Bracciolini, Poggio
Nato a Terranuova nel 1380, si formò tra Arezzo e Firenze, dove fu seguace di Coluccio Salutati; lavorò poi in curia e al servizio dei papi fino al 1415, quindi soggiornò a lungo tra Germania, Svizzera, Francia e Inghilterra. Rientrato in Italia, fu segretario apostolico dal 1423 al 1453, quando tornò a Firenze con la carica di cancelliere della Repubblica; ritiratosi nel 1458, morì l’anno successivo. La sua vasta produzione, interamente in latino, comprende trattati e dialoghi filosofico-morali, opere storiche, invettive, orazioni, una raccolta di Facetiae, un ricco e brillante epistolario. Di primaria importanza fu inoltre la sua attività di traduttore dal greco, nonché quella di copista e filologo, legata anche alle fondamentali scoperte di codici di autori classici da lui compiute a più riprese (in Francia, Svizzera, Germania e Italia).
In tutta l’opera di M., B. risulta citato una sola volta, nel proemio delle Istorie fiorentine (oltre ai luoghi della stessa opera in cui viene ricordato in quanto padre di Jacopo: VIII iv 15 e VIII v 14):
Lo animo mio era, quando al principio deliberai scrivere le cose fatte dentro e fuora dal popolo fiorentino, cominciare la narrazione mia dagli anni della cristiana religione 1434, nel quale tempo la famiglia de’ Medici, per i meriti di Cosimo e di Giovanni suo padre, prese più autorità che alcuna altra in Firenze; perché io mi pensavo che messer Lionardo d’Arezzo e messer Poggio, duoi eccellentissimi istorici, avessero narrate particularmente tutte le cose che da quel tempo in drieto erano seguite. Ma avendo io di poi diligentemente letto gli scritti loro, per vedere con quali ordini e modi nello scrivere procedevano (acciò che, imitando quegli, la istoria nostra fusse meglio dai leggenti approvata), ho trovato come nella descrizione delle guerre fatte da e Fiorentini con i principi e popoli forestieri sono stati diligentissimi, ma delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie, e delli effetti che da quelle sono nati, averne una parte al tutto taciuta e quell’altra in modo brevemente descritta, che ai leggenti non puote arrecare utile o piacere alcuno. Il che credo facessero, o perché parvono loro quelle azioni sì deboli che le giudicorono indegne d’essere mandate alla memoria delle lettere, o perché temessero di non offendere i discesi di coloro i quali, per quelle narrazioni, si avessero a calunniare. Le quali due cagioni (sia detto con loro pace) mi paiono al tutto indegne di uomini grandi: perché, se niuna cosa diletta o insegna, nella istoria, è quella che particularmente si descrive; se niuna lezione è utile a cittadini che governono le repubbliche, è quella che dimostra le cagioni degli odi e delle divisioni delle città, acciò che possino, con il pericolo d’altri diventati savi, mantenersi uniti (Istorie fiorentine, proemio 1-4).
Il passo è significativo per due ragioni. In primo luogo, pare strano che un M. più che cinquantenne (la stesura delle Istorie fu avviata alla fine del 1520) dichiari candidamente di non aver mai letto prima d’allora opere capitali – soprattutto per chi rivestiva la carica di storico ufficiale di Firenze – come le storie di Leonardo Bruni e di B., disponibili da tempo, fra l’altro, anche in diffusi volgarizzamenti a stampa; si è dunque supposto (Martelli 1990, pp. 240-42; cfr. anche F. Bausi, Machiavelli, 2005, p. 257) che il proemio risalga ad anni molto precedenti e sia nato come introduzione a un diverso progetto storiografico. In secondo luogo, la dura polemica contro i due maggiori storiografi fiorentini del secolo precedente è dettata dal prevalente interesse di M. per le lotte intestine che fin dal Medioevo avevano caratterizzato la storia cittadina e che Bruni e B. avevano trascurato, concentrandosi – anche per ragioni di opportunità – sulla politica estera; ciò si traduce nel recupero della tradizione medievale (soprattutto Dante e Dino Compagni) e di certa storiografia e trattatistica quattrocentesca non ‘umanistica’ (Giovanni Cavalcanti, Matteo Palmieri), dove le discordie cittadine erano viste nella stessa luce negativa in cui le inquadra il M. delle Istorie, ormai lontano dalla teoria, enunciata nei Discorsi a proposito dell’antica Roma, dei «tumulti» come scaturigine di libertà e dinamismo politico-sociale.
Nelle Istorie non si trovano tracce certe di un impiego delle storie di B., che a differenza di quelle bruniane non possono annoverarsi tra le fonti primarie dell’opera; forse solo il capitolo sulle origini di Firenze (II ii) ne denuncia qualche generica memoria, ma in un contesto da una parte largamente topico, e dall’altra contrassegnato – caso raro nelle Istorie – dal ricorso a fonti molteplici, non sempre facilmente precisabili (Cabrini 1985, pp. 29-34). Là dove si tratta, però, della breve vita degli Stati concessi dai papi a loro nipoti o parenti:
Bene è vero che, per infino a qui, i principati ordinati da loro hanno avuta poca vita, perché il più delle volte e’ pontefici, per vivere poco tempo, o ei non forniscono di piantare le piante loro, o, se pure le piantano, le lasciano con sì poche e deboli barbe, che al primo vento, quando è mancata quella virtù che le sostiene, si fiaccano (I xxiii 12),
le considerazioni di M. trovano un precedente nel secondo libro del De varietate fortunae (1448; ed. a cura di O. Merisalo, 1993, p. 128). Le opere di M., in effetti, rivelano sporadici contatti con gli scritti di Bracciolini. Si guardi a quel passo del Principe in cui viene dichiarata, non senza sfumature ironiche, la ‘felicità’ dei «principati ecclesiastici» e dei loro reggenti:
Costoro [i papi] soli hanno stati e non gli difendono; hanno sudditi e non li governano. E gli stati, per essere indifesi, non sono loro tolti; ed e’ sudditi, per non essere governati, non se ne curano, né pensano né possono alienarsi da loro. Solo adunque questi principati sono sicuri e felici; ma essendo quelli retti da cagione superiori, alle quali mente umana non aggiugne, lascerò il parlarne: perché, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio di uomo presuntuoso e temerario discorrerne (Principe xi 2-4).
È stato osservato (Ferraù 1992) che considerazioni analoghe ricorrono nel De infelicitate principum (1440; ed. a cura di D. Canfora, 1998, p. 9), in un intervento di Carlo Marsuppini:
Nam tum omnes principes magna existimo felicitate frui, tum vero maxime pontifices, cum nulla cura, nullo labore, nulla opera, nullo periculo eum statum adipiscuntur qui habetur maximus inter mortales: absque ullo paratur negotio, nullo sudore retinetur, quandoquidem pro armis auctoritate Christi et signo crucis utuntur, quod est tutissimum, si eo uterentur, propugnaculum. Verbis enim quam ferro tutiores esse consueverunt. Itaque felices procul dubio censendi sunt ii quibus datur parva industria tantum adipisci imperium, minore partum retinere
Infatti reputo che tutti i principi godano di grande felicità, ma soprattutto i pontefici, giacché senza alcun affanno, senza alcuna pena, senza alcuna fatica, senza alcun pericolo acquistano quella condizione che tra i mortali è ritenuta la più alta: viene ottenuta senza alcun sudore, viene mantenuta senza alcuno sforzo, poiché in luogo delle armi adoperano l’autorità di Cristo e l’insegna della croce, un baluardo sicurissimo, se lo usassero. Essi infatti sono soliti essere difesi più dalle parole che dalla spada. Devono pertanto considerarsi senza dubbio felici costoro, ai quali è dato conseguire un potere tanto grande con poco impegno, e con ancor meno conservarlo.
Anche se questo dialogo risulta lontano dalle concezioni di M. (giacché vi si sostiene la negatività di ogni forma di potere e vi si contrappone, all’infelicità dell’uomo di Stato, la felicità del letterato e del filosofo dedito esclusivamente agli studi e all’esercizio delle virtù), è indubbio che dalle sue pagine emerga talora una visione ‘realistica’ e non convenzionale della politica e della figura del governante; l’intento di B., infatti, è quello di discutere dei principi non qui esse possunt, sed qui fuerint («non quali possono essere, ma quali siano stati», De infelicitate principum, a cura di D. Canfora, 1998, p. 17 da confrontare con Principe xv 3, dove M. sottolinea il suo proposito di «andare dreto alla verità effettuale della cosa» anziché alla «immaginatione di essa»; e si veda, di B., anche un’epistola a Gherardo Landriani dell’autunno 1442, in cui, riferendosi proprio al De infelicitate principum, egli ripete di aver indagato non quid fieri possit [...] sed quid hactenus fieri consuevit, «non ciò che possa accadere [...] ma ciò che finora è di solito accaduto» (Lettere, a cura di H. Harth, 2° vol., 1984, p. 413). In virtù di questo, si è affermato che il De infelicitate «può in certa misura costituire il necessario snodo del passaggio da una prospettiva di speculum principis ad un’altra, l’anello mancante di una catena evoluzionistica» (Ferraù 1992, p. 164).
A un medesimo ambito di ‘realismo’ politico rimandano quelle pagine in cui B. riconosce l’utilità e la positività, in determinate situazioni, della violenza e della frode. Nella seconda disputatio della Historia tripartita (1450), B. scrive che gli antichi legislatori, come Numa, Licurgo e Solone, ricorsero alla religione per consolidare il proprio potere, simulando di aver ricevuto dagli dèi le costituzioni che intendevano introdurre; lo spunto (che torna nei Discorsi I xi 9-13, e che B. aveva proposto, in forma più sintetica, già nel Contra hypocritas del 1447-1449) potrebbe esser giunto a M. anche per altre strade (ricorre per esempio nel De re militari di Roberto Valturio, a stampa fin dal 1472, e nelle Disputationes Camaldulenses di Cristoforo Landino, composte nello stesso anno, e di cui Andrea Cambini eseguì prima del 1481 un perduto volgarizzamento), ma è significativo che a esso, nella Historia tripartita, tenga dietro la cruda rappresentazione della storia come scontro fra Stati intenti a sopraffarsi a vicenda, senza rispettare quelle leggi che pure dichiarano di osservare ma che non sono realmente utili alla prosperità e al progresso (compreso quello delle lettere e delle scienze), giacché questo deriva soltanto dalla forza e dalla conquista. Così, conclude B., omnia preclara et memoratu digna ab iniuria atque iniusticia contemptis sunt legibus profecta («ogni cosa celebre e degna di ricordo deriva dalla sopraffazione, dall’ingiustizia e dal disprezzo delle leggi», Opera, 1538, p. 49; rist. anast. 1964).
Analogamente – benché questa volta il contatto sia più generico – nel De avaritia (1428-1429) B. mette in bocca ad Antonio Loschi l’elogio della cupiditas di denaro e di beni materiali in quanto motore economico e anche politico della società, e subito dopo lo stesso interlocutore difende la sua opinione contro i precetti dei filosofi morali, perché vita mortalium non est exigenda nobis ad stateram philosophiae («la vita umana non deve essere soppesata con la bilancia della filosofia», Dialogus contra avaritiam, a cura di G. Germano, 1984, p. 80). Riflessioni, queste, variamente riconducibili a M. e in particolare ai capitoli ‘morali’ del Principe (xv-xviii, e soprattutto xvi, De liberalitate et parsimonia).
Passando a contatti di altra natura, si può segnalare, all’inizio del dialogo De nobilitate (1439-1440), l’ironica allusione di Lorenzo di Giovanni de’ Medici alla passione di B. per i reperti archeologici, esposti nel giardino della sua villetta di Terranuova come se potessero accrescere la nobiltà del proprietario. Il passo è stato messo in rapporto (da Canfora 2005, p. X) con il proemio del libro I dei Discorsi (§§ 3-6), dove M. polemizza con i suoi contemporanei che limitano il loro culto dell’antico al feticistico collezionismo di frammenti di statue, anziché estenderlo, come sarebbe opportuno, alle «virtuosissime operazioni» di Stati, re, capitani e legislatori (spunto analogo anche in apertura dell’Arte della guerra I 15-17).
Meno probanti sembrano invece altri riscontri. Sono stati per esempio chiamati in causa (cfr. Canfora 2001, pp. 73-78) i testi composti da B. in occasione della sua controversia del 1435 con Guarino Veronese in merito alla superiorità di Cesare o di Scipione (la lettera-trattato a Scipione Mainenti e la successiva Defensio a Francesco Barbaro); tuttavia, nei termini in cui ritorna nei capp. x e xxix del I libro dei Discorsi, dove Cesare è colui che sovvertì le leggi romane aprendo la strada alla tirannide imperiale, mentre Scipione è il cittadino rispettoso delle istituzioni a onta della sua grande autorità, la questione si configura come un topos ereditato dalla tradizione fiorentina quattrocentesca, che aveva cantato le lodi di Scipione in innumerevoli scritti e alla quale M. direttamente attinge – ricorrendo in prevalenza a fonti poetiche volgari – nel capitolo ternario “Dell’Ingratitudine”.
Senza contare poi che il cap. xxix del I libro rovescia la prospettiva (guardando non a B., ma al Commento al Trionfo della Fama di suo figlio Jacopo), laddove afferma che la tirannide di Cesare fu giustificata dall’ingratitudine di cui egli era oggetto in Roma e l’esilio di Scipione dalla «straordinaria» autorità che le sue imprese gli avevano guadagnato.
Così deve dirsi anche per altri temi machiavelliani che ricorrono in quegli scritti di B. (e nelle sue due coeve lettere a Cosimo de’ Medici, la consolatoria per l’esilio e la gratulatoria per il ritorno a Firenze, del 1434 e 1435), ossia quello del principato ‘nascosto’ in uno Stato repubblicano nel quale si imponga l’autorità di un cittadino eminente – come nei casi di Scipione e dello stesso Cosimo: è l’argomento di Principe ix e Discorsi I xxxiii e lii – e quello della distinzione tra principi ‘buoni’ e ‘tirannici’ (Discorsi I x): altri due spunti molto diffusi, soprattutto nella pubblicistica fiorentina tra Quattro e Cinquecento, e per i quali dunque B. non può certo essere additato quale specifica fonte di Machiavelli.
Secondo alcuni (Tommasini 1883-1911, 2° vol., p. 542; C. Varotti, commento alle Istorie fiorentine, in Opere storiche, a cura di A. Montevecchi, C. Varotti, 2010, p. 610), M., nelle Istorie VI xxxiv, potrebbe essersi fondato, per la descrizione della tempesta che colpì la Toscana alla fine di agosto del 1456, su una lettera di B. a Domenico Capranica databile tra l’agosto e il settembre di quell’anno (Lettere, cit., 3° vol., 1987, pp. 427-34): ma l’evento è narrato in vari altri testi e M. poté anche averne notizia da resoconti orali. Di un’altra epistola di B., quella ad Antonio Loschi del 20 giugno 1424, in cui la vicenda di Braccio da Montone è presentata alla stregua di un exemplum fortunae (Lettere, cit., 2° vol., 1984, pp. 5-10), M. potrebbe invece essersi servito per ricostruire in termini simili, nella Vita di Castruccio Castracani, la parabola del condottiero lucchese che la fortuna innalzò da oscure origini alla gloria, per poi rapidamente abbatterlo (cfr. Martelli 1985-1986, pp. 309-10).
In conclusione, la produzione di M. non fornisce elementi sufficienti a dimostrare una sua larga conoscenza degli scritti di B. (comprese le traduzioni: per es., non nella sua latinizzazione, ma nel volgarizzamento eseguitone dal figlio Jacopo M. lesse la Ciropedia di Senofonte), a eccezione delle Historiae; e, generalmente parlando, ciò va a confermare quanto, in merito alla superficiale conoscenza della letteratura umanistica in latino da parte di M., è emerso dagli studi più recenti. Neppure, per altro verso, deve essere oltremodo enfatizzato il premachiavellismo di B., sopravvalutando la portata antiumanistica e ‘moderna’ di riflessioni riconducibili ora a una matrice stoico-agostiniana e petrarchesca, ora a uno scetticismo individualistico di matrice insieme lucianesca, epicurea, antiaristotelica e cristiana (più congeniale a un Francesco Vettori, in verità, che a un M., come dimostrano le affinità tra certe parti del Viaggio in Alamagna del primo e il De miseria humanae conditionis di B.). Nondimeno, alcuni scritti di B. denotano, soprattutto negli interventi dialogici di Niccolò Niccoli, tangenze non trascurabili con certe pagine machiavelliane, con le quali condividono talvolta una sorta di lucido ‘realismo’, incline a toni paradossali, pessimistici e ‘critici’ nei confronti della storia, della fortuna, della religione, della Chiesa, della morale corrente, della filosofia (Fubini 1998, pp. 125-27; Canfora 2005, pp. X-XI, 47-49).
Inoltre, la facile accessibilità della maggior parte delle opere di B. (grazie a una vasta circolazione manoscritta e, talvolta, anche a stampa) e la loro ‘leggibilità’ (in virtù di uno stile latino scorrevole, spesso fortemente debitore nei confronti della lingua e della letteratura volgare tre-quattrocentesca) avrebbero potuto facilmente attrarre M., in particolare verso scritti quali il De infelicitate principum, la Historia tripartita, il De avaritia, il De varietate fortunae e alcune sezioni dell’epistolario, nei quali, all’attrattiva di tematiche a lui care, si univa quella di una caustica vena polemica e di un vivace andamento narrativo.
Non è facile però individuare precise fonti, anche perché spesso siamo in presenza di materiali e motivi di vasta circolazione, cui M. può aver avuto accesso tramite vie molteplici; oppure si riscontrano tra i due autori generiche affinità che non possono considerarsi prova di derivazione diretta, ma sembrano piuttosto il prodotto di semplice poligenesi, ossia della naturale convergenza di scritti che affrontano argomenti simili di carattere generalissimo (la fortuna, la virtù, la storia, il potere, il principe ecc.) in una prospettiva sovente disincantata e moralistica.
Bibliografia: O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 2 voll., Torino 1883-1911, in partic. 2° vol., pp. 452-54, 465-66, 542 (rist. anast. Bologna 1994-2003); G.M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Bologna 1979, pp. 92-94; A.M. Cabrini, Per una valutazione delle Istorie fiorentine del Machiavelli. Note sulle fonti del secondo libro, Firenze 1985, pp. 14-17, 29-34; M. Martelli, Schede sulla cultura di Machiavelli, «Interpres», 1985-1986, 6, pp. 283-330 e Machiavelli e la storiografia umanistica, «Interpres», 1990, 10, pp. 224-55, entrambi poi in Id., Tra filologia e storia. Otto studi machiavelliani, a cura di F. Bausi, Roma 2009, pp. 52-98 e 171-202; G. Ferraù, Per la cultura umanistica di Machiavelli: i principati felici, «Studi umanistici», 1992, 3, pp. 149-64; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2° vol., La storiografia, Bologna 1993, pp. 14-15, 170-81; R. Fubini, Politica e morale in Machiavelli: una questione esaurita?, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 1998, Roma 1998, pp. 117-43; D. Canfora, La controversia di Poggio Bracciolini e Guarino Veronese su Cesare e Scipione, Firenze 2001; D. Canfora, Prima di Machiavelli. Politica e cultura in età umanistica, Bari 2005, ad indices.