BRACCIOLINI, Poggio
Nacque a Terranova nel Valdarno superiore l'11 febbraio 1380. Recatosi a Firenze verso la fine del secolo per attendere agli studî del notariato, vi conobbe Coluccio Salutati, che gli fu largo di consigli e d'aiuti, e si valse di lui come di un ottimo copista. Nel 1403 andò a Roma e, forse quell'anno stesso, ebbe da Bonifacio IX l'ufficio di scrittore apostolico. Nell'agitato decennio che precedette il concilio di Costanza, Poggio seguì la curia dei papi legittimi, e con quella di Giovanni XXIII, andò a Costanza nell'ottobre del 1414. Ma che importavano a lui le dispute teologiche e canonistiche del concilio? Dalle biblioteche dei monasteri d'Oltralpe sentiva giungere al suo cuore la voce degli antichi padri imploranti la liberazione dalla loro secolare prigionia (Epist.,1, 5). Già dianzi aveva scoperto nell'abbazia di Cluny due orazioni sconosciute di Cicerone. Ora, tra il giugno e il luglio 1416, Poggio riesce, insieme con Cencio de' Rustici e Bartolomeo Aragazzi da Montepulciano, a trar fuori dal monastero di San Gallo, non lungi da Costanza, un esemplare compiuto - prima non se ne erano avuti se non di lacunosi - della Institutio oratoria di Quintiliano, i tre primi libri e mezzo il quarto degli Argonautica dl Valerio Flacco, il commento di Asconio Pediano ad alcune orazioni di Cicerone; e nel gennaio del 1417 il B. e Bartolomeo da Montepulciano trovano il De re rustica di Columella, le Selve di Stazio, l'Astronomicon di Manilio, le Puniche di Silio Italico. Una terza spedizione, che Poggio intraprese da solo nella primavera del 1417, fruttò la Storia di Ammiano Marcellino, il De rerum natura di Lucrezio, Apicio e altre scritture di minor conto. Infine, nell'estate di quell'anno, viaggiando in Francia e in Germania, egli scoperse altre otto orazioni ciceroniane.
Dopo l'elezione di Martino V, Poggio, sdegnato di vedere preferiti a sé altri men degni per la carica di segretario apostolico, si risolse, verso la fine del 1418, a recarsi in Inghilterra, accogliendo l'invito del card. Enrico Beaufort. In Inghilterra passò tristamente circa quattro anni, finché, al principio del 1423, tornò a Roma e poco di poi rientrò nella curia con l'ambito ufficio di segretario apostolico. Allora ritrovò sé stesso, e fu ripreso in pieno dalla febbre delle ricerche, per la quale metteva a profitto la sua carica nella curia, talvolta rasentando i confini d'una tal quale letteraria simonia.
Temperamento sensuale, fece per molti anni vita di libertino, e da una Lucia Pannelli ebbe tre figli; ma nel gennaio del 1436 prese in moglie la diciottenne Vaggia de' Buondelmonti, bella, buona e devota al marito. Nel 1453 abbandonò per sempre la curia, e accettò l'ufficio di cancelliere, offertogli dalla Repubblica fiorentina. Morì il 30 ottobre 1459 quando già da forse un anno, abbandonato ogni ufficio, si era ritirato nella quiete d'una sua villa.
Spirito ironico, Poggio univa la naturale tendenza alla gaiezza e al motteggio con una certa acrimonia o malignità di giudizio, talché il suo scherzo, bonario nel riprendere le debolezze degli amici, assumeva toni acutamente sarcastici quando gli accadeva di dover rintuzzare orgoglio e prepotenza di avversarî. Non ebbe anima profonda di pensatore; ma, più di qualsiasi altro umanista della prima metà del secolo, vere e grandi attitudini di artista: vivace il sentimento, alacre e pronta all'espressione pittoresca ed arguta la fantasia, alieno da ogni atteggiamento pedantesco il pensiero. Non scrisse un verso; ma lettere in prosa latina stupende d'arte senza artificio e senza ossessione di regole, e dialoghi non debolmente effigiatori dei caratteri dei personaggi e agilmente espositivi di dottrine ben assimilate e di aneddoti raccolti dal moderno e dall'antico. Non soltanto i libri, ma anche i ruderi antichi gli parlavano dell'antica grandezza e gli mormoravano rimproveri alla decadenza e alla barbarie moderne; ricercò quindi e studiò i templi, i teatri, gli acquedotti, gli archi cadenti, e ne raccolse le iscrizioni in una silloge giunta a noi in due copie dell'autografo poggiano. Il paganesimo dei suoi classici non turbò punto la sua fede di cristiano; ma anche in lui si attenuò l'ardore religioso dell'uomo medievale in una convivenza di dottrine non sempre rigorosamente conciliabili.
Importanti su tutte le altre opere del B. sono i Dialoghi. Il primo ch'egli compose è il De avaritia (1428-29), un po' disuguale ma fiorito d'aneddoti e quasi tutto libero da seccaggini di citazioni e di dottrina. Nel De nobilitate (1440) è introdotto il Niccoli a mostrare con argomenti non solo teorici, ma anche desunti dalla realtà della vita storica, essere la nobiltà, non privilegio di nascita, ma creazione delle anime nostre. Prolisso è il De infelicitate principum (1440). La più cospicua delle opere di Poggio, i quattro libri De varietate fortunae (1431-1448), ci interessa non pure per l'umanistica fiducia che l'anima, nell'energia dello spirito o stoicamente rassegnato alle vicende del caso o di esse gagliardo dominatore, ma per la rappresentazione delle rovine di Roma, con cui s'inizia e onde spira il senso triste della caducità delle cose umane, e per le figure vigorosamente sbozzate di signori e condottieri saliti dal nulla a grandi cose e poi di nuovo precipitati nel nulla. L'Historia tripartita disceptativa convivalis discute tre argomenti, futile il primo, storicamente importanti il secondo e il terzo. Fredda e prolissa è l'ultima opera moraleggiante del B., il De miseria humanae conditionis (1455); ma in essa non è del tutto scomparsa quella vena satirica che particolarmente copiosa ed amara scorre nel dialogo Contra hypocritas (1447-1448).
Oltre al Liber facetiarum (1438-1452), raccolta di aneddoti comici e satirici, parte tolti alla tradizione novellistica, parte attinti alla realtà quotidiana, e oltre all'epistolario - il migliore tra gli epistolarî umanistici -, ad orazioni, invettive, polemiche, il B. scrisse anche una Historia florentina, in cui narra le guerre dei Fiorentini dal 1350 alla pace di Lodi (1445), e tradusse la Ciropedia di Senofonte (1447). Le opere sono raccolte nelle edizioni di Strasburgo (1513) e di Basilea (1538); i quattro libri De varietate fortunae, editi da D. Giorgi, Parigi 1723; dell'epistolario curò la stampa T. Tonelli, Firenze 1832-1861, in 3 voll.
Bibl.: Shepherd, Vita di Poggio Bracciolini, tradotta da T. Tonelli con note e aggiunte, Firenze 1825; E. Walser, Poggius Florentinus, Leben und Werke, Lipsia-Berlino 1914; cfr. Giorn. storico della letter. ital., LXX (1917), pp. 312-317 e Berliner philol. Wochenschrift, XXXVII (1917), p. 15; R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV, I, Firenze 1905, pp. 76-84; M. Longhena, I manoscritti del IV libro del "De varietate fortunae", di P. Bracciolini, in Boll. della Soc. geogr. ital., s. 6ª, 1925, fascicoli 1-6.