Poi che traesti infino al ferro l'arco
. Sonetto (schema abab abab; cdc dcd) di Guido Orlandi, in risposta, secondo la didascalia del cod. Vaticano 3124, a uno di D., che però non possediamo. Su questo fondamento fu incluso dal Barbi nella '21 (Rime LXIV), mentre altri, fra cui il Lamma, non lo ritennero rivolto a Dante.
La mancanza del sonetto di proposta ne rende difficile l'esegesi: si comprende però che Guido rimprovera a D. l'orgoglio che lo ha condotto a rivolgere a troppo alto segno la sua poesia, senza un calcolo adeguato delle proprie forze.
Si ripensa alla corrispondenza fra l'Orlandi e il Cavalcanti, che, fra altri motivi, rivela una risentita polemica letteraria e di gusto, relativa anche alle immagini e ai miti poetici. L'Orlandi (appartenente alla famiglia Rustichelli, uomo di Parte nera e ancor vivo nel 1333, se è giusta la ricostruzione di E. Levi, in " Giorn. stor. " XLVIII [1906] 1-11) fu infatti rimatore di maniera siculo-guittoniana, in nessun modo ascrivibile allo stilnovismo. Lo rivelano, fra l'altro, il gusto del frequente, compiaciuto e talvolta un po' astruso metaforeggiare, certe forme arcaizzanti (ad es., qui, la continuità sintattica di fronte e sirma) e le accuse, rivoltegli dal Cavalcanti, di usar " false rime " (cioè composte, secondo il gusto guittoniano) e di non saper comprendere il dettato " soave e piano " di Amore (son. Di vil matera mi convien parlare).
Bibl. - E. Lamma, Rime di Guido Orlandi, Imola 1889; ID., Guido Orlandi e la scuola del Dolce Stil Novo, Bologna 1906; Barbimaggini, Rime 227 ss. Per la tenzone col Cavalcanti, cfr. Contini, Poeti II 558-565.