia più festiva
i suoi bamboli vestir . . .
offriva un tipico esempio di quella nuova retorica romantica destinata a limitare di molto la rivoluzione contenutistica del romanticismo. Ancora una volta, come ai tempi della retorica classica, il linguaggio poetico non è inteso già a quintessenziare l'espressione, bensì a contrabbandare, rendendolo più accettabile, il contenuto dell'espressione stessa. Con la differenza che, laddove la retorica classica era un possesso acquisito sulla base di un'esperienza secolare, la retorica romantica si presentava, nel Manzoni per primo, con i caratteri della più recente improvvisazione.
La voce del Berchet è stata ben riconosciuta dalla critica quand'egli esclama, a sentire il canto degli ambasciatori a Costanza :
Oh, della cara Italia
la cara lingua ell'è!
Questa sua disposizione ingenua alla commozione, questo suo candore di fanciullo sono certo il segreto della sua poesia, che d'altronde si presenta generalmente in assai precarie condizioni di leggibilità: come un dipinto che richieda un'opera d'integrazione sempre troppo forte e troppo oltre la possibilità diretta di vedere e decifrare.
D'altronde il Berchet non era stato neppure l'inventore delle nuove cabalette romantiche: il ritmo tirtaico era venuto in onore con le armi napoleoniche; e quando il Monti, nell'anniversario della decapitazione di Luigi XVI, scriveva:
Il tiranno è caduto. Sorgete,
genti oppresse, natura respira.
Re superbi, tremate, scendete;
il più grande dei troni crollò . . .
già anticipava la poesia romantica parenetica dal Rossetti al Berchet, al Mameli. E quando nello stesso inno scriveva:
Chi è quel vile che vinto s'invola
via per l'onda - che l'Etna circonda? . . .
prestava già l'esordio ai Profughi di Parga :
Chi è quel Greco che guarda e sospira . . .
Nell'un caso e nell'altro siamo di fronte all'armamentario di una vecchia eloquenza classicistica violentato da esigenze strettamente pratiche. Quella violenza di guerra ridurrà a maceria, nel Berchet, il suo tirocinio di classicista oraziano e pariniano (la satira I funerali); e quella maceria, abbiamo già detto, sarà la sua «forma poetica».
Prima del Berchet abbiamo collocato due poeti che si accordano con lui nel segno comune della poesia della patria, inserendosi tuttavia in quel denominatore con un carattere diversissimo. Spiegare perché la poesia del Rossetti non abbia praticamente nessuna classificazione di valore rispetto a quella del Berchet sarebbe, ai fini del nostro discorso, troppo eccentrica questione (e forse il De Sanctis fu il responsabile primo di questo scompenso critico). Certo il Rossetti restò sull'altra riva nei confronti di quella crisi dell'espressione che il Berchet subì invece senza reazioni sufficienti: e fu comunque una troppo facile salvezza.
La formazione letteraria del Rossetti si era svolta sotto la costellazione del Metastasio, ed egli fu, insomma, un melico che non dette neppure segno di accorgersi del momento neoclassico: di cui invece, nelle cose giovanili, aveva avuto buona esperienza il Berchet. Il Rossetti è un arcaico (inconsapevole) che, ancor oltre la metà del secolo XIX, continuerà le sue ariette di brevissimo respiro melodico (fu forse la lontananza dalla patria a impedirgli di evolvere il proprio gusto?). Tutta la sua parabola, dalle cose anacreontiche della prima gioventù alle invettive giambiche della piena maturità, si compie dal segno del Metastasio a quello del Fantoni. È insomma un'arcadia che si politicizza o, per meglio dire, si trasferisce dai giardini di Schönbrunn alle rive tumultuose del giacobinismo parigino. L'unico motivo che il Rossetti accetterà dal romanticismo, se così si può dire, sarà quello di un'incrollabile fede religiosa: a meno che la sua stessa religiosità non fosse una continuazione ipertrofica di certo teismo settecentesco. Comunque non si tratta di una religiosità di tipo romantico, eminentemente evangelica: quella del Rossetti è una religiosità biblica, nel senso che il suo fulcro è Dio, non Cristo.
Anche la personalità politica e morale del Rossetti è senz'altro elementare: il suo non è un atteggiamento critico di fronte al romanticismo; egli è restato ormai solo a protendere insegne screditate dai nuovi tempi. Eppure in quell'ostinazione giacobina, che è a suo modo una forma di serietà, sta il significato della sua protesta: fino a saper chiaramente denunciare, nell'ambito risorgimentale, certe posizioni di troppo accentuato neoguelfismo, come nel caso del Pellico. Senza dire che, accanto al poeta giacobino, c'è nel Rossetti una vena morbida ed elegiaca, un sentimentalismo cantabile, una possibilità metastasiana di commuoversi su se stesso che gli conferiscono una risonanza specifica di lirico. Il De Sanctis concludeva che «l'uomo in lui valeva meglio del poeta» e che egli era appunto «l'ultima eco della letteratura della decadenza italiana»:4 si è detto infatti che il Rossetti non avverte la crisi formale romantica, e c'è sempre in lui un'intenzione di violenza accompagnata a una flebilità tenorile ; ma d'altronde anche il vero e proprio romanticismo non è per sua natura anti-melico ; anzi, l'arietta o l'odicina settecentesca vi trovano larga diffusione e buon terreno per dare frutto: dal Sestini, al Carrer, al Prati (e perfino oltre). Ora si può dire che la corrente melica della poesia del secolo XVIII, che sfocia poi nel mare romantico, è documentabile nel Rossetti come nell'esempio più vistoso.
A compiere la triade, un poeta ancor meno presente all'opinione critica: Giovita Scalvini. Dire che la sorte infelice toccata ai manoscritti scalviniani e la loro scarsa o imperfetta diffusione a stampa sia motivo di questo oblio sarebbe forse supposizione troppo semplice. C'è forse una ragione più profonda che deve aver determinato il quasi assoluto silenzio intorno alla sua opera di poeta. Una ragione della quale ci danno indizio le cure adoperate dal Tommaseo nel pubblicare L'esule (o piuttosto II fuoruscito): un'edizione purgata di ogni punta rivoluzionaria troppo dichiaratamente giacobina, di ogni attacco alla Chiesa cattolica, di ogni riferimento critico troppo aspro all'operato dei patriotti del '21 e al Gonfalonieri in ispecie.
Lo Scalvini è in realtà, insieme col Leopardi, uno dei più grandi poeti-critici dell'Ottocento e della nazione italiana nel suo divenire. Dicendo critico si vuole alludere alla possibilità che lo Scalvini ebbe, come poeta civile, di non lasciarsi portare dall'onda risorgimentale o dalla funzione tirtaica, ma di considerare per primo il Risorgimento con una disposizione che non ritroveremo se non in poeti di cinquantanni più tardi. La forza critica del Leopardi di fronte al romanticismo è tutta nella sua coscienza d'illuminista, nell'intuizione profonda dell'ambiguità ideologica del primo Risorgimento (quello fiorentino del Capponi, per intenderci, che poi avrebbe avocato a sé ogni iniziativa risorgimentale): ambiguità consistente in un progressismo avveniristico sposato al neo-cattolicesimo. Ma il Leopardi, da illuminista aristocratico, non investe della sua critica altro che i princìpi di quella che sarebbe stata la nuova classe dirigente: non pone in discussione l'opportunità e la legittimità di quella classe stessa. Lo Scalvini, più che profondamente intinto, come in realtà è, di motivi illuministici, ci si presenta con un punto di vista rivoluzionario e giacobino:
. . . non fia mai che Italia si rilevi
finché le sorti sue fida nei pochi
ed ignavi signori. . .
. . . Italia mai non leverà l'infermo
fianco da terra senza il poderoso
braccio della sua plebe . . .
Il giacobinismo dello Scalvini non è, come quello del Rossetti, vagamente massonico e retorico. Egli si rende conto lucidamente che alla tentata rivoluzione del '21 è mancato il consenso e l'appoggio del popolo. È stata una rivoluzione di élite guidata da quella stessa classe (è il caso del Confalonieri) che per secoli aveva praticato uno sfruttamento sistematico della plebe e continuava tutt'ora nella sua opera. È stata tutt'al più una rivoluzione di carattere intellettuale e letterario, quando motivi meno puri non vi si siano mescolati. Il popolo, del resto, non poteva seguire la rivoluzione, tanto era assopito e abbrutito dalla soggezione feudale. Coloro che lo avrebbero voluto compagno nell'opera rivoluzionaria erano gli stessi che lo avevano privato di ogni possibilità di adoperare la propria forza. D'altronde, senza la partecipazione del popolo non può esistere rivoluzione vera.
Non è questa altro che una schematizzazione dei motivi che lo Scalvini andò svolgendo nel Fuoruscito; e lo sviluppo dei fatti doveva confermare i sospetti del poeta, se da movimento rivoluzionario-nazionalistico, come era in origine, il Risorgimento si concluse poi nell'avvento della monarchia borghese.
Questa è, crediamo, la chiave nella quale va inteso lo Scalvini: quando gli si domandi una pura offerta di poesia, egli non potrà compiutamente appagare. In tal senso è un classicista di maniera foscoliana, anche se in lui non c'è più residuo alcuno di retorica civile. C'è si molta eloquenza, che ad altro non serve che a dar forza alla critica: eloquenza «forse con calore più vero»5 rispetto a quella del Foscolo, come ebbe a dire il Tommaseo, il cui giudizio è certo sospettabile, ma non privo di suggestione.
II
E intanto compariranno nella nostra raccolta altre voci poetiche prima di toccare il traguardo romantico di Aleardi e Prati: Sestini, Carrer, Parzanese, Dall'Ongaro, Padula. Poeti che si collocherebbero quasi in disparte rispetto alla corrente propriamente romantica, se la categoria del romanticismo si dovesse identificare nel segno della confessione lirica: ma tutti sono comunque riducibili al denominatore, profondamente romantico, della poesia per il popolo, che era poi una maniera di poesia della patria e quindi di poesia politica, se in quel popolo la patria di domani doveva identificarsi.
Il Parzanese è, a questo proposito, un rappresentante tipico del pedagogismo poetico ottocentesco, in quanto i suoi versi sono prima di tutto il veicolo di un'ideologia politica. Che poi egli affidi alla poesia un messaggio in ultima analisi reazionario, ha poca importanza ai fini del presente discorso: basti per ora tener conto dell'accezione nella quale il concetto di poesia è accolto : evidentissima quando si leggano versi come questi:
Fatichiam, fratelli. Quando
noi nascemmo, Iddio ci disse :
- Voi vivrete lavorando –
e dal ciel ci benedisse . . .
. . . quel ch'ei vuole, noi vogliamo;
fatichiamo, fatichiamo . . .
Ma il repertorio della poesia scritta per il popolo va oltre i limiti di un mero pedagogismo: si vedano due esempi quasi paralleli: Jerolimina del Carrer e La boscaiola del Parzanese. Jerolimina è un piccolo capolavoro nato per caso, quasi indipendentemente dal mondo culturale del poeta: il mito popolare, la favola, non si sono ancora retoricizzati nel tipo della ballata narrativa romantica. La poesia s'identifica, in un certo senso, con la chanson de geste, ma tiene forse più della novella regionale tramandata oralmente: quasi una fiaba di Capuana. Già con questi esempi siamo oltre quell'accezione più arcaica di poesia per il popolo che s'identificava nei vecchi schemi della melica settecentesca ripresi dagli improvvisatori estemporanei: un documento tipico ne era offerto dal Sestini.
Diverso ancora il caso del Dall'Ongaro, in un certo senso il poeta più popolare di tutti, quando si consideri la sua produzione di stornellatore: una poesia, allora, destinata al consumo diretto del popolo, a diventare canto e farsi anonimo patrimonio comune (come d'altronde, in una diversa tradizione stilistica, quella patriottica del Mameli). Ma il Dall'Ongaro delle grandi ballate, Poveri fiori, poveri cuori, La perla nelle macerie, ha una maniera tutta sua di essere poeta popolare: quella cioè di commuoversi per primo a una materia che era restata fino ad allora oltre i limiti della retorica ufficiale, ivi compresa quella romantica, perché prima di tutto oltre i limiti consentiti dalla società borghese; e tutto ciò con una naturalistica (avant lettre) assenza di veli e una crudezza di denuncia che ci sembrano quasi inconcepibili a quel tempo.
E infine popolare alla maniera sua fu anche il Padula, non come melico ritardatario o come interprete dello scandalo sociale; bensì come l'unico, forse, poeta realista dell'Ottocento: un realismo che non fu mai così autentico nella « Scapigliatura ». Liriche come II cardello geloso, I quindici anni, Il telaio, o La pipa o La fuga, sono, nel quadro degli angelismi ottocenteschi, costanti dal primo romanticismo al preraffaellismo, la testimonianza di un élan vital che, per aderenza assoluta alla realtà, può toccare perfino soluzioni oscene: senza peso e compiacenza alcuna, ma comunque eccezionali in una letteratura intonata al segno di una ineccepibilità borghese.
Pertanto il Padula, le cui cose più notevoli, tra le prime, si accompagnarono, intorno al '40, agli inizi del Prati, era un poeta che non poteva influire in alcun modo sul corso della poesia italiana, appunto dal Prati ipotecato e volto a soluzioni di decoro e tanto spesso di simulazione ; mentre un poeta come il Carrer, col suo carattere tardo-melico e con la sua mitologia romantica, poté avere nel Prati il continuatore e quasi il potenziatore delle sue qualità.
III
Considerando invece la tradizione più puramente «lirica» del romanticismo, abbiamo limitato la nostra attenzione a un gruppo di poeti tutti di autorevole scuola letteraria: molti dei quali riconducibili a una comune esperienza leopardiana. La fragilità di questi lirici puri è documentabile, come nell'esempio più vistoso, nel caso poetico e culturale dei fratelli Maccari. Se le ragioni storiche dell'Ottocento richiedevano una compromissione piena nel campo politico, in quello religioso, in quello artistico, i Maccari furono, in certo senso, fuori della storia, quando addirittura non si compiacquero di tornare addietro fino a un'arcadia impressionistica: quella stessa dalla quale aveva preso le mosse il Leopardi degli Idilli, ma come bruciandola!
Il Poerio, con un assai più vasto margine di libertà, fu anch'egli un leopardiano e un melico nello stesso tempo; e anche il Mameli nella lirica amorosa. Il Poerio disponeva di cultura e di sensibilità più che sufficienti per essere un autentico poeta; e così lo sconosciuto Cagnoli, e così il Carcano che dal Leopardi anch'egli imparò. Perché dunque tali non riuscirono? Basti vedere per tutti il caso del Poerio, che fu anche il più aperto agli interrogativi spirituali del suo tempo: e la chiave più vera della situazione sta forse nel particolare carattere della partecipazione «cristiana» di questi poeti romantici.
Il De Sanctis, come altrove così nel saggio sul « Mondo epico- lirico di Alessandro Manzoni», ottimamente individuò il carattere del cristianesimo romantico come riflesso necessario del Congresso di Vienna, nonostante che il movimento si fosse già prima iniziato «negli spiriti».6
In questo sta anche, a nostro avviso, la ragione profonda della posizione del Leopardi: cioè nell'aver sempre tenacemente respinto quel cattolicesimo di tipo progressista che del secolo XVIII contrabbandava soprattutto i miti, rifiutandone le intuizioni e le conquiste più vere. Pertanto il Leopardi fu fuori, anzi contro, il proprio secolo. Il Poerio, invece, e con lui gli altri poeti cattolico-romantici, furono in armonia perfetta col secolo decimonono. E qui sta, a parer nostro, il maggior limite del Poerio, che non offusca tuttavia un merito singolare: quello di aver bene sottolineato nell'esempio e nella lezione del Leopardi le ragioni tipicamente romantiche: quelle che vorremmo chiamare le ragioni del cuore. Certo, così facendo, si finiva per ignorare l'altra faccia della medaglia: quella così importante e ancor oggi così poco illuminata del filosofo antiromantico. Ma solo forse attraverso quella diminuzione il Leopardi poteva essere grande nel proprio secolo.
IV
Aleardi e Prati, al colmo dell'esperienza romantica, contribuiranno ad inserire la poesia italiana nel quadro generale della cultura europea. Quasi parallela la loro esperienza iniziale (per quanto quella dell'Aleardi fosse più difesa da un aristocratico riserbo), il Prati continuò molto più a lungo la sua attività di poeta. Per questo, nella nostra raccolta, apparirà dopo l'Aleardi, mentre, ai fini del nostro discorso, la novità maggiore della poesia aleardiana impone quasi di considerarla tramite fra il romanticismo ed esperienze decadentistiche.
Certamente fra il primo e l'ultimo Prati, nonostante un decisivo scatto di qualità, non esiste un'altrettanto decisiva differenza di linguaggio; e bisogna dire che la critica sia stata fuorviata dalle prime cabalette del poeta per non riconoscere, come anche al De Lollis accadde, la sua poesia ultima: ché da un lato egli parlò della «garrulitas miserevole di Psiche » (op. cit., p. 67), che è per noi - sia detto per inciso - la raccolta più bella del Prati, e d'altro canto dimostrò di dare gran credito, probabilmente per la suggestione del classicismo carducciano e per lo stesso giudizio del Carducci decisamente favorevole, a una lirica come il Canto d'Igea: tanto poteva ancora nel De Lollis non diciamo già una seduzione generica di tipo classicistico, ma più propriamente il Parnasse dell'ultimo Carducci (lo stesso De Lollis era un parnassiano che andava cercando parnassiani in Italia).
Anche questo atteggiamento ha contribuito a minimizzare l'esempio del Prati: vederlo cioè come poeta dell'arte per l'arte (così avrebbe visto il De Lollis anche l'Aleardi) in una funzione di precorrimento storico del verbo carducciano. E non vogliamo già negare che i precursori in poesia esistano, e proprio per una loro sensibilità particolare nel cogliere le avvisaglie di un'età nuova che si prepara; ma, nella fattispecie, il Prati non fu precursore di parnassianesimo altro che in minima misura, e considerarlo da questo punto di vista significherebbe sfocare il problema critico. Se mai, e di questo si accorse il Croce,7 l'ultimo Prati può far pensare al D'Annunzio e, diciamo noi, a certo gusto «conviviale» del Pascoli.
Ma al primo Prati si deve riconoscere una funzione storica anche maggiore di quella che esercitò il lirico degli ultimi anni, mal tollerato e non più ascoltato. Il Prati tenore da cabaletta rischia sempre di prendere il sopravvento, come nel carme Dolori e giustizie :
. . . dissero
le iene del deserto,
che il fulgid'or d'Alberto
i canti miei comprò!
Vili! dannate il perfido
labbro a sigillo eterno.
Me la latrata ingiuria
fa sogghignar di scherno.
Vili! le meste pagine
rigo de' miei sudori,
ma non ha gemme ed ori
per comperarle un re!
Sono versi famosi che si appuntano tutti a un generoso do di petto sulla fine; eppure si sente che, in confronto ai poeti dell'interludio romantico dipendenti dal Leopardi degli Idilli, questa eco polemica, per quanto cantata, ci dà la certezza di un preciso scatto storico. Anche l'impegno di poeta della patria non resta più sospeso nelle vaghe idealità di un Poerio, allo stato idillico e sentimentale: senti che intorno al Prati ora si agita una polemica nazionale e che, in qualche modo, egli è nella mischia. Ed è una condizione nuova rispetto a quella stessa del Berchet, che pure aveva affidato motivi violentemente polemici alla propria poesia (Clarino):al tempo del Berchet la coscienza nazionale non ha ancora vere incrinature e si appoggia a un fronte comune di resistenze. Al tempo del Prati questo fronte comune non esiste più: basti pensare alle vicende della stessa vita « patriottica » del poeta (si ricordi la lettera autobiografica premessa appunto al carme Dolori e giustizie, scritto sulla fine del 1858, al momento di essere cacciato dalla Toscana ad opera del Guerrazzi e del Montanelli). Ora, nonostante le infatuazioni, finisce per prevalere l'atteggiamento critico: la poesia sposta già il suo indice di sensibilità verso il momento storico della «nuova Italia», che sarà rappresentato, nei suoi aspetti contraddittori, da poeti come Revere, Cavallotti, Zanella, Costanzo, Nigra.
Ma il merito più grande del Prati, anche del primo, è per noi quello di aver dato una sua ragion d'essere europea al romanticismo italiano che, fino ad allora, tranne forse l'eccezione del Carrer e le curiosità «europee» del Berchet, aveva conservato caratteri nostrani e non si era di molto allontanato dalla strada « italiana » segnata dal Leopardi. Si dice che quello del Prati fu un secondo romanticismo, quasi una estrema eco illanguidita; eppure noi crediamo che si tratti piuttosto del vero e solo romanticismo italiano8 in contatto vivo col grande serbatoio del romanticismo europeo e più particolarmente tedesco. Che l'esempio del Berchet, col suo Bürger e colle sue traduzioni dallo spagnolo, fosse stato veramente applicato non sembra. Il mondo della grande fantasia romantica nel suo patrimonio mitologico restava ancora intatto: restava intatto il patrimonio del folklore europeo. In questo ritrovamento di una cultura poetica comune, in questa fondazione di una comune mitologia, nello sprovincializzare la poesia italiana a costo di strapparla da quelle sue radici leopardiane che avevano dato già buoni germogli, sta appunto la sensibilità storica del Prati e dell'Aleardi.
Si pensi a questo proposito alla funzione delle traduzioni, e in particolare di un grande mediatore di cultura quale fu Andrea Maffei, che dette il proprio contributo nella stagione più delicata del nostro romanticismo. Basti per ora prospettare un indice: la versione poetica di Gessner, le traduzioni da Victor Hugo, da Lamartine, dal Duca di Riva, da Milton, da Goethe, da Schiller, da Zedliz. E poi ancora i poemetti di Tommaso Moore : Il paradiso e la Peri, La luce dell'Harem, Gli amori degli angeli, e i «misteri» di Lord Byron: Caino e Cielo e terra; e ancora di Byron Parisina, Il prigioniero di Chillon, Le tenebre; Matilde e Toledo dalla Tunisiade del Pirker, frammenti della Messiade del Klopstock.
Si legga per esempio La danza de' morti come dal Goethe la tradusse il Maffei:
A mezzo è la notte. Sogguarda il terriere
sul funebre campo. La luna è nel pieno,
e schiara le fosse di tanto sereno
che sembra la luce del giorno venir.
Si move una tomba; poi quella, poi questa,
ed ecco ravvolti di candida vesta
qui l'uno, qua l'altro, gli scheletri uscir.
La fiera congrega vuol darsi trastullo,
e l'anche e gli stinchi già snoda alla danza.
Col povero il ricco, col vecchio il fanciullo,
la ridda s'intreccia, s'ingrossa, s'avanza . .
Più tardi il nuovo gusto « mortuario » di Baudelaire avrebbe potuto suggerire anch'esso qualcosa alla sensibilità del Prati, ma veramente di una terribilità apocalittica come Danse macabre egli non poteva far suoi che pochi tratti esteriori, e resterà per tanto sempre legato al gusto di questa Danza de' morti: anche nei momenti suoi più illimpiditi, anche di fronte agli incantesimi di Azzarelina:
. . . e danzano i defunti in cima al colle.
O si veda ancora, nella traduzione del Maffei, il Saggio di un poema intitolato «Corone funebri», da Cristiano Zedliz, dove «il genio de' sepolcri conduce il poeta sulla tomba di Napoleone I avvolgendolo del suo manto»:
. . . E circonfuso
nel manto dello spirto ancor m'intesi,
e sospinto di nuovo ad indefesso
rapidissimo volo. Il continente
già sparlami dagli occhi, ed ogni suono
di viva creatura era già muto.
Ma i silenzi rompea di quella fiera
solitudine il cupo ed uniforme
fragor dell'onde che selvagge e vaste
or s'aprìano allo sguardo in un abisso
spaventoso, infinito, ora sorgendo
prendeano di nembose alpi l'aspetto,
e n'uscìa di tal vista uno sgomento
simile a quel terror che in noi propaga
l'eternità . . .
Ma questo è già l'endecasillabo romantico dalla levitazione straripante: è già Prati ed Aleardi, dopo essere stato Ossian e Cesarotti. E poco importa cedere qui alle superstizioni critiche intese a documentare in qualche modo una trasmissione diretta: tuttavia certissima a proposito dei poemetti del Moore, tra i quali l'Aleardi ricordava, in una nota alle Prime storie, Gli amori degli angeli come esempio da lui seguito. E anche l'Aleardi avviato a soluzioni più decadentistiche, se non addirittura floreali, quello della « fantasia » È morta, trovava autorizzazione in una ballata del Freiligrath, La vendetta dei fiori.
Questo è pertanto, torniamo a ripetere, il grande merito storico del Prati e dell'Aleardi: avere per primi fatto della poesia italiana una poesia europea, come poi avrebbero continuato il Carducci, il D'Annunzio, il Pascoli: o per chiara coscienza o, semplicemente, per una sottile sensibilità del momento. Chi scorra gli indici del Maffei ci troverà, insomma, gran parte della tematica pratiana; e si aggiunga il Foscolo (soprattutto quando furono note le Grazie: sicché nasceva a gara il canto epico Ielone di Siracusa o la battaglia d'Imera); e si aggiunga il Leopardi, che agì sempre sul Prati come un benefico lievito formale, condizionando insieme una timida eco ideologica (si pensi a una delle ultime cose: Primavera, da Iside); e Orazio, che è forse la chiave dell'intimismo di Psiche; e Heine che il Prati dovette sentire moltissimo : anzi allo Heine si dovrà rinviare quel suo umorismo, tanto poco avvertito dalla critica, attraverso il quale ci si rivela un Prati piccolo-borghese e sconsolato, forse perché conscio di una sua irrimediabile misura di uomo privato disproporzionata alle intenzioni del vate. È il Prati auto-ironico che fuma il suo sigaro in poltrona, in veste da camera e pantofole. 0 per lo meno auto-ironico ci sembra per il semplice fatto che non si crede più Armando, o quel che è peggio, Goethe.11
Si aggiunga il Goethe, dimenticavamo di dire. Ma la verità poetica del Prati può far benissimo a meno di quella ipoteca; e d'altronde anche l'Armando non si dovrà giudicare alla stregua del modello sublime, ma semplicemente come documento storico di una crisi di coscienza della borghesia italiana (la parte migliore di essa e più moralmente avvertita), quale sarebbe stata documentata anche da Giuseppe Aurelio Costanzo coi suoi Eroi della soffitta, come pure dall'atteggiamento generale della «Scapigliatura». L'Armando è appunto un'introduzione ideale alla « Scapigliatura », la quale avrebbe dimostrato il fallimento di quegli stessi antidoti che il Prati proponeva nei confronti del mal du siècle da cui Armando era afflitto.
Il Prati fu il poeta della borghesia italiana durante la sua stessa vicenda risorgimentale : ma una borghesia onesta e che restò alla fine delusa di se stessa. Facendosi poeta cesareo della dinastia sabauda, egli difendeva appunto anche gli interessi di quella borghesia progressista per la quale la monarchia costituiva la garanzia massima che il Risorgimento non degenerasse in rivoluzione sociale. E perciò il Prati fu antidemocratico, da quando entrò in conflitto col Guerrazzi fino a quando abbracciò la parte del Rattazzi e melanconicamente arrivò a vedere il crepuscolo di quella classe politica ch'egli aveva difesa in buona fede e che in buona fede d'altronde aveva preso parte al Risorgimento, certa che la situazione più stabile e sicura essa l'avrebbe raggiunta soltanto nell'unità nazionale.
Anche dal punto di vista più propriamente letterario il Prati fu il poeta della borghesia, in quanto ne riassunse i gusti e le preferenze estetiche secondo gli indici più evidenti; e la sua opera fu come un ponte gettato dal Monti (si veda, nei Canti lirici, L'uomo) al D'Annunzio (Inide e il satiro). E tipicamente borghese, disperatamente tesa verso un'evasione, era la sua ritornante follia funerea, il suo delirio di morte, o, vorremmo dire, mortuario: per certi aspetti la poesia del Prati ci fa pensare a quel camposanto monumentale, di tipico gusto ottocentesco, che è, a Genova, il cimitero di Staglieno con la sua infinita statuaria bilanciata tra un patetismo di maniera e un senso veramente orrido e squallido della morte.
Ma Prati vale certamente più di Staglieno, e proprio in quella sua follia è un altro documento della sua sensibilità storica pervenuta all'ultimo approdo: il delirio:
. . . Povera amica, le tue palpebre
come l'orrendo sonno affatica!. . .
Così nell'Ultimo sogno, da Iside. È un brivido che si è arricchito ormai delle esperienze stesse del naturalismo, mentre la scena intorno brulica di romantiche fantasmagorie. Un brivido e un delirio che avrebbero avuto continuazione, attraverso il D'Annunzio, fino al dannunzianesimo cinematografico di Ma l'amor mio non muore. Eppure, qui nel Prati, il movimento era di prima mano e quel delirio ci si presenta come uno spasimo vero.
D'altronde il dovere critico di penetrare la situazione pratiana, insomma di «capire», non esclude il giudizio: un giudizio, intendiamoci, che non può in nessun modo investire soltanto la personalità del Prati, ma deve essere rivolto al mondo che il Prati esprimeva e dal quale egli era stato a sua volta espresso. Gli ideali del Prati furono dunque quelli della borghesia che si stava organizzando nel nuovo Stato sabaudo: ideali che, in ultima analisi, s'identificano nei simboli di difesa della società: Iddio, il re, la patria, la famiglia. E si tratta di una società che non può ammettere turbamenti o deviazioni dall'ordine : si veda per esempio il carme Antimaco e come vi si documenti il senso di disagio nei confronti del figlio illegittimo, la necessità di giustificarne la nascita, di cancellare un obbrobrio atroce, fino al limite dell'involontaria parodia. Il Prati crede a questi ideali, o meglio - ci si perdoni il bisticcio - crede di credervi. In realtà basta l'ossessione della morte orrenda, del sudario e della bara - una morte senza paradiso - per rivelarci il vuoto intimo di quegli ideali.
L'atteggiamento di assoluta negazione che il Croce ebbe verso il Prati si chiarisce anche meglio se posto accanto al giudizio ch'egli dette dell'Aleardi, affine del resto a quello del De Lollis. Gli riconobbe, rispetto al Prati, «tempra più fine» (op. cit., I, p. 90), non si dimostrò insensibile alle qualità tecniche del suo endecasillabo, sottolineò in lui una «derivazione storica, che procede, nonostante le contrarie apparenze, dalla grande poesia foscoliana, con qualche influsso, qua e là, del romanticismo tedesco» (ibid.): e il tirocinio foscoliano era già una sufficiente garanzia di forma; sostenne che una «risoluta opposizione al falso Aleardi prepara a scorgere, di sotto a quello, un altro Aleardi, sincero e poeta, di cui il primo, che stava sulla scena, era non l'espressione, ma l'esagerazione e la deformazione» (ivi, pp. 76-7). Insomma nell'Aleardi metteva conto distinguere poesia da non-poesia: nel Prati quella stessa operazione non avrebbe dato che cattivo esito : in quanto si trattava quasi sempre di non-poesia: mero documento di un gusto deteriore: non poeta, ma «giornalista della poesia. . . improvvisatore» (ivi, p. 12). In fondo, alla suggestione d'identificare il Prati con Armando il Croce non era sfuggito: «Egli incarnava magnificamente il tipo convenzionale del poeta» (ivi, p. 11). Ma l'Aleardi era troppo artista e troppo veramente parnassiano perché quella sua esperienza squisitamente formale potesse sfuggire al Croce e al De Lollis, anche in quello che era, indubbiamente, il suo valore di lezione di stile.
Il fatto è che l'Aleardi convogliò le proprie esperienze romantiche (quelle stesse del Prati: si potrebbe insistere sull'ambiente comune della loro formazione) a soluzioni, lui sì, veramente parnassiane. Egli è l'unico a cui si convenga (e non allo Zanella) la definizione di «parnassiano d'Italia»: e senza quell'implicazione limitativa che nel parnassianesimo degli italiani voleva introdurre il De Lollis. Questa soluzione fu anche quella che lo affrancò da vere e proprie responsabilità storiche, né più né meno di come accadde per i parnassiani veri e propri. Il che non esclude che la sensibilità storico-letteraria dell'Aleardi fosse eccezionale: certo la più sorprendente in tutto il quadro del romanticismo italiano, se si pensa anche all'anticipo fortissimo che egli segnò nei confronti del Parnasse francese : benché i suoi carmi più importanti fossero pubblicati tra il '56 e il '58, alcune date interne ci riportano, nel lavoro di composizione e di ideazione, a più che dieci anni prima.
La poesia dell'Aleardi non è semplicemente poesia dell'immagine : è poesia immaginifica ; proprio per un suo rapporto di carattere decadentistico, recondito e sempre possibile, tra parola e immagine pittorica. È anzi famosa a questo proposito una dichiarazione dello stesso poeta: «Se io per avventura ero nato a qualche cosa, ero nato al pittore; e per questo se qualche cosa ci è di non cattivissimo nella roba mia, è tutto pittura . . . Non avendo dunque potuto adoperare il pennello, ò adoperato la penna. E appunto perciò ella sente troppo di pennello; appunto perciò sono sovente troppo naturalista, e amo troppo perdermi nei particolari ».12 Ingenuamente, ma pure limpidamente l'Aleardi coglieva nella sua stessa poesia i germi latenti di ogni decadentismo: anzi proprio in questi termini crediamo che ogni decadentismo possa, oltre ogni differenziazione particolare, essere riconosciuto. Non pericolo di naturalismo nella poesia dell'Aleardi, quando almeno si voglia prendere il termine nell'accezione più comune, ma bensì il pericolo che egli riconosceva della preminenza dei particolari. E naturalismo forse, in quanto la poesia dell'Aleardi è fatta di un solo ingigantito particolare, esaltato da una ravvicinatissima lente: così la flora o la geologia mostruosa del Monte Circello. È appunto per questo che il particolare viene a vivere di vita autonoma: ma un'autonomia lontanissima dalla tranche de vie naturalistica. E non diciamo già per la fin troppo diversa qualità dei soggetti, ma per il fatto che la tranche de vie, per quanto dissimulatamente, sempre si riassorbe nella tesi sociologica: il particolarismo dell'Aleardi è appunto in questo squisitamente parnassiano, proprio perché irrecuperabile a qualsiasi intento dimostrativo (si veda l'assoluta indifferenza alla materia religiosa nelle Prime storie), ma tutto disposto e lavorato con un furore formale da sublime orefice: smalti e cammei.
I debiti dell'Aleardi con la poesia romantica che lo aveva preceduto sono stati indicati: si sa che un ampio squarcio delle Prime storie s'ispira al Déluge di Alfred de Vigny, la « fantasia » È morta deriva in gran parte dal Freiligrath; e ancora si sono fatti i nomi del Rückert, del Platen, del Lamartine, del Musset.13 Ma è un fatto: che leggendo l'Aleardi, ci viene spontaneo di pensare alla poesia che sarebbe venuta dopo di lui, piuttosto che a quella che lo aveva preceduto. E non solo, in Italia, Graf o Gnoli (per meglio dire Giulio Orsini), ma in Francia Leconte de Lisle, facendo posto naturalmente al Victor Hugo della Legende des siècles. Mentre le sconsolate lande infernali di È morta ci fanno venire in mente quell'inferno parnassiano immaginato da Anatole France in Thaïs: glaciale, smaltato, simbolico. E certe visioni panoramiche, certe sue epopee della natura ci rinviano oggi a un poeta neo-lucreziano e decadente a un tempo come Pablo Neruda.
O si veda un quadro scientifico e fantastico di Camille Flammarion sul raffreddamento progressivo del sole: «Pietroburgo, Berlino, Londra, Parigi, Vienna, Costantinopoli, Roma si addormenteranno l'una dopo l'altra sotto il loro eterno sudario . . . Sorpresa dal freddo l'ultima famiglia umana sarà tocca dalla morte e dopo breve tempo le sue ossa saranno sepolte sotto i ghiacci eterni. Ma la terra avrà forse vita abbastanza lunga per non morire che per l'estinzione del sole ... I secoli futuri vedranno il sole spegnersi e riaccendersi, infino al giorno in cui il raffreddamento invaderà l'intera superficie; allora gli ultimi suoi raggi smorti e intermittenti si oscureranno per sempre, e l'enorme palla rossa si oscurerà del tutto, per non tornar più mai ad allietare la natura col dolce beneficio della luce»14. Certo anche il Flammarion scriveva con sensibilità parnassiana. Ma già quelle immaginazioni cosmiche e apocalittiche, che furono care al Graf e allo Gnoli, avevano da molti anni compiaciuto di sé l'Aleardi.
E a lui si deve, nel segno dell'arte prima di tutto, anche la più sensibile innovazione nel campo della lirica patriottica: esemplari, in tal senso, liriche come I tre fiumi o Le tre fanciulle. Alla patria l'Aleardi credeva come uomo; ma la patria soltanto, come artista, non riusciva ad appagarlo. Donde la necessità di una nuova ars dictandi del sentimento patriottico. Che poi sulla lapide della casa dove il poeta morì in Verona si legga che egli lasciò «all'Italia eredità preziosa di patriottici canti e mirabili esempi di civili virtù», questa non è che l'eco predominante dell'opinione pubblica umbertina che inconsapevolmente ricondusse l'Aleardi nel quadro dei poeti civili o dei fabbri del Risorgimento.
V
Zanella, Nigra, Cavallotti, Rapisardi, Guerrini, Costanzo: forse i più significativi tra quei poeti che dopo, e in parte parallelamente all'apogeo romantico segnato dalle personalità del Prati e dell'Aleardi, documentarono più propriamente la poesia della «nuova Italia». Il denominatore della politicità non cessa; ma dall'indice iniziale di «poesia della patria», si perverrà a quello di poesia della nazione italiana: e sarà soprattutto una poesia con decisa accentazione critica e polemica. Abbiamo rammentato Zanella insieme con Guerrini e con Rapisardi! Eppure, sebbene da posizioni avverse, è comune a tutti l'ansia di un rinnovamento sociale; che d'altronde neppure a poeti di più antica formazione, quali Giuseppe Revere, era restata ignota, se appunto gli ultimi versi di questo ardente patriotta hanno un'intonazione aspramente critica.
Arieggiando motivi che ci fanno pensare al Parzanese, secondo uno spirito evangelicamente conservatore, lo Zanella, rivolgendosi al solito fanciullo povero, aveva già scritto:
... Se sulla nuda mensa
ti vien mancando il pane,
non t'atterrir; ma pensa
che un Padre ti rimane . .
Ma se era inevitabile in lui un residuo di paternalismo sociale attestato su posizioni di fiduciosa attesa, la sua forza d'impegno e la sua coscienza critica dovevano condurlo a soluzioni chiaramente progressiste e democratiche. L'abate arcade, il poeta parnassiano si mostrava in realtà più che esplicito nemico di ogni superstite arcadia e di ogni ozio stilistico, quando, al Lampertico, scriveva:
. . . Barbogio vate che s'adagia al rezzo
dell' arcadiche selve e di Fileno
per la bella Amarilli i lai ricanta,
contro il secolo insorga; e dal tugurio
d'ingentilito contadin, che legge
all'accolta famiglia util volume
gridi fuggiasca l'innocenza antica . . .
per concludere, contro ogni equivoca rassegnazione sociale:
. . . l'invida io temo
losca ignoranza che squallore ed ozio
copre col manto di virtù celeste . . .
Il Croce rilevò già il carattere opportunisticamente cattolico del poemetto Milton e Galileo (op. cit., I, pp. 305-6) che finiva per consigliare l'acquiescenza supina alla cattedra di Pietro; ma non basta questa, come altre note discordi, a ricondurre lo Zanella alla configurazione di un reazionario, e sono d'altronde noti i suoi dissensi a proposito degli atteggiamenti assunti dalla Curia romana dopo l'inasprimento dei rapporti col Governo italiano. Il Croce, anche, fu troppo scettico nei confronti del significato della particolarissima posizione storica zanelliana; e concluse che «il dramma della sua vita intellettuale si risolve, chi ben guardi, in una commedia di equivoci» (ivi, p. 299): infatti per il Croce la fede dello Zanella nel trascendente (un equivoco), veniva ad essere in conflitto con la fede nel progresso umano e sociale impiantato su basi «positive» (un altro equivoco). Ma a dimostrare che non si trattò di commedia e, in fondo, neppure di dramma, e che la coscienza cristiana e la filosofia positivistica nello Zanella coincidevano per gran parte, basterebbe ricordare i versi ultimi del carme A Fedele Lampertico che citavamo poc'anzi : la fede religiosa non è mai nello Zanella puramente contemplante, ma sempre intesa a un'opera di restauro sociale; sicché potremmo dire ch'egli sia, nel quadro della poesia italiana del secondo Ottocento, il massimo interprete di quei disegni di azione e d'intervento che Daniele Cortis, insieme con la sinistra cattolica, immaginava di realizzare nel segno di una nuova «democrazia cristiana». Il merito storico dello Zanella è quello di avere intuito, in tal senso, l'unica via necessaria che avrebbero potuto seguire i cattolici nella loro competizione ad oltranza con le forze socialmente più progressive : non negare il « progresso », ma dimostrare che esso coincideva con una vera «azione» cristiana.
L'ultima parola resta naturalmente a Dio, e lo Zanella, in nome del dogma cattolico, rifiuta il dogma materialista dello scientismo positivistico, e nascono da questa conclusione i bellissimi versi che chiudono una delle liriche nelle quali è più apertamente dichiarato l'amore per la scienza del secolo XIX:
. . . Muore la lampa, e scuro un vel si abbassa
sullo sguardo dell'uom, che sbigottito
scorge per entro l'ombra Iddio che passa
novi Soli a librar nell'infinito.
Ma in quest'ultima istanza zanelliana non c'è nessuna ritorsione reazionaria : è semplicemente un'estrema riserva del sentimento che sfugge a qualsiasi giudizio storico: appunto «estrema riserva», e non premessa o ipoteca.
Se poi un contrasto nello Zanella ci fu, questo fu piuttosto tra le cose da dire e la maniera con la quale egli le espresse. Poeta polemico e engagé, lo Zanella era già troppo sicuramente formato quando la lezione dei giambi carducciani cominciò a trasmettere un nuovo linguaggio comune alla poesia polemica italiana: a parte il fatto che il giacobinismo, anche sul piano espressivo, dei polemisti di sinistra poco poteva accordarsi col moderatismo cristiano dello Zanella. Egli continua pertanto, secondo una tradizione, questa sì da seminario, a servirsi delle vecchie forme meliche settecentesche che d'altronde, attraverso l'esempio cospicuo del Rossetti, erano già state immesse nella poesia della nuova Italia. Ma certo il suo non è il ritmo elementare della cabaletta rossettiana. La lezione di Orazio, sia attraverso l'esempio dell'abate Parini, sia nella linea di continuità, ancora una volta, dell'educazione culturale-umanistica degli istituti religiosi, condiziona il particolare parnassianesimo dello Zanella, che col vero Parnasse non ha niente a che fare: lo Zanella infatti non è un nostalgico rievocatore della forma classica nella sua suggestione pura di bellezza, ma è un classico in ritardo, o meglio classicista, senza nessun problema di forma o di espressione che esuli dai limiti della retorica dei seminari.
Né ciò basterebbe a darci ragione del fascino di tanta sua poesia (Sopra una conchiglia fossile, con tutte le altre liriche affini per intonazione e significato), se non si dicesse che egli è l'ultimo rappresentante, nell'Ottocento, di quella poesia panica settecentesca che era culminata nell'esempio del Monti, tingendosi, nelle sue ambizioni cosmogoniche, dell'inflessione di un vasto michelangiolismo romantico. Quando si pensi ai famosi versi montiani:
. . . Svelavo il volto incognito
le più rimote stelle,
ed appressar le timide
lor vergini fiammelle . . .
che quasi possono essere la chiave di un'interpretazione critica, si avrà nello stesso tempo un indice sicuro per entrare nel segreto della poesia cosmica dello Zanella: se non che la serietà della poesia zanelliana è indiscutibile : lo Zanella non oserebbe mai vedere la natura come un divertimento teatrale ; ma non si è troppo lontani dal vero dicendo che resta in lui, strano poeta d'avanguardia e passatista nello stesso tempo, l'atteggiamento di attonita esultanza dello scienziato-poeta che, penetrando nei segreti della natura, si accorge come essa superi sempre se stessa. È stata poi l'esperienza romantica a conferire a quell'esultanza un carattere più meditato e riflesso: e il risultato tipico è, ancora una volta, quello dell'ode Sopra uria conchiglia fossile.
Da un lato, insomma, la poesia della nuova Italia avvertiva l'insufficienza degli ideali romantici pratiani e d'altro lato la recondita tara della scienza positivistica : valgano a questo proposito gli esempi dello Zanella e del Costanzo. Ma anche nei poeti più innamorati delle idee nuove questa poesia «critica» di cui andiamo parlando, non fu mai complice dello scientismo metafisico ; e col Guerrini e col Cavallotti (non va sopravalutata la divergenza delle loro opinioni strido sensu letterarie) batté, a costo dell'oratoria, la via del socialismo: un socialismo, appunto come tale, concreto e critico e non mai avviato pei floridi sentieri delle astrazioni positivistiche.
Per dare un esempio basterà dire del Guerrini, alla cui fama (intendo equilibrata valutazione critica) troppo nocquero le distrazioni poetiche che egli si prese sotto larve diverse. A dirci che il suo socialismo fu estremamente cosciente basterebbe la sua condanna critica dell'anarchismo (Anarchico); o le liriche di Affrica. Basta la sua intransigenza verso Depretis. È vero, come dice il Croce, ch'egli aveva «nell'orecchio l'onda dei Giambi ed epodi carducciani»,16 ma quell'affinità fu di carattere essenzialmente formale : ché non si dovrà dimenticare, parallela all'atteggiamento critico del Guerrini, l'inconcussa fede del Carducci nel Crispi, riconfermata anzi dalle contrarietà stesse degli eventi.
D'altronde il tirocinio formale di Giambi ed epodi, a cui questi poeti si rifacevano ogni tanto, non impediva la consuetudine delle Rime nuove. Ecco allora, nel Guerrini, Il guado; ed anche una possibilità di andare più oltre, per una sensibilità più avvertita o semplicemente più assicurata dai pericoli del classicismo carducciano. Quando il Guerrini scrive:
Un organetto suona per la via,
la mia finestra è aperta e vien la sera,
sale dai campi alla stanzuccia mia
un alito gentil di primavera . . .
ecco che già fornisce gli ingredienti necessari per la poesia di Govoni. Certo a questo «Novecento», sia pure crepuscolare, attraverso il Carducci soltanto non si poteva giungere. E la ragione noi crediamo appunto debba essere ricercata in quel lusso di libertà che questi poeti «minori» si concedevano, e anche nella loro timidezza da parenti poveri ad accostarsi all'opulenta mensa parnassiana alla quale il Carducci era assiso, simposiarca dell'incipiente decadentismo.
VI
La poesia della «Scapigliatura» fa capitolo a sé, come d'altronde - ma forse in misura minore - la narrativa della « Scapigliatura» nel quadro del naturalismo ottocentesco. Il panorama della poesia «scapigliata» è, crediamo, più unitario rispetto a quello della prosa e presenta minori sorprese. Si comincia a entrare ora nel limbo dei poeti « bravi », ognuno dei quali rischia di poter essere chiamato, a piacere, il più bravo, il più nuovo, il più seducente. Il fatto è che la rivoluzione della « Scapigliatura » fu soprattutto formale e fatta pour épater. Ma è fatale che chi si prefigga principalmente un tale scopo, poggi esso stesso su una piattaforma sostanzialmente conformista, e spesso non l'abbandoni mai. D'altronde questa situazione della «Scapigliatura» sospesa tra borghesia e antiborghesia è stata già intravista dalla critica.17 Alla «Scapigliatura» mancò insomma la coscienza che una vera rinnovazione letteraria non poteva essere operata semplicemente ai tavoli dei caffè (a parte il fatto che alla « Scapigliatura», come il Ferrata ha osservato, mancò un suo caffè e mancò un suo vero giornale: non fu certamente tale la « Cronaca grigia» dell'Arrighi). La «Scapigliatura» non ebbe un reale denominatore comune di cultura e d'intesa, e d'altronde, come tutti i fenomeni di rinnovamento letterario (e basta), pur esplicando una sua funzione storica insostituibile, rischiò di diventare un'accademia. La più vera funzione della «Scapigliatura» fu quella di rimettere in pari la provincia italiana rispetto alle ultime novità europee. Questo avevano fatto i romantici della generazione del Berchet, questo avevano fatto, in maniera assai più larga e proficua, il Prati e l'Aleardi. Questo fecero i poeti della « terza generazione dei romantici »: gli « scapigliati ».
La definizione di «terza generazione» fu opportunamente adoperata dal Carducci in un suo splendido saggio panoramico sulla poesia contemporanea: Dieci anni a dietro,18 e noi l'accettiamo nel senso che, nonostante la loro ansia di ricerca formale, o forse proprio per questo, agli «scapigliati», almeno in poesia, mancò l'intuizione di una nuova realtà storica e politica che si era andata costituendo, e restarono pertanto sempre prigionieri inappagati delle loro stesse ansie idealistiche verso l'arte nuova (romantico, in questo senso, non fu più Zanella, non fu più Guerrini: anche se Zanella poteva parere allora l'indice di una poesia vecchia e scolastica).
E fu allora proprio il Carducci a opporsi a una facile confusione: che cioè la «Scapigliatura» fosse classificata sotto l'etichetta del realismo: il che avrebbe significato, fors'anche con l'intento di denigrarli, fare troppo onore a quei poeti. Varrà riportare le parole stesse del critico (la cui grandezza si rivela anche, ci pare, nella durata di quel ch'egli disse a proposito dei contemporanei): «Povero Praga, realista lui? lui inzuppato, anzi ammalato, d'idealismo? lui che d'idealismo morì? Realista lui? coi languori delle fantasticherie, con la vaporosità della linea, con la indeterminazione della espressione, con l'astrattezza e la stranezza bizzarra e senza scopo delle metafore . . . L'originalità del Praga! Sì certo, il Praga ebbe una originalità, ma non quella che dite voi. Avete letto Vittore Hugo, il Heine, il Baudelaire? Ma quello che voi nelle poesie del Praga proclamate di più era già nell'Hugo, nel Heine, nel Baudelaire» (ivi, pp. 250-1).
E proprio da quest'ultima indicazione si potrà desumere che la poesia del Praga ebbe importanza soprattutto per l'azione di rinnovamento del gusto che essa esercitò e come veicolo di tanta poesia straniera; sicché per questo titolo e per il suo primato cronologico egli resta il maggiore fra gli «scapigliati». A proposito dei quali si potrà ormai stabilire una rosa abbastanza sicura, sul piano dell'esemplificazione, nei nomi di Tarchetti, Boito, Camerana: anche se naturalmente la «Scapigliatura» fu più un momento della poesia italiana che non una scuola esattamente definibile. Ma Praga, Boito, Camerana furono tutti uniti dal vincolo di un ambiente comune e per questo consentono anche un discorso comune: quanto si è detto di Praga può essere in parte esteso agli altri due poeti.
Il Boito apparve al Croce come l'unico vero romantico italiano; ma per noi il suo ricorrente dualismo non dovrebbe essere tanto inteso come la testimonianza di un romanticismo esasperato, quanto come il pretesto a un'esasperazione verbale: l'opportunità, per un moderno e raffinatissimo retore, di variare all'infinito un tema sfaccettandolo nei suoi due ricorrenti momenti dialettici: Mefistofele e i cori angelici.
Da parte sua Camerana, che fu legato alla «Scapigliatura» (come del resto Praga) anche in nome dei suoi interessi per le arti figurative, avvia decisamente la poetica della scuola comune a uno sfocio immaginifico e dannunziano: il rapsodismo verbale del Boito era stato già buon inizio. D'altronde con Camerana si chiude il bilancio della «Scapigliatura» poetica nel senso, a nostro parere, più logico: in quanto il realismo della «Scapigliatura» era sempre rimasto vincolato a una polemica letteraria che, come tale, restava aperta a ogni possibilità di gioco sperimentale. Nata come movimento antiborghese, la «Scapigliatura» aveva inaugurato un realismo, se così si può dire, aristocratico: anzi, proprio nel segno dell'aristocrazia si dovrà riconoscere il carattere più tipico della «Scapigliatura»; e Camerana fu il più aristocratico di tutti gli «scapigliati».
VII
Con Camerana siamo già al Novecento; ma ci sono altri poeti che, sullo scorcio dell'Ottocento, indipendentemente dall'ambito della « Scapigliatura», d'altronde piuttosto ristretto, convergono naturalmente al nuovo secolo: nel senso che in essi sta maturando una sensibilità che, oltre ad essere ormai lontanissima dal clima parenetico della prima poesia ottocentesca, è quasi altrettanto lontana dalle grandi idealità borghesi della poesia pratiana. Il Betteloni, che era di temperamento un bohémien e uno «scapigliato», rispetto agli esiti della poesia resta forse il più lontano dalla « Scapigliatura » : ha in comune con essa la determinazione a romperla con le forme tradizionali, ma le sue forze proprie erano capaci di portarlo più oltre : almeno il primo Betteloni, quello di In primavera, col suo naturalismo gaio, spoglio di ogni metafisica: come nella narrativa naturalistica non accadde mai.
Quello del Betteloni fu veramente il caso poetico più nuovo nella seconda metà del secolo. Le prime sue cose avrebbero potuto determinare una svolta del gusto : sono famosi i versi, spesso citati a titolo di scandalo :
. . . Si stava assai benino
un tempo a la Regina:
buona cucina,
ottimo vino . . .
Evidentemente, accanto a un realismo di sapore goliardico, c'era anche una chiara intenzione polemica antiborghese: anche qui il lievito primo era quello di Heine, ma adoperato in una maniera molto più esplicita e diciamo urtante di quanto non fosse quella del Carducci di Rime nuove.
Il Marradi, che rappresentava l'ala moderata del carduccianesimo, nel gusto appunto delle Rime nuove e nel segno di una più aperta cantabilità, si fece poi eco di un senso di disagio dell'opinione pubblica di fronte alla polemica betteloniana: «l'arte ha i suoi diritti e le sue giuste esigenze: e l'arte del verso non si può abbassare alle umiltà della prosa senza cader nel volgare. E poi, se si scrive in versi, è segno che il linguaggio ordinario non ci basta ad esprimere certi sentimenti, e che abbiamo bisogno d'una lingua più immaginosa e più ricca; ora, se l'arte del verso ha da essere uno sforzo continuo per annientare se stessa e per emulare il linguaggio comune di tutti i giorni e di tutte le ore, ma scriviamo in prosa, nel nome di Dio, e almeno risparmieremo un tempo prezioso e non faremo una stonatura!»19
E quelli che erano i sospetti del Marradi verso la prosasticità della poesia dell'ultimo Ottocento, sarebbero stati poi di molta parte della critica ufficiale italiana, dal Croce al Citanna, al Momigliano. Il Momigliano scriveva appunto del Betteloni che egli «scivolò nella poesia alla carlona, veramente prosastica».20 In realtà la diffidenza verso una poesia «prosastica» e la preferenza per una poesia prima di tutto «poetica» rivelano in ultima analisi un'impostazione dogmatica del fatto espressivo, ancorata a quella che potremmo chiamare una retorica di classe : la compiacenza borghese per la poesia che «alquanto surga». E la polemica del Betteloni, se si vuole cogliere il senso più positivo di quella prosasticità, deve appunto essere ricondotta al momento storico in cui tale poesia fu espressa. Di contro al formalismo dell'Aleardi, alla sua poetica della perenne trasfigurazione, l'esempio del Betteloni assumeva un preciso significato di opposizione dialettica; ma più forse ancora quell'esempio avrebbe potuto agire come il memento di una possibile soluzione diversa, quando il Carducci delle Odi barbare segnò alla poesia italiana la strada di una più nobile Calliope. In Nuovi versi, del 1880, il Betteloni resisteva ancora: basti pensare a quel saggio importantissimo di poesia intimista che è la raccoltina Piccolo mondo, se non che il realismo combattivo del Canzoniere dei ventanni si volgeva ad armonie in grigio di dichiarato sapore crepuscolare. In tal senso il Betteloni fu, ante litteram, il Francis Jammes italiano. Non era ancora, come sarebbe stato più tardi in Crisantemi, uno scrittore pentito delle intemperanze e degli ardimenti giovanili e, tutto sommato, un poeta involuto che non era riuscito a mantenersi alla pari di se stesso. Anzi, il Betteloni di Nuovi versi guadagna di molto nel senso dell'approfondimento sentimentale. La raccolta In primavera era troppo legata a una stagione goliardica per poter durare, come un preciso impegno di poetica, oltre il termine stesso della giovinezza. Ma se c'era un acquisto d'intimità, tanto minore era la possibilità di penetrazione, con la forza stessa dello scandalo, nel fronte tradizionale della poesia italiana.
D'altronde quella che poteva essere un'opportuna opposizione dialettica tra il Carducci e il Betteloni (la prosa familiare contro il Parnasse) in realtà restò sempre allo stato larvale: il Betteloni che aveva sempre ostentato una suprema indifferenza (e diciamo pure incomprensione) verso i geni tutelari dei suoi anni giovanili, il Prati e l'Aleardi (l'Aleardi, si ricordi, gli fu anche tutore, per disposizione testamentaria del padre), si dimostrò poi sensibile, più che non fosse lecito, alla lode del Carducci. Senza che quell'approvazione lo facesse mai diventare carducciano, gli tolse tuttavia il coraggio di una diretta polemica. Il Carducci vinse soprattutto cedendo le armi di fronte all'avversario e riconoscendone l'originalità poetica, e d'altra parte le troppo frequenti affermazioni filocarducciane del Betteloni prosatore21 non possono trovare altra spiegazione che in una sua fondamentale debolezza di carattere, nel desiderio di acquistarsi, nel nome di colui che poteva assicurarla - il Carducci - una posizione ufficiale. Questa piccolezza del carattere umano del Betteloni si rivelò sempre più con gli anni: per esempio nel suo dispetto per la caduta della destra storica e l'avvento della sinistra, oppure nelle acide e querule reazioni alle critiche altrui, come nella prefazione a Crisantemi.
D'altronde c'era nel Betteloni un'ambizione a costruire, a collocare la propria materia d'ispirazione entro strutture sempre più complesse, che in un certo senso contrastava, in altro senso si accordava con l'idea di una poesia discorsiva e familiare ; si accordava quando si pensi che il tono familiare del Betteloni si avviava di per sé a soluzioni di pacata narrazione, contrastava poi in quanto l'ispirazione del Betteloni, fatta per le piccole cose, era destinata a bruciarsi nel giro breve dell'impressione sentimentale. Si deve riconoscere tuttavia che già in Tragedia umile, che apparve in Nuovi versi, come in tutt'altro senso nei Racconti poetici, il Betteloni seppe andare oltre il respiro breve della sua fantasia giovanile, tanto da farci dubitare del giudizio comune, che cioè la sua arte descrivesse, cogli anni, una parabola di declino. Non certamente la sua poesia matura, ma piuttosto soltanto quella estrema di Crisantemi.
Al Betteloni si sono raccostati altri poeti : il Riccardi di Lantosca, il De Amicis, il Bettini. Il primo fu definito dal Pancrazi un «poeta in anticipo».22 Un anticipo appunto nel senso di quell'intimismo di linguaggio che fu anche del Betteloni, sicché da un romanticismo vaporoso e pratiano il Riccardi giunse gradualmente alla prosasticità, più che crepuscolare, di Pape Satan Aleppe. Poeti tutti, il Riccardi, il Betteloni, il Bettini (un po' meno il De Amicis), che in qualche modo dimostrano un margine di affinità colla poetica della « Scapigliatura », pur essendone restati fuori in effetti. In comune colla «Scapigliatura» hanno il carattere del prevalente formalismo della loro esperienza espressiva. Nonostante le loro esigenze innovatrici, tutti, più o meno, credevano nella purezza della poesia, o per meglio dire non avrebbero mai pensato di poterla condizionare a una funzione critica o politica: e in questo sta anche la loro natura di decadenti e di veri crepuscolari, nella misura cioè in cui rifiutavano gli ideali depauperati della poesia ufficiale per raccogliere la voce schietta delle povere cose. Quelli che saranno poi chiamati propriamente « crepuscolari », saranno in realtà la seconda leva della poesia crepuscolare che nella « Scapigliatura » o negli intimisti o in molti altri decadenti aveva trovato le sue indispensabili premesse.
VIII
Per la poesia ultima dell'Ottocento si potrà generalmente parlare di decadentismo, ma si capisce che il denominatore è troppo vasto per essere veramente utile ; e tuttavia sarà abbastanza precisabile quando si pensi a un comune abbandono all'irrazionale, a uno smagamento scettico successivo alla caduta dei sogni romantici. In tal senso l'esperienza decadentistica dell'ultima poesia italiana dell'Ottocento è più positiva di quanto si potrebbe pensare : è, in molti casi, il riconoscimento onesto di una situazione di fatto che s'identificava poi con la crisi di valori del periodo umbertino. Interessante, a questo proposito, l'esempio del Guerrini, poeta giambico e crepuscolare a un tempo. Né dovrà stupire il fatto che un poeta come il Carducci, garante della continuità ideale del Risorgimento nel nuovo assetto della monarchia sabauda, fosse nello stesso tempo l'assertore implicito di tanta poesia del disinganno, in quanto egli per primo ebbe coscienza, vivendole, delle contraddizioni che erano alla base della nuova società italiana.
Ma l'esempio del Carducci si protrasse soprattutto nel segno della forma e in quello di una cultura europea della quale, nell'età matura, egli fu uno dei più grandi assertori e interpreti; e appunto in nome di questa cultura, che sarebbe approdata cogli anni ad una comune riva di parnassiana purezza, al Carducci, nonostante l'opposizione iniziale delle rispettive poetiche, si potrà raccostare il Nencioni: in grazia insomma dei loro punti di arrivo, più che nel segno di quella loro amicizia giovanile, tutt'altro che pacifica e concorde, che vide il Nencioni, già europeo, schierato contro il Carducci ancora «paesano».
Al Carducci possono essere invece ricondotte immediatamente le esperienze del Marradi e del Ferrari, dei quali il primo portò ai più coerenti sviluppi borghesi il tono delle Rime nuove, il secondo, in una direzione tutta recondita, sviluppò invece non già il carattere naif della poesia carducciana, bensì quello più riflesso e, per molti aspetti purtroppo, da professore di poesia più che da poeta, sicché giustamente il Croce disse che del Carducci il Ferrari imitò «per così dire, anche il fare imitativo» (op. cit., II, p. 283). Ciononostante la funzione storica del Ferrari, un tipico poeta minore, è tuttavia più significativa di quella, ad esempio, di un Panzacchi, rapsodo eclettico, dotato talora di una voce propria e di un'acuta risonanza sentimentale, che non imprime tuttavia - per la naturale repugnanza del poeta a impegnarsi e a compromettersi - nessuna direzione nuova di sviluppo alla poesia contemporanea, pur anticipando colori e costumi dannunziani. Il Ferrari, invece, deve essere considerato il necessario anello di congiunzione tra la poetica del Carducci e quella del Pascoli.
IX
Legata pertanto da ragioni profonde all'esempio del Carducci fu anche la schiera degli altri « decadenti », anche se spesso non ebbero col Carducci nessun rapporto di discepolato e anzi talora si attestarono su un fronte opposto continuando l'irregolarità « scapigliata ».
Se anche una funzione precisa nel quadro contemporaneo non ebbe Remigio Zena, la cui opera restò quasi del tutto ignorata, certamente la sua è una delle figure più interessanti dell'ultimo Ottocento: più che un poeta da ricondurre alla «Scapigliatura», con la quale tuttavia ebbe rapporti, Zena fu, nella disponibilità assoluta del suo virtuosismo, un poeta dell'avvenire. Il poeta appunto che portò forse alle conseguenze necessarie certe premesse del tecnicismo decadente della « Scapigliatura», le quali avrebbero avuto il loro epilogo nel futurismo; e tutto questo attraverso quel gioco espressivo-analogico che nella sua poesia si va facendo sempre più serrato.
Certamente personalità minori quelle delle poetesse, anche se l'Aganoor ha avuto ed ha un suo pubblico di estimatori. Il suo eclettismo e il suo embrionale « novecentismo » non seppero prestare alla sua voce che un'inflessione di ansia accorata e squisitamente melodica. Mentre, contro all'opinione comune, crediamo che la completa passività della Contessa Lara di fronte al proprio tempo, l'averlo sofferto nei suoi aspetti anche più esterni con una così assoluta adesione, assicurino in lei una forza di documento certamente unica; e quell'amore morboso per il mondo predannunziano che la circondava è anche oggi la ragione più struggente della sua poesia. D'Annunzio, col Piacere, elevò quel mondo a codice di vita: nella Contessa Lara esso è ancora semplicemente vita, sia pure con un margine ampio di ambiguità.
Quattro poeti infine, il Graf, il Salvadori, Io Gnoli, il De Bosis, che sono tutti nel pieno della vicenda decadentistica. Il primo specialmente meriterebbe un discorso a parte, molto disteso, che entrasse nel vivo della poesia del Novecento, ripercorrendo l'arco di esperienza che fu dello stesso Graf, dal decadentismo francese del Parnasse, crediamo noi (più che dal romanticismo tedesco), fino a un linguaggio spoglio di ogni scoria tradizionale, sul quale ben poteva innestarsi la disadorna prosasticità di certa poesia crepuscolare del Novecento. E poi Graf è un poeta che per la complessità del suo svolgimento, così ferreamente conseguente e così legato a un carattere, potrebbe stare accanto al Pascoli, come un caso parallelo nella storia del decadentismo italiano. Mentre il Salvadori, convertitosi dal fronte del darwinismo a quello dell'intransigenza cattolica, documenta quel processo di reazione a una cultura «positiva», quell'appello all'irrazionale (e pertanto un appello decadentistico) che ebbe poi in Giuliotti o in Papini i suoi esponenti più cospicui.
L'ultimo poeta dell'Ottocento fu Domenico Gnoli. Era passato attraverso esperienze diverse: dalla «scuola romana» al Carducci delle Odi barbare ; ma sotto la larva di Giulio Orsini entrava nel Novecento, proclamando la rottura colla tradizione :
Giace anemica la Musa
sul giaciglio de' vecchi metri:
a noi, giovani, apriamo i vetri,
rinnoviamo l'aria chiusa . . .
L'Ottocento era ormai concluso. L'aria «pura» che il Novecento portava con sé significava molte cose. E d'altronde, come tutte le cose pure, quell'aria rischiava di essere depauperata di spore seminali. Il pascoliano lirismo del dolore dava l'intonazione alla poesia del nuovo secolo, di contro alla polemica e alla forza critica d'intervento del pessimismo leopardiano.
Il De Bosis è già un poeta del Novecento, anche se le sue radici, per il tramite del Nencioni, affondano in una cultura europea ottocentesca. Da Shelley e da Whitman il suo fuoco estetico anima un'ispirazione che non è più ottocentesca (dell'Ottocento resta solo l'istanza umanitaria), ma s'intona a quella aristocrazia delle lettere che ha distinto gran parte del nostro secolo.
*
Questo primo tomo è dedicato alla «lirica» nell'Ottocento. Si capisce che la nostra scelta non può andare esente da almeno parziali contraddizioni: si pensi per esempio al Berchet, che è assai lontano dalla linea tradizionale della «lirica» italiana; ma il fatto che egli sia altrettanto lontano dai poeti narratori o novellatori a lui contemporanei e che « le sue persone poetiche non diventino mai drammatiche, appunto perché non hanno forza di espansione, e rimangono liriche»,23 ci ha persuasi che la sua collocazione più adatta sia in questo anziché nel secondo tomo della nostra raccolta. Abbiamo escluso, invece, i poeti classicisti del primo Ottocento, la cui formazione è da riportare essenzialmente al secolo XVIII.
Dell'ordinamento da noi seguito riteniamo di aver dato sufficiente ragione nelle pagine precedenti, che sono appunto suddivise secondo i raggruppamenti interni della nostra raccolta. Crediamo perciò superfluo avvertire qui che esso non è basato su un criterio puramente cronologico, ma essenzialmente su motivi di comunanza culturale e storica.
Abbiamo chiara coscienza di certe omissioni, lamentabili forse in sé e tuttavia imposte dall'economia del nostro lavoro. Ma il criterio nostro è stato quello di ritrarre adeguatamente ciascuno dei poeti qui accolti, anziché abbondare nelle presenze e dover poi costringere ogni poeta entro termini troppo angusti o, comunque, insufficienti a darne la genuina fisionomia.
Il secondo tomo sarà dedicato alla produzione poetica dell'Ottocento che si discosta dalla linea tradizionale della « lirica », e si articolerà intorno a questi nuclei fondamentali : poesia satirica e giocosa, con un'antologia particolarmente ampia del Giusti; novelle in versi e canti epici; poesia sacra, canti popolari e poesia del popolo (stornelli, canzonette ecc.) ; traduzioni da poeti stranieri. Talché alcuni autori già presenti in questo primo tomo appariranno anche nel secondo: ogni qualvolta siasi creduto opportuno inserire la loro particolare opera nel quadro generale della cultura del tempo e in una misura di comuni esperienze letterarie.
1 Il romanticismo nel inondo latino, Torino, Bocca, 1927, II, p. 132.
2 Tale poesia può essere agevolmente documentata in antologie apposite: si vedano, per esempio, i due abbondanti volumi dei Canti della patria, a cura di A. Bini e G. Patini, dei quali il secondo raccoglie la poesia risorgimentale (Milano, Sonzogno, s. d., ma 1916).
3 Saggi sulla forma poetica italiana dell'Ottocento, Bari, Laterza, 1929, p. 35.
4 La letteratura italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza, 1953, II, p. 399
5 Scritti di Giovita Scalvini, a cura di N. Tommaseo, Firenze, Le Monnier, 1860, p. x.
6 La letteratura italiana nel secolo XIX, cit., I, pp. 3 sgg.
7 La letteratura della nuova Italia, I, Bari, Laterza, 1914, p. 25.
8 Cfr. U. Bosco, Aspetti del romanticismo italiano, Roma, Cremonese, 1942, p. 96: «uno dei nostri maggiori il Prati, forse il maggiore romantico nostro ».
9 Da Versi editi ed inediti, Firenze, Le Monnier, 1858, 1, p. 413.
10 Ivi, p. 421.
11 Enrico Nencioni, che fu critico di fine cultura europea, precisò meglio alcuni termini della cultura del Prati: «sembra riecheggiar talvolta ai lieder tedeschi quando canta d'amore; e nelle Ballate ricorda un po' il vaporoso e l'indefinito di alcune ballate di Uhland, di Tieck, e di Novalis. Ma una squisita musica meridionale accompagna le sue nordiche fantasie»; e a proposito di Psiche aggiungeva: «Alcuni di questi sonetti ricordano i poeti laghisti: e sarebbe uno studio curioso paragonare certi sonetti di Psiche con alcuni sonetti di Wordsworth » (Saggi critici di letteratura italiana, Firenze, Le Monnier, 1911, pp. 309-15)
12 Canti di Aleardo Aleardi, Firenze, Barbèra, 1882, pp. XVIII-XIX.
13 Cfr. D. Ciampoli, «Plagi aleardiani», in Nuovi studi letterari e bibliografici, Rocca S. Casciano, Cappelli, 1900, pp. 357-77.
14 Il brano è riferito dal Calcaterra a pp. 73-4 dei suoi Studi critici, Asti, Paglieri, 1911, a proposito della poesia di Domenico Gnoli.
15 Abbiamo qui presente l'edizione: Poesie, Firenze, Le Monnier, 1877. Nella edizione definitiva la lirica (La divina Provvidenza) non compare più.
16 La letteratura della nuova Italia, II, Bari, Laterza, 1914, p. 138.
17 Cfr. G. Ferrata, Parabola della «Scapigliatura», in «Primato», II (1941), fase. 17-19.
18 In Opere, Ed. naz. Zanichelli, xxiii, pp. 235-67; cfr. p. 251.
19 G. Marradi, Prose, Firenze, Carpigiani e Zipoli, 1923, p. 69.
20 A. Momigliano, Introduzione ai poeti, Roma, Tumminelli, 1946, p. 227.
21 Per i giudizi del Betteloni su Prati, Aleardi, Carducci, come in genere su poeti e fatti letterari dell'Ottocento, si vedano le sue Impressioni critiche e ricordi autobiografici, oggi in Opere complete, m, Verona, Mondadori, 1948: ma si tratta sempre di giudizi che non hanno nessuna vera impostazione critica.
22 Scrittori d'oggi, serie in, Bari, Laterza, 1946, p. 205.
23 F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX, II, cit., p. 454.