Poggio Bracciolini
Poggio Bracciolini incarna appieno le caratteristiche intellettuali dell’umanista quattrocentesco. Fu inizialmente un ottimo copista, e questa abilità lo portò dalla sua terra aretina a Firenze, città pronta ad accogliere uomini provenienti da centri minori e anche ad attribuire loro alte cariche. Fu così che Bracciolini, entrato da giovane nella città come copista, vi ritornò come cancelliere negli ultimi anni della sua intensa vita. Nelle sue opere egli sostenne la positività del denaro e argomentò sulla sua fecondità: infatti, se accumulato con saggezza, il denaro procura onori e, proprio per questo, stimola a lavorare per ottenerne in maggior quantità; costituisce inoltre una riserva utile anche per la città.
Nato l’11 febbraio 1380 a Terranuova (oggi Terranuova Bracciolini), presso Arezzo, era figlio di Guccio, speziale, e di Iacoba Frutti, di famiglia notarile. Dopo gli studi elementari ad Arezzo intraprese a Firenze il corso da notaio, finanziandosi con la sua attività di copista. La sua abilità venne molto apprezzata e attirò l’attenzione di personaggi in vista nella città di Firenze che gli chiesero di lavorare presso di loro; tra questi, Coluccio Salutati e Leonardo Bruni, i quali, ammirati dalla capacità e dall’impegno di Bracciolini nella lettura dei classici, lo avviarono verso gli studi letterari. Siamo negli anni a cavallo tra il Trecento e il Quattrocento: era il periodo del serrato dibattito tra chi privilegiava lo studio degli antichi – come Bracciolini stesso – e chi quello dei moderni; era anche la fase in cui la scrittura passava dai caratteri gotici a quelli cosiddetti umanistici. In questi avvenimenti Bracciolini rimase talmente coinvolto che il ricordo di quegli anni non lo abbandonò mai (Garin 1989).
La sua preparazione negli studi letterari gli conferì tale abilità da farlo chiamare nel 1403 a Roma, prima come segretario presso il vescovo di Bari, Landolfo Maramaldo, e poi come scrittore apostolico presso papa Bonifacio IX. Negli anni successivi, che furono quelli finali dello scisma d’Occidente (1378-1417), egli seguì i papi legittimi (Bonifacio IX, Innocenzo VII, Gregorio XII) e poi quelli ‘pisani’ (Alessandro V e Giovanni XXIII). Con Giovanni XXIII si recò nel 1414 al Concilio di Costanza, con la funzione di segretario apostolico. Dopo la deposizione del papa da parte dello stesso concilio nel 1415, decise di rimanere a Costanza, dove iniziò la ricerca di manoscritti di opere classiche nelle biblioteche monastiche. Si spinse nei monasteri di Francia, Svizzera e Germania, e tra il 1415 e il 1417 rinvenne opere di valore eccezionale, tra cui orazioni di Cicerone e scritti di Quintiliano, Valerio Flacco, Columella, Stazio, Silio Italico, Ammiano Marcellino, Lattanzio, Vitruvio, Lucrezio. Alcune di queste opere le trascrisse egli stesso in diverse copie, con la sua scrittura nitida e chiara. Era diventato un vero studioso cosmopolita (Ph. Goodhart Gordan, Poggio at the curia, in Umanesimo a Roma nel Quattrocento, 1984, pp. 113-26).
Delle sue scoperte diede comunicazione ai colleghi italiani: ciò lo rese famoso, ma non abbastanza da convincere il nuovo papa Martino V a reintegrarlo nel suo ufficio originario di segretario apostolico; lo volle, infatti, presso di sé solo come scrittore apostolico.
Non aver ottenuto la carica di segretario apostolico lo umiliò profondamente e lo convinse, su invito del cardinale Enrico Beaufort, a trasferirsi in Inghilterra, a Winchester, dove visse per quattro anni (1418-23) in solitudine e ristrettezze, soffrendo soprattutto la mancanza degli amici letterati con cui in Italia era abituato a discutere e a condividere idee; prese gli ordini minori ma non entrò nel sacerdozio. Tornato a Roma, fu per trent’anni a servizio della sede apostolica come segretario papale (per Martino V, Eugenio IV e Niccolò V). Lì ritornò alla sua passione per la ricerca di preziosi documenti, e brillò tra i funzionari della curia per il suo entusiasmo e la sua curiosità nei confronti delle vicende umane, su cui non mancava di rendere conto nei suoi scritti. Con Eugenio IV compì viaggi a Firenze, Siena, Bologna, Ferrara, e ciò gli consentì di riallacciare i rapporti con tanti amici letterati e di riavvicinarsi alla corte medicea, in particolare maturando confidenza con Cosimo e Lorenzo de’ Medici.
All’età di cinquantasei anni, con sei figli – avuti dalla nobile fiorentina Selvaggia di Ghino Manente de’ Buondelmonti, sposata nel 1436 – Bracciolini ambiva a ricoprire posizioni più brillanti. Queste sue speranze aumentarono quando nel 1447 fu eletto papa Niccolò V; ma l’età avanzata e forse anche le aspre polemiche con Lorenzo Valla lo indussero nel 1453 a lasciare Roma, chiamato come cancelliere dalla repubblica fiorentina: più volte in passato gli era stata offerta tale carica, ma egli l’aveva sempre disdegnata.
A Firenze rimase cinque anni, per poi ritirarsi – nonostante le insistenze di Cosimo de’ Medici – nella villa Valdarnina, acquistata nel 1438 nel paese natale. Il 30 ottobre 1459 morì, e fu sepolto con tutti gli onori in Santa Croce in Firenze; più tardi Antonio Pollaiolo dipinse la sua effige nella sala del Proconsolo.
Come si è visto, un tratto importante della biografia di Poggio Bracciolini è il fatto che egli viaggiò molto, molto ricercò e studiò, e risiedette, oltre che in Francia e Germania, anche in Inghilterra: è un po’ come se egli avesse fatto da ponte per il civic Humanism (secondo la famosa espressione utilizzata da Hans Baron), che, grazie a lui, passò – come parte della storiografia sostiene – dagli ambienti rinascimentali fiorentini all’Inghilterra di Oliver Cromwell.
Egli visse proprio nell’età d’oro dell’Umanesimo toscano. L’Umanesimo era un vero «programma, una proposta critica […] per un futuro da costruire: era il disegno per l’educazione di una nuova umanità», e prevedeva «gioia della vita, fecondità dell’amore, purezza della natura, libertà della fede, nel magistero mai consunto dei padri antichi, finalmente liberati dalla squallida prigionia dei monasteri gotici» (Garin 1983, p. 18).
Nel gruppo degli umanisti italiani del tempo, l’attività di Bracciolini si distinse per la spiccata vena letteraria, caratterizzata da forza polemica – a volte rabbiosa e cattiva (Garin 1989) – e da arguzia narrativa. Questa caratteristica della sua indole, che egli trasfuse nelle sue opere, gli derivò dalla capacità di esaminare attentamente e con curiosità le vicende e le persone, con stile sempre brillante e con osservazioni a volte un po’ spregiudicate. La polemica in cui si impegnò con maggior astio fu quella con Valla (de Panizza Lorch, in de Panizza Lorch 1984, pp. 191-210).
Numerosi sono i suoi scritti in lingua latina, per i quali adottò la forma dialogica proprio per acuirne il realismo. Il primo è il De avaritia (1428-1429), in cui espresse una ferma condanna di ogni sterile ascesi e la propria piena convinzione della fecondità della ricchezza e dei beni terreni. Si tratta in sostanza di una dichiarazione della positività del desiderio del denaro.
Seguono poi il De nobilitate (1440), sulla necessità che la ‘nobiltà’ come tratto della figura umana non rimanga un mero paludamento, ma si traduca sempre in atti nobili nella vita pratica; il Contra hypocritas (1447-1448), sull’ipocrisia, tanto diffusa nelle sue diverse forme.
A volte i suoi dialoghi si presentano intrisi di rimpianto e malinconia, come il De infelicitate principum (1440) e il De varietate fortunae (1448). Quest’ultimo si apre con una contemplazione della rovina di Roma, ma ciò che risulta più interessante in questo testo è l’assoluta intercambiabilità dei termini fatum e casus e un’estrema vaghezza nell’uso del termine fortuna: la relazione fortemente complessa di questi tre termini con un quarto, la provvidenza divina, viene troppo sbrigativamente – si potrebbe dire misteriosamente – risolta in sole sei righe (2802-08).
Nel 1455 scrisse il De miseria humanae conditionis. Realismo e amore per la brevità caratterizzano ognuna delle Facetiae (1438-1452): favolette, storielle, estri e motti spiritosi, virulenti e anche osceni, pensati e scritti per il puro intrattenimento nella mendaciorum officina. Alcuni di questi brevi testi furono da Bracciolini appositamente confezionati contro Valla, autore che fu peraltro l’unico ad avere consapevolezza completa di cosa significasse l’educazione umanistica in Europa, di cosa fosse «una ‘nuova’ filosofia non più ‘scolastica’» (Garin in Fumagalli Beonio Brocchieri, Garin 1994, p. 89).
Bracciolini trasfuse sincerità e impegno nelle orazioni funerarie che scrisse e lesse per due tra i suoi migliori amici umanisti, Niccolò Niccoli e Leonardo Bruni.
I suoi viaggi e le sue scoperte sono descritti accuratamente nella corrispondenza, genere letterario molto comune tra gli umanisti e a lui particolarmente confacente, dato il suo desiderio di comunicare le proprie esperienze di vita. Al suo epistolario egli fu legato in modo speciale, e dedicò tempo e attenzione alla correzione di tutte le lettere, che raccolse in fascicoli; si tratta di lettere su fatti realmente accaduti, e in cui egli riprende anche temi filosofici, politici, religiosi, presenti nei suoi dialoghi in latino. Nel voluminoso epistolario, due lettere sono giudicate dalla storiografia di rara importanza: l’Epistola I, 2, sulla morte di Girolamo da Praga, e l’Epistola I, 1, sui bagni di Baden.
La prima tratta della triste vicenda di Girolamo da Praga (1370 ca.-1416), che venne processato come eretico e che mai deflesse dal professare la propria strada di fede di fronte all’ipocrisia dei frati e alle sottigliezze, gli abusi, la superbia delle loro tesi accusatorie. Per Bracciolini, quella di Girolamo fu una ‘virtuosa’ eresia, e la condanna non gli fu inflitta dalla Chiesa ma da specifici accusatori membri della Chiesa. Il processo a Girolamo e la difesa di costui intessuta da Bracciolini sono ricostruiti magistralmente da Eugenio Garin (L’Umanesimo italiano, 1975). Ciò che Bracciolini intende porre in risalto nella lettera è la sua netta predilezione per la lineare e pulita strada di chi sceglie, come Girolamo, la vita religiosa con onestà, senza rivestirsi di finzioni e senza farsi servo di ipocrite norme, senza prendere vantaggio dal lusso, a volte torbido, dei palazzi in cui molti principi della Chiesa vivono.
Nella lettera sui bagni di Baden, Bracciolini pone in contrasto la riprovevole realtà ritratta nella prima lettera con la finezza e la limpidezza della libertà di costumi dell’ambiente naturale di Baden, in cui le ninfe scherzano giocosamente nella loro casta nudità, perché fine della vita è il piacere. Questo è il luogo, l’utopia, degli
intellettuali laici, liberi e spregiudicati, cittadini e magistrati, uomini di cultura, nutriti dei classici, sprezzanti delle ricchezze inutilmente tesaurizzate, amanti del piacere, della vita, delle donne, disposti a sacrificare tutto per la libertà spirituale e per ciò che rende la vita degna di essere vissuta (Garin 1983, p. 19).
È chiaro il contrasto tra le realtà riportate nelle due lettere; è un contrasto che serve all’autore per mettere in luce l’ipocrisia in cui si radica ogni abiezione umana: ignoranza, ozio, cupidigia, oscenità; quella ipocrisia contro cui gli umanisti si scagliavano e che derivava dalla frattura teorizzata tra corpo e anima, e dalla contrapposizione vissuta tra puro materialismo e pura contemplazione.
Bracciolini non può in nessun modo essere considerato un pensatore di economia ma, come nel caso di Matteo Palmieri, trattando di bisogni e di utilità anch’egli scivola inevitabilmente dal piano letterario a quello economico.
Questo spostamento verso il discorso economico riguarda due argomenti principali. Il primo ci dice che ogni bene è utile a soddisfare i bisogni umani, ogni azione umana è legittima per perseguire la felicità; non c’è legame teorico tra utile e onesto: è utile ciò che procura soddisfacimento, è onesto ciò che non danneggia nessuno. L’utile è così interpretato al di fuori del canone morale e in un’ottica puramente laica.
Il secondo argomento è quello del ribaltamento del rapporto tra ‘avarizia’ e carità/povertà volontaria. Come Albertano da Brescia, Bruni, Leon Battista Alberti e altri già avevano affermato, l’avarizia è la possibilità di ottenere attraverso il proprio lavoro un po’ di più del necessario, in premio dell’attività svolta con operosità. Si tratta di una ri-vitalizzazione dell’uomo naturale (W. Ullmann, Principles of government and politics in the Middle Ages, 1961; trad. it. 1972). Il preciso intento di Bracciolini è quello di avversare la concezione di Bernardino da Siena, come egli stesso esplicita in una lettera dell’8 giugno 1429. L’usuraio non può risolvere il problema morale della remissione dei propri peccati pentendosi prima della morte, oppure lasciando la propria attività al figlio e magari, nascostamente, continuando a consigliarlo sugli affari da intraprendere: dietro il velo di un pentimento apparente si cela, infatti, una vita intessuta di menzogne.
Desiderare denaro è nella natura umana, perché il denaro fa stare meglio, e questo è l’obiettivo di qualsiasi azione umana; ogni attività verrebbe meno se non ci fosse il desiderio di aumentare la propria ricchezza e la propria condizione di benessere, e se ci fossero interventi volti a ostacolare tale desiderio. Ogni attività è finalizzata a procurare il massimo vantaggio, nonostante i pericoli e i rischi in cui si incorre svolgendola.
Alla base dell’utilitarismo di Bracciolini vi è la concezione naturalistica del mondo. L’uomo – essere naturale – per natura persegue l’utile: tutti gli esseri umani – indipendentemente da età, condizione o grado – quando svolgono arti ‘mercenarie’ o ‘liberali’, arti inerenti lo spirito o il corpo, sono mossi solo dal principio dell’utile. Questo significa essere avari: appetitus pecuniae, hoc est avaritia. Senza l’avarizia non crescerebbero le arti umane, e perciò riguardo a essa non v’è nulla da biasimare, perché senza di essa non vi sarebbe vita consociata. Se l’uomo si accontentasse di bastare solo a se stesso, la società umana sarebbe povera e rozza, non ci sarebbero bei palazzi, magnifiche ville, templi, portici, ospedali. L’avarizia, insomma, è un dato naturale, è una naturale inclinazione umana: perciò l’acquisizione di beni materiali e di moneta non è contro natura. Ogni città ha bisogno di ‘avari’ che mobilitino lavoro per aumentare il valore delle merci prodotte. In questo modo anche l’agricoltura ne trae vantaggio.
È chiara la distanza tra queste affermazioni e la teorizzazione delle stesse che tre secoli dopo Adam Smith presenterà con solidi argomenti; è una distanza che viene colmata da Smith attraverso l’uso del ragionamento scientifico, di un ragionamento che congiunge l’affermazione di un principio con la sua dimostrazione: non basta affermare che senza lavoro e senza volontà di arricchirsi il singolo e la convivenza umana non si abbelliscono, non migliorano, non si innesca alcun processo di sviluppo; bisogna scoprire quale ingranaggio unisce l’obiettivo dello sviluppo alla disponibilità di risorse, attraverso quale meccanismo le risorse disponibili mettono in moto il sistema e ne assicurano lo sviluppo. In Bracciolini questo nesso tra risorse o obiettivo manca; manca il concetto di produttività del lavoro che aumenta attraverso una certa sua utilizzazione, ciò che in Smith è la ‘divisione del lavoro’ che consente l’aumento di produttività e l’accumulazione destinata a investimento. Manca, inoltre, il motivo caratteristico di Bernard de Mandeville (1670-1733), secondo il quale i vizi privati si trasformano in pubbliche virtù, in quanto l’avarizia di Bracciolini non è un vizio ma una virtù data all’uomo per natura.
Piuttosto che stabilire nessi che scavalcano secoli di storia del pensiero economico, sarebbe sicuramente interessante collocare in tale storia il contributo degli umanisti italiani quattrocenteschi, e anche stabilire collegamenti fra tale contributo e quello dei pensatori islamici del Trecento, come Ibn Khaldūn, che concepirono una storia dello sviluppo del sistema economico.
In ogni caso, l’aria che si respirava nel periodo dell’Umanesimo, secondo alcuni storici, aiutò gli uomini a sentirsi liberi dalle strutture mentali imposte sia da una certa ortodossia in campo religioso sia dalle imposizioni feudali, e a liberare la propria ricerca critica, dando quindi maggior fiducia alle possibilità del pensiero e dell’azione umana.
Possiamo concludere affermando che, pur diventato celebre inizialmente come copista, Bracciolini fu un vero ‘intellettuale’, nel preciso significato che nel Quattrocento questo termine assumeva: un personaggio era definito
intellettuale in relazione alla virtù, alla conoscenza e al piacere [...]. Intellettuale significa[va] qualcosa ritenuta più pregevole ed elevata [...] ed indica[va] una qualità indiscutibilmente positiva. La stima e il giudizio degli intellettuali medievali su se stessi ha questo denominatore comune: la loro attività o professione ha ai loro occhi un pregio particolare [...] rispetto alle altre attività o professioni (Fumagalli Beonio Brocchieri in Fumagalli Beonio Brocchieri, Garin 1994, p. 6).
Le opere di Bracciolini edite tra il 16° e il 19° sec. sono state ristampate anastaticamente in Opera omnia, a cura di R. Fubini, 4 voll., Torino 1964-1969; il 1° vol. (Scripta in editione basilensi anno 1538 collata, 1964) contiene anche un’importante Premessa del curatore, e il 2° vol. (Opera miscellanea edita et inedita, 1966) alcuni opuscoli fino allora inediti.
Tra le molte edizioni della Facetiae va ricordata quella stampata a Londra nel 1798 (trad. it. a cura di G. Lazzeri, Milano 1924; a cura di F. Cazzamini-Mussi, Roma 1927; a cura di M. Ciccuto, Milano 1983).
De nobilitate, Antwerpiae 1489; Abellini 1657 (trad. it. a cura di D. Canfora, Roma 1999).
De infelicitate principum, Lutetiae Parisorum 1474; studio et opera Eliae Ehingeri, Francofurti 1629 (rist. a cura di D. Canfora, Roma 1998).
Dialogus contra hypocritas, Venezia 1487 (testo latino e trad. it. con il titolo Contro l’ipocrisia, a cura di G. Vallese, Napoli 1946; nuova ed. con il titolo Contra hypocritas, a cura di D. Canfora, Roma 2008).
Historiae de varietate fortunae libri quatuor [...], editi, et notis illustrati a Dominico Giorgio; accedunt eiusdem Poggii epistolae LVII quae nunquam antea prodierunt, Letitia Parisorum 1723 (rist. anast. Bologna 1969).
Historiae florentini populi, in Rerum italicarum scriptores [...], Ludovicus Antonius Muratoris [...] collegit, ordinavit, et praefactionibus auxit, 20° vol., Mediolani 1731, pp. 194-454 (rist. anast. Sala Bolognese 1981; trad. it. Historia florentina di Poggio, tradocta di lingua latina in lingua toscana da Jacopo suo figliuolo, Vinegia 1476; rist. anast., con presentazione di E. Garin, Cortona 1980).
Dialogus an seni sit uxor ducenda, edente Gulielmo Sheperd, Liverpooliae 1807; nuova ed. Florentiae 1821.
Epistolae, collegit et emendavit plerasque ex codd. mss. eruit, ordine chronologico disposuit notisque illustravit equ. Thomas de Tonellis, 3 voll., Florentiae 1832-1861; rist. anast. nel 3° vol. (Epistolae, 1964) della citata Opera omnia (trad. it. a cura di H. Hart, 3 voll., Firenze 1984).
Oratio in laudem legum, in La disputa delle arti nel Quattrocento, a cura di E. Garin, Firenze 1947, pp. 11-15.
De avaritia, testo latino e trad. it. in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli 1952, pp. 258-301; nuova ed. a cura di G. Germano, Livorno 1994.
L’elenco della bibliografia su Bracciolini dal 1720 al 1987 (comprese le opere citate nel testo) è in O. Nuccio, Bracciolini, Poggio, in Id., Il pensiero economico italiano, 1° vol., Le fonti (1050-1450). L’etica laica e la formazione dello spirito economico, t. 3, Sassari 1987, pp. 2899-2944.
Opere in ogni caso da citare e in parte citate nel testo sono:
F. Tateo, La raccolta delle “Facetie” e lo stile ‘comico’ di Poggio, in Poggio Bracciolini (1380-1980) nel VI centenario della nascita, Firenze 1982, pp. 217-28.
E. Garin, Ritratto di Poggio, in P. Bracciolini, Facezie, 1983, cit., pp. 5-24.
A. Petrucci, Bracciolini Poggio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 13° vol., Roma 1984, ad vocem.
M. de Panizza Lorch, Rome in Valla’s “On pleasaure”, in Umanesimo a Roma nel Quattrocento, Atti del Convegno, New York 1981, a cura di P. Brezzi, M. de Panizza Lorch, Roma-New York 1984, pp. 191-210.
A. Spicciani, L’etica laica e la formazione dello spirito economico nel Medioevo (1050-1450), «Quaderni di storia dell’economia politica», 1985, 2, pp. 159-66.
E. Garin, Umanisti artisti scienziati. Studi sul Rinascimento italiano, Roma 1989, pp. 49-73.
M. Fumagalli Beonio Brocchieri, E. Garin, L’intellettuale tra Medioevo e Rinascimento, Roma-Bari 1994, (in partic. M. Fumagalli Beonio Brocchieri, L’intellettuale, pp. 3-62 ed E. Garin, Il filosofo e il mago, pp. 63-133).
L. Bruni, Civil happiness. Economics and human flourishing in historical perspective, London-New York 2006, cap. 3.
O. Nuccio, Poggio Bracciolini, ‘vizi privati pubbliche virtù’, in Id., La storia del pensiero economico italiano (come storia della genesi dello spirito capitalistico), Roma 2008, pp. 548-53.