Pokémon Go e la sindrome di Creonte
La moda virale provocata dalla app che a inizio estate 2016 ha impazzato in ogni dove ha determinato un’inedita irruzione della finzione ludica nella vita quotidiana.
«Volevamo giocare insieme». In questa affermazione di un 23enne intervistato al volo mentre era lanciato sulle tracce di un mostriciattolo, si riassume il senso del Pokémon Go, il gioco che nell’estate del 2016 ha improvvisamente riempito strade e piazze di tutto il mondo di una folla straripante. Uomini e donne, bambini e pensionati che si muovevano strategicamente tra spazio materiale e spazio virtuale a caccia di creature fantastiche, con nomi dai suoni nippo-borgesiani come Pikachu e Mewtwo, o surrealmente tolkieniani come Tentacruel, Bulbasaur e Charmeleon.
Il risultato è stato un’inedita irruzione della finzione ludica nella vita quotidiana. Un vero e proprio cortocircuito tra il reale e il digitale, che ha lanciato il popolo dei videoplayers sulle tracce dei Pokémon. Come tanti rabdomanti 2.0 in cerca di nuove sorgenti di divertimento collettivo. Questa viralità ha almeno 2 ragioni, alcune analogiche, altre digitali. Che questa volta hanno funzionato sinergicamente, le une al servizio delle altre. Nel senso che l’effetto aggregante del gioco elettronico è stato aumentato proprio dalla sua location pubblica, che lo ha trasformato in uno street game.
Fattore di contatto fisico e creatore di legame tribale. Col risultato di unire i cacciatori in un ‘Noi’. E di metterli in relazione con un ‘Loro’, i Pokémon. Entrambi contrapposti a un ‘Voi’, gli spettatori, quelli critico-apocalittici. Facendo uscire da se stessa la web community per trasformarla in una comunità – fusionale, solidale, interinale – che ha strappato i Millennials da quell’isolamento virtuale che gli viene spesso imputato. Ma la viralità del gioco è andata molto al di là delle frontiere generazionali. Nessuno ha voluto sentirsi escluso.
Così una sorta di epidemiologia ludica ha contagiato le persone più insospettabili. Politici compresi.
Come Erna Solberg, primo ministro norvegese, che ha mostrato di non demordere dalla sua passione neanche durante l’attività istituzionale. Tanto da essere beccata mentre giocava in Parlamento, nascosta dietro lo schermo del computer, come una scolaretta che smanetta sul cellulare cercando di non farsi sorprendere dall’insegnante.
E nemmeno il clima formale delle visite ufficiali è riuscito a raffreddare la sua mania da Diana digitale, visto che durante una visita di Stato a Bratislava è stata sorpresa a catturare creaturine digitali.
La novità dei Pokémon busters è, come si è detto, la ricaduta del gioco nell’arena pubblica che, nello spazio e tempo ludici, ha fatto coincidere la comunità con la community, il face to face con il face to Facebook. A piazza del Popolo come a Central Park è andata in scena – forse in maniera inconsapevole, ma questo poco conta – una domanda rituale di togetherness, vale a dire di unione, di spirito di solidarietà. Uno scongiuro collettivo contro la solitudine del cittadino globale, sigillato nel suo autismo multitasking, nella sua ubiquità light. Che lo fa essere ovunque ma sempre transustanziato, smaterializzato. Non in persona ma in icona.
Del resto il gioco è da sempre una delle grandi matrici della socialità, umana e non solo. Come diceva Johan Huizinga nel suo libro Homo ludens, il gioco è più antico della cultura. Perché gli animali non hanno bisogno che gli uomini insegnino loro a giocare. Lo sanno e basta. Anche se in maniera più elementare.
Il pensiero ludico-creativo però va molto oltre, simula mondi possibili, costruisce nuove ipotesi di realtà servendosi di materiali fantastici. E soprattutto crea ordini, riscatta l’imperfezione del mondo realizzando una perfezione temporanea. Una regola pienamente confermata da questa sorta di instant ritual. Un po’ caccia al tesoro, un po’ conquista del Graal, fatto però di collaborazione tra i cercatori che si scambiano informazioni, si sostengono, si aiutano.
Qualcuno ha parlato di infantilizzazione di massa. Ma a essere infantili o, meglio, puerilmente senili, sono queste censure catoniane fuori tempo massimo. Perché non si può liquidare una febbre ludica così imponente con giudizi apocalittici sommari e superficiali. Che stanno fra la geremiade paternalistica e il malocchio sociologico. Una chiusura che fa pensare un po’ all’atteggiamento di Creonte, il re di Tebe protagonista delle Baccanti di Euripide. Di fronte alla frenesia ludica con cui Dioniso ha contagiato le donne del suo regno, il sovrano chiude al dio le porte della città. E soprattutto le chiude al fermento epidemico di cui il nume è portatore. Ebbene, in questi mesi, il dilagare del Pokémon Go ha eccitato oltremisura la sindrome di Creonte. Così, se i cacciatori erano tanti ancor di più erano quelli affacciati allo schermo per godersi le dirette Facebook e trafiggere i giocatori con battute sferzanti, qualche volta insultanti, spesso imbarazzanti. Sia sui social sia sui media tradizionali.
In Italia è nato un botta e risposta social che ha visto affrontarsi 2 partiti l’un contro l’altro armati.
Apocalittici e integrati. Ipercritici e iperludici. I primi hanno accusato i secondi di infantilismo, di piattezza neuronale, di fannulloneria. Qualcuno ha paragonato i giocatori a una mandria di zombie usciti da The walking dead.
Molti li hanno esortati ad andare a lavorare. Altri a studiare. Qualcuno a fare sesso. E qualcun altro li ha mandati dove non si può dire. In tanti non hanno resistito alla tentazione del sermoncino politico, accusando i giocatori di scendere in piazza a caccia di stupidi folletti invece che in difesa dei propri diritti. E qualcuno ha trasformato Pokémon Go in un insultante Pokemóngo.
Linguisticamente feroce quanto politicamente scorretto. Ma si sa che la rete scatena sempre estri creativi, sia i migliori sia i peggiori. A queste voci censorie, paternalistiche e irridenti, si sono aggiunte quelle di psicologi, fustigatori di costumi giovanili e nostalgici della battaglia navale.
Che hanno gridato alla patologia generazionale, azzardando analisi sociologiche quantomeno premature. E arrivando a pronosticare epidemie di inguaribile ludopatia. Insomma una geremiade che ha assunto spesso i toni del rosico generazionale.
Ma il fronte opposto, fatto per lo più di Millennials molto alfabetizzati e retoricamente agguerriti, ha risposto colpo su colpo, senza porgere l’altra guancia. Senza tuttavia trascendere. Dando anzi una lezione di fair play. Con vere pillole di buon senso digitale, tipo «I tempi cambiano, dovreste farlo anche voi». O con un polemico «Provate a interessarvi a quel che piace ai vostri figli e a chiedervi perché». Risposte che vanno dritte al cuore del problema. Cioè l’incomprensione della natura ludica del fenomeno. E della sua viralità, che non ha nulla a che fare con la regressione di massa o con l’appiattimento delle menti che, secondo un’opinione molto diffusa, sarebbe provocato dai videogiochi.
Mentre soldatini e trenini, soprattutto se di legno o di altri materiali politicamente corretti, sarebbero – chissà poi perché – sinonimo di intelligenza. Sembra molto più utile, invece, interrogarsi su questa voglia di gioco. Che, meccanico o elettronico, di legno o a cristalli liquidi, è sempre un incubatore simbolico di mondi a venire. Un modo di ricomporre le tessere della realtà, come si fa con i mattoncini del Lego, il cui nome richiama proprio il significato del greco legein nel senso di «scegliere», «raccogliere», da cui deriverebbe anche la parola «legge». Ed è quel che fanno bambini e adulti quando reinventano il mondo stando alla regola del gioco. E così imparano a stare al gioco della regola. Insomma, il caso Pokémon Go mostra che stare insieme, collaborare, solidarizzare fa sentire tutti meno soli, meno vulnerabili. Di fronte alle creature dei nostri sogni, ma anche a quelle dei nostri incubi. E con i tempi che corrono non è una lezione da poco.
Ogni gioco, diceva Roger Caillois, potenzia e affina qualche facoltà fisica o intellettuale. Ci fa scoprire nuove regioni di noi stessi. E se è vero che giocando s’impara, allora stiamo assistendo alle prove generali del futuro che attende l’umanità in transito dal Cogito al Digito ergo sum.
Incidenti stradali causati dal videogioco
Una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica JAMA internal medicine stima in circa 113.000 gli incidenti stradali provocati nel mondo dal popolare videogioco. La tecnica utilizzata nello studio ha analizzato un campione casuale di 4.000 tweet per 10 giorni subito dopo il debutto sul mercato dell’app. Un terzo dei messaggini ha messo in evidenza il fatto che si giocava stando comunque in situazione di pericolo, al volante o attraversando la strada a piedi. Secondo i ricercatori ci sono stati appunto almeno 113.000 rapporti di incidenti su Twitter, provocati dal popolare videogame durante il periodo indagato. In Italia a muoversi, denunciando i pericoli stradali della Pokémon Gomania, sono stati il Codacons e l’Associazione sostenitori e amici della Polizia stradale. In particolare il Codacons ha chiesto alle autorità competenti di disporre il «divieto totale di diffusione dell’app Pokémon Go sul territorio italiano». Il presidente del Codacons Carlo Rienzi ha infatti spiegato che «alla luce degli ultimi incidenti registrati in Italia abbiamo deciso di presentare un esposto alla procura di Roma, affinché apra una indagine per attentato alla sicurezza dei trasporti e verifichi se l’applicazione in questione possa rappresentare un pericolo ai sensi del codice della strada. Al tempo stesso ci rivolgiamo al Ministero dei Trasporti perché adotti le misure del caso a tutela degli utenti della strada, compreso – qualora necessario – il divieto totale di diffusione dell’app Pokémon Go sul territorio italiano».
Nintendo lancia sul mercato il braccialetto cattura mostriciattoli
Ametà settembre 2016 la Nintendo ha messo in vendita a 39,99 euro un braccialetto – Pokémon Go Plus il suo nome – che consente di catturare i Pokemon senza dover maneggiare lo smartphone e soprattutto senza dover rimanere con gli occhi perennemente incollati al suo schermo. Il braccialetto, collegato via Bluetooth allo smartphone, è dotato di un pulsante ed è in grado di vibrare oppure di lampeggiare allorquando ci troviamo nelle vicinanze di un PokéStop (le località che contengono oggetti speciali) oppure di un Pokémon: per catturare il pupazzo di turno basta infatti premere il pulsante e una vibrazione ci avverte dell’avvenuta cattura.
Il motivo del lancio di questa novità ‘indossabile’ da parte di Nintendo e della sua consociata Niantic, a qualche mese appena dall’esordio di Pokémon Go, è duplice. Da un lato c’è sicuramente l’allarme sulla pericolosità di un’app che assorbe l’attenzione del giocatore proiettandolo nella realtà aumentata con tutti i rischi di scontri e incidenti con l’ambiente reale. Dall’altra, sul piano commerciale, va pure rimarcata la flessione – dopo l’iniziale boom ottenuto successivamente al suo lancio avvenuto il 6 luglio 2016 –, registrata a partire da agosto, nel numero di utenti attivi ogni giorno. È per questo motivo che ora gli analisti di mercato sperano che la nuova versione di Pokémon Go prodotta per il dispositivo da polso Apple Watch 2, a cui poi potrebbe seguire quella per Android Wear, possano dare nuovo slancio al videogioco, riportandolo ai fasti conseguiti sul piano commerciale nel mese di luglio.
35 mln di $
i guadagni generati dall’app nelle prime 2 settimane.
30 milioni
i downloading nel mondo.
5,9 miliardi
le visualizzazioni dell’hashtag #pokemongo nella prima settimana.
9 miliardi
l’aumento del valore in dollari delle azioni Nintendo nei primi 5 giorni.
33,5 minuti
il tempo che i giocatori di Pokémon Go spendono in media ogni giorno cacciando le creature.
E il nascondino va alle Olimpiadi
Mentre il mondo impazzisce rincorrendo i pupazzi virtuali di Pokémon Go che si materializzano nei luoghi più impensabili, fa scalpore la proposta di un docente giapponese di far diventare il nascondino, il gioco più vecchio del mondo, uno sport olimpico. Yasuo Hazaki, cattedra alla Nippon sport science University ha formulato la sua originale proposta al Comitato olimpico che organizza i giochi di Tokyo 2020, raccogliendo più di 1000 adesioni attorno alla sua idea. Nel frattempo gli appassionati nostrani di questo evergreen dei giochi all’aperto si sono dati appuntamento a Consonno, una frazione di Olginate (Lecco), il 3 e 4 settembre 2016 per disputare una sorta di campionato nazionale di nascondino. L’evento ha coinvolto 320 persone, provenienti un po’ da tutta Italia, divise in 64 squadre. Si sono disputate un trofeo, ‘Foglia di fico d’oro’ il nome che gli hanno dato, che ha consacrato la migliore formazione, ovvero quella che è riuscita a nascondersi meglio e a raggiungere la tana senza farsi eliminare. Il fatto curioso è che l’iscrizione al torneo era riservata solo ai maggiorenni perché, come ha candidamente ammesso uno degli organizzatori, «i bambini sarebbero stati molto più bravi dei fratelli maggiori o dei genitori».