poetica
Dal lat. (ars) poetica, gr. ποιητική (τέχνη). Disciplina che ha per oggetto l’arte poetica, di cui si occupa sotto un profilo prevalentemente teorico, eventualmente anche da un punto di vista descrittivo-sistematico, storico-funzionale, ecc., non però al fine principale di fornire determinate norme preferenziali per la produzione poetica (che pure possono essere, implicitamente o esplicitamente, presenti; o che addirittura non possono non essere in qualche modo presenti). Alla p. non spetta di stabilire i requisiti della poesia buona o corretta (compito che pure, come si è detto, può essere accennato qua e là, o semplicemente presupposto come condizione preliminare per l’esistenza di una p. teorica). Essa mira piuttosto a esplicitare le condizioni logiche e tecniche della poesia, a rispondere cioè alle seguenti domande: che cos’è la poesia? che cos’è il discorso poetico e come si distingue, per es., dal discorso scientifico o comune? qual è il rapporto tra poesia e conoscenza? quali sono i principi generali che presiedono alla produzione poetica? qual è la logica interna della poesia? quali i suoi possibili modi di realizzazione? Questi sono appunto i compiti primari della p. aristotelica, di talune p. posteriori, nonché di quella moderna disciplina che va di nuovo sotto il nome di p., in parziale opposizione all’estetica ottocentesca di tipo troppo speculativo. Inoltre la p. può occuparsi, come per es. in Aristotele, in modo più o meno sistematico del problema dei generi della poesia, della sua origine, del suo svolgimento, della sua funzione psicologica e culturale.
Una nuova e più ampia riflessione sul concetto di p. nasce dal costituirsi del campo semantico relativo al termine letteratura come estensione e riorganizzazione del campo di ‘poesia’, tale da includere anche opere che non sono poetiche in senso stretto (non sono, per es., scritte ‘in versi’) e nelle quali sarebbe tuttavia dominante o codominante la funzione poetica del linguaggio: essa è incentrata sul messaggio come tale; è l’idea della poesia come un testo che richiama anzitutto l’attenzione su sé stesso, sul modo in cui è costruito, sull’organizzazione del verso e del periodo, sul carattere specifico, insomma, del suo significare. Va notato che il termine letteratura è in tal senso tutt’altro che pacifico, in quanto può riferirsi a qualsiasi testo scritto o solo a certi testi, con esclusione di altri, secondo criteri che dipendono dalle concrete condizioni storico-culturali in cui opera via via il classificatore (non escluse condizioni di gusto personale, psicologiche, e così via). Da questo punto di vista è addirittura impossibile una definizione univoca dell’oggetto della p., e di fatto accade ancora oggi che le cosiddette storie della letteratura si occupino di testi ritenuti e definiti letterari secondo un criterio materiale, accolto tale e quale da una determinata tradizione storica (poesia, novella, romanzo, ecc.), e facciano un qualche posto ad altri testi estremamente eterogenei e non letterari nello stesso senso dei primi (cronache, trattatistica, la cosiddetta prosa scientifica, ecc.). Ma ciò che costituisce un problema difficilmente risolvibile per la storia della letteratura, in quanto a essa si richieda di distinguere i testi letterari dai non letterari, può forse porsi in modo sensibilmente diverso per la p., il cui oggetto non sono tanto certi testi materiali, quanto piuttosto certi loro aspetti formali che possono essere adeguatamente esemplificati da molti altri testi, letterari o non, da un punto di vista materiale. Compito della p. è allora quello di analizzare certe costanti formali dei testi scritti, che non siano necessariamente presenti in qualsiasi manifestazione verbale, orale o scritta (di ciò, per es., della struttura fonematica o grammaticale di una lingua, si occupa più in generale la linguistica), che si presentino come regole ulteriori per la composizione di un discorso o di un testo, e la cui dominanza possa dar luogo a ciò che materialmente e storicamente chiamiamo ‘poesia’ o, più in generale, ‘letteratura’. Si tratta di regole restrittive per la combinazione delle unità linguistiche in una sequenza (per es., schemi metrici, rime, allitterazioni, ecc.), di modelli narrativi, di categorie della narrazione (correlate o no con categorie linguistiche: per es., la categoria dell’interessato all’azione, che può essere specificata in un ‘soggetto’, nello stesso tempo come soggetto grammaticale e come soggetto-personaggio), di particolari modi della significazione (per es., secondo la bipartizione generalissima metafora/metonimia), ecc. Anche se dalle numerose applicazioni di tali regole si otterranno classificazioni assai diverse, sembra che possano restare fermi nello stesso tempo la nozione di p., la sua definizione come disciplina teorica, i suoi metodi e i suoi strumenti. Sembra cioè che possa restare in ogni caso valido il suo oggetto, non toccato dal variare della percezione, storicamente e culturalmente determinata, del ruolo dominante o non dominante delle costanti formali studiate dalla poetica. È noto del resto che ciò che viene prodotto secondo una intenzionalità non estetica può essere percepito, in condizioni culturali e storiche diverse, come estetico (per es., composizioni mitologiche o religiose appartenenti a culture cosiddette primitive, o le stesse fiabe della tradizione folclorica, possono essere percepite a distanza di tempo come ‘poetiche’ o ‘letterarie’), e viceversa. Una definizione possibile di p., un po’ più precisa rispetto a quella già fornita, può essere dunque la seguente: la p. è la teoria delle scelte possibili che si offrono all’autore di un testo, tali che entro i loro confini deve comunque realizzarsi il testo stesso, e in partic. un testo letterario (sottoposto cioè a certe restrizioni in quanto percepite come dominanti), buono o cattivo che sia (ciò significa che una p., in quanto teoria, non può essere né ‘realistica’, né ‘formalistica’, per riprendere qui un’opposizione approssimativa ma abbastanza corrente). Naturalmente tale definizione non suppone senz’altro che sia possibile formulare una p. come teoria completa, che dia la garanzia di aver tenuto conto di tutte le scelte possibili. Ciò tuttavia non costituisce propriamente una difficoltà, dal momento che si potrebbe sempre riformulare una p. teorica più adeguata.
Il termine p. risale al titolo dell’opera di Aristotele Περὶ ποιητικῆς, dove si esamina il problema della poesia (in partic. della sola poesia tragica, dato che quel testo è giunto incompiuto), la sua origine, la sua funzione, la sua specificità (rispetto al discorso volto alla verità, cioè rispetto alla scienza), nonché le sue suddivisioni in generi e le categorie formali di realizzazione, la categoria del ‘verosimile’ e delle funzioni logiche delle figure. È qui che la p. acquista per la prima volta il suo statuto teorico, sebbene non manchino nello scritto aristotelico spunti normativi che avranno maggiori sviluppi soprattutto nel posteriore aristotelismo. Ma il pensiero antico non sembra conoscere sufficientemente la p. aristotelica: e tale contributo teorico sarà perso di vista o quanto meno occultato dietro interessi e formulazioni più nettamente normativi (per es., nella stessa epistola di Orazio nota come Ars poëtica). Si perde così in gran parte il senso logico ed epistemologico della nozione di ‘verosimile’, che individua una speciale ‘logica dell’opinione’ (sviluppata in partic. da Aristotele nella Retorica), ed esso è certo frainteso o tradito, o quanto meno minimizzato, dalla formula oraziana dell’ut pictura poësis.
La traduzione in latino e la nuova grande diffusione della Poetica aristotelica tra la fine del sec. 15° e la metà del secolo successivo permette un notevole recupero di quelle istanze teoriche: assistiamo infatti a una fioritura di commenti al testo aristotelico (che vanno comunemente sotto il nome di p. del Cinquecento) in cui si discute appunto la nozione di ‘verosimile’, il problema del rapporto tra ‘storia’ e ‘poesia’, e così via. Sotto il nome di p. vanno spesso anche opere di ispirazione diversa (alla loro origine può essere posto lo stimolo potente esercitato dal trattato Sul sublime, riscoperto e pubblicato da F. Robortello a Basilea nel 1554), opere di p. di ispirazione platonica e le cosiddette p. del barocco, prodotte nella seconda metà del sec. 16° e nel 17° e che talvolta ebbero anche esplicitamente il titolo di poetiche. In senso strettamente teorico, tuttavia, il termine p. non ebbe mai una sanzione terminologica molto forte (a livello di titolo istituzionale di una disciplina e dei testi in cui essa si realizza), pur essendo largamente diffuso nell’uso linguistico specialistico, e a esso si preferirono più spesso termini e titoli diversi: e tuttavia esso (come P. o Arte poetica) fu pure usato, e non solo nell’opera famosa di N. Boileau (per es., da T. Sébillet, da G. Batista). La scarsa istituzionalità del termine p., nel senso appena specificato, fu comunque spazzata via dall’introduzione del termine estetica (il primo a usarlo, nel senso di «dottrina della poesia o dell’arte in generale», fu Baumgarten verso la metà del sec. 18°), che presentava il vantaggio di riferirsi non soltanto alla poesia, ma alle arti belle in generale, e perfino al cosiddetto bello di natura. Il sec. 19° usa quasi sistematicamente tale nuovo termine, e la p. passa via via a designare una trattatistica di tipo scolastico (normativa, ma con la pretesa di essere nello stesso tempo teorica), come insieme di regole e di precetti per il ‘bello scrivere’. Tale differenziazione funzionale dei due termini (estetica e p.) ha la sua sanzione radicale nel pensiero di Croce, per il quale «estetica» designa la teoria filosofica (e quindi l’unica teoria vera e propria) dell’arte come espressione e linguaggio, e «p.» indica invece una disciplina (pratica e non teorica) volta alla determinazione di concetti empirici («pseudoconcetti») riguardanti l’arte, con una funzione meramente economica e classificatoria, al fine di agevolare l’orientamento del critico e dello storiografo nello sterminato terreno delle opere d’arte. Tale atteggiamento non fu solo di Croce, e ciò spiega il correlativo e inverso piegarsi del significato di p. a norma interna, non generalizzabile, dell’opera singola del singolo autore, come qualcosa che nasce da un’intuizione irripetibile e da sentimenti non schematizzabili dell’artista stesso: una norma sui generis, dunque, che riflette l’idea che l’opera d’arte sia esclusivamente «misura di sé stessa» (Croce). E con ciò si trasporta nella p. stessa quell’accezione di valore che è stata attribuita alla stessa poesia (➔) e all’arte in generale. A Croce veniva obiettato nello stesso ambiente neoidealistico, da parte di Gentile, che gli pseudoconcetti, pur nella loro empiricità, sono invece proprio concetti, e che, per es., i cosiddetti generi letterari non sono distinzioni meramente pratiche, ma effettive determinazioni conoscitive, momenti interni della stessa attività creativa artistica. In tutt’altro ambiente, il termine p. veniva intanto ripreso con successo proprio nell’antico senso teorico (e tecnico), che già aveva avuto nella Poetica aristotelica, nell’ambiente dei cosiddetti formalisti russi operanti negli anni Dieci e Venti del sec. 20°. Con essi (tra i quali: R.O. Jakobson, O.M. Brik, B.M. Ejchenbaum, V.B. Šklovskij e Ju.N. Tynjanov) il termine p. si istituzionalizza in modo assai forte; ma è opportuno precisare che, nello stesso ambiente culturale, qualcosa del genere era già accaduto con A.A. Potebnja, e che il termine p. era stato già usato, tra l’Ottocento e il Novecento, da A.N. Veselovskij in senso analogo. Con il successivo strutturalismo praghese e poi con l’attività europea e americana di Jakobson (dalla fine degli anni Trenta del sec. 20° in poi), il termine p. guadagna terreno e si è ormai imposto come nome di una disciplina teorica, il cui oggetto è la poesia e la letteratura. Ma va osservato che esistono equivalenti, più o meno stretti, del termine p., come, per es., «teoria della letteratura» e «stilistica» (quest’ultimo ormai in declino), che hanno avuto maggiore fortuna in certe aree culturali (Stati Uniti, Germania). La moderna p., proprio per il suo prevalente carattere teorico, ha via via acquistato sempre più carattere formale: essa non si occupa tanto delle opere poetiche e letterarie, quanto delle componenti formali che sono dominanti in esse e presenti in molti altri testi verbali non letterari. Essa è appunto la disciplina delle condizioni opzionali, che ammettono alternative di realizzazione, vale a dire delle ‘scelte’, a differenza della linguistica come disciplina delle condizioni necessarie, da cui non può prescindere qualsiasi manifestazione linguistica. Con ciò la p. allarga il proprio campo applicativo in modo sostanziale (vale a dire che qualsiasi testo, anche il più comune, presenta inevitabilmente soluzioni opzionali, e può quindi essere esempio adeguato di una considerazione teorica dal punto di vista della p.), perdendo nello stesso tempo ogni residuo carattere normativo esplicito e tentando di darsi uno statuto epistemologico rigoroso, tutt’altro che privo di rapporti con presupposti filosofici espliciti o impliciti, più o meno forti (per es., come nel caso di Jakobson e J. Mukařovský, di M.M. Bacthin e Ju.M. Lotman).