Polibio
Nato a Megalopoli, in Arcadia, in una data compresa tra il 206 e il 198 a.C. e morto tra il 124 e il 116 a.C., P. apparteneva a una cospicua famiglia (il padre, Licorta, fu stratego della lega achea, alla quale aderivano Megalopoli e l’Arcadia; e lo stesso P. divenne ipparco, cioè comandante della cavalleria, la seconda carica militare della lega). Dopo la grande battaglia di Pidna (168 a.C.) che segnò la fine del regno di Macedonia, P. fu tra gli ostaggi inviati a Roma a garanzia del rispetto dei trattati di pace (durante la terza guerra macedonica la lega achea si era schierata contro Roma). Qui egli entrò in contatto con il circolo ellenizzante degli Scipioni e, in particolare, si legò in amicizia con Scipione Emiliano, e probabilmente fu al suo seguito al tempo della distruzione di Cartagine (146 a.C.): una posizione di privilegio, che gli consentì di compiere viaggi in Italia, Gallia, Spagna e nell’Africa del Nord. Il contatto ravvicinato con la classe dirigente romana, protagonista della straordinaria espansione mediterranea dell’imperium, gli fece concepire l’idea di comporre una grande opera di storia universale, che narrasse l’ascesa della potenza romana fino alla conquista della Grecia e la definitiva sconfitta di Cartagine. Eventi di una grandezza inusitata, come lo storico precisa aprendo la sua opera, indicando già in queste prime battute quel nesso tra successo militare e costituzione politica su cui si appunterà l’attenzione di M.:
Quale tra gli uomini, infatti, è così sciocco o indolente da non voler conoscere come e grazie a quale genere di regime politico quasi tutto il mondo abitato sia stato assoggettato e sia caduto, in nemmeno 53 anni interi, sotto il dominio unico dei Romani, cosa che non risulta essere mai avvenuta prima? (I 1 5; si cita, qui e in seguito, da Polibio, Storie, a cura di D. Musti, trad. di M. Mari, note di J. Thornton, 8 voll., 2001-2006).
Il mezzo secolo di cui parla lo storico è quello che va all’incirca dal 220 al 168 a.C., vale a dire dall’inizio della seconda guerra punica alla ricordata vittoria di Pidna, che determinò l’avvio di una politica più aggressiva nei confronti della Grecia portando, di lì a pochi anni, alla dominazione diretta di tutta la penisola ellenica. A essere più precisi, i primi due libri delle Storie raccontano le vicende comprese tra il 264 e il 221 a.C., dalla prima guerra punica alla conquista della Gallia cisalpina: ma costituiscono (come lo storico stesso precisa presentando dettagliatamente al lettore il piano dell’opera, nel libro I, ai capp. 1 e 5-6, e nel libro III, ai capp. 1-3), una «premessa» (prokataskeuè) della narrazione vera e propria. Il progetto originario prevedeva che la narrazione si fermasse al 168 a.C. (a quest’epoca, o meglio ai due anni successivi a Pidna, arriva il libro XXX); ma esso fu modificato (P. lo spiega nella ricordata apertura del libro III, il cosiddetto ‘secondo proemio’ delle Storie) dalla decisione di ampliare l’opera di altri dieci libri (XXXI-XL), arrivando alla distruzione di Cartagine e di Corinto (146 d.C.), eventi che connotano in senso diverso (aggressivo e distruttivo) l’imperialismo romano.
Dei 40 libri che compongono l’opera di P. solo i primi cinque ci sono pervenuti in forma integrale. I libri I-II presentano, come si è detto, una succinta narrazione della prima guerra punica (264-241 a.C.) e degli anni precedenti allo scoppio della seconda guerra contro Cartagine. I libri III-V contengono un racconto assai più dettagliato, che copre soltanto l’inizio della seconda guerra punica, dalle sue cause alla sconfitta di Canne (216 a.C.). Frammentari sono i restanti 35 libri dell’opera. A cominciare dal libro VI (importantissimo per gli studi machiavelliani) che contiene, nell’ordine: una riflessione teorica sulle costituzioni e sui processi evolutivi che le caratterizzano (capp. 3-10); una dettagliata descrizione delle istituzioni romane nel momento di massimo splendore (capp. 11-18); un’accurata descrizione delle istituzioni militari romane (capp. 19-42); un confronto tra la costituzione romana e i sistemi politici più ammirati del mondo antico, come Sparta e Cartagine (capp. 43-56). I libri successivi al V ci sono pervenuti attraverso due distinte tradizioni: i cosiddetti excerpta antiqua (che riguardano i libri VI-XVIII) che furono raccolti prima del 10° sec. e i frammenti fatti raccogliere nel 10° sec. dall’imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito (che contengono quanto dei libri successivi al XX è sopravvissuto).
Le tre diverse tradizioni attraverso le quali il testo di P. è stato conservato in età bizantina non sono ininfluenti per le modalità di ricezione del testo polibiano nell’Europa del 15° sec. (sull’argomento cfr. Moore 1965). Alcuni manoscritti bizantini contenenti i primi 5 libri di P. arrivarono in Italia all’inizio del 15° sec. (come il Vat. Gr. 124, del 10° sec., che fece parte della Biblioteca di papa Niccolò V, o il Londinensis, Add. Ms 11728, da cui furono tratte copie in area toscana e a Venezia). Certo è che Leonardo Bruni già nel 141819 ebbe accesso a quella parte del testo di P. che parafrasò e tradusse nei Commentaria tria de primo bello punico (1421-1422). Già nel 1454 Niccolò Perotti, su incarico di papa Niccolò V, aveva terminato la traduzione dei primi 5 libri, che furono stampati nel 1473. Più tarda è la diffusione attestata dei manoscritti degli excerpta: come il Vaticano Urbinas Gr 102 (del 10° o 11° sec.), presente a Urbino prima del 1482, e un codice della Laurenziana databile alla fine del 15° sec., appartenuto a Giano Lascaris (il Laurenziano 80 13).
Le Storie di P. costituiscono, per così dire, un caso a sé tra le fonti antiche utilizzate da M. (sia in alcuni luoghi capitali dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio sia nell’Arte della guerra): se pure mai nominato da M., non solo lo storico di Megalopoli è ben presente nelle sue pagine, ma è forse, tra gli auctores del Segretario, «il più profondamente studiato e analizzato»: così scrive Gennaro Sasso (le cui analisi sul rapporto tra M. e il pensiero storico-politico di P. costituiscono, per acutezza e profondità, un punto fermo della bibliografia machiavelliana: e a esse qui rimandiamo una volta per tutte), sottoscrivendo una «affermazione che si incontra spesso tra i critici» (1987, 1° vol., p. 67). Ma la specificità polibiana (all’interno del quadro articolato delle fonti machiavelliane) risiede soprattutto nella questione, a lungo dibattuta dalla critica, su come M. potesse avere avuto accesso al VI libro delle Storie, che in particolare ispirò (fino alla forma di una vera e propria traduzione-parafrasi del testo antico) il cap. ii del primo libro dei Discorsi, una pagina di alto profilo teorico (ben indicato dal titolo stesso del ‘discorso’: Di quante spezie sono le republiche e di quale fu la republica romana), collocata da M. in posizione rilevantissima: di fatto, in apertura del suo grande trattato. Ma passi del VI libro sono impiegati anche altrove, e vistoso è l’impiego che M. ne fa nell’Arte della guerra, utilizzando molte informazioni polibiane sulle istituzioni militari romane. Che gli excerpta del VI libro delle Storie circolassero nella seconda metà del Quattrocento è quanto si è visto poco sopra; ma la questione su cui a lungo la critica machiavelliana ha dibattuto deriva dal fatto che, mentre era facilmente reperibile la traduzione di Perotti dei libri I-V di P., data alle stampe più volte a partire dalla princeps (e, negli anni di M., ristampata nel 1522 dai Giunti di Firenze), non altrettanto reperibile sembra essere una traduzione latina del libro VI, che sarebbe perciò rimasto inaccessibile al Segretario, digiuno di greco. Che la quaestio fosse un colossale «falso problema» (Garin 1990, poi 1993, p. 14) molti elementi basterebbero a indicarlo. È nota l’esistenza di alcuni codici di fine 15° inizio 16° sec. (Inglese 1992, p. 958) contenenti traduzioni parziali dei frammenti del VI libro di P., come il Vaticano Reginense lat. 1099 e il Vat. Lat. 2968 (versione dei paragrafi 3,1 - 10,14 e 11,7 - 18,8; a c. 1r del secondo, la nota Polyb. Lascar.). In area fiorentina va poi segnalato il Laurenziano 89 inf. 40, cc. 30r-44r (versione dei paragrafi 3,1 - 10,14; 11,7 18,8 e 43,1 - 57,9) in cui il traduttore è Francesco Zefi (nato nel 1491, accademico fiorentino nel 1540), che potrebbe essere lo stesso «Zefium» di cui parla Roberto Acciaiuoli in una lettera a M. del 4 dicembre 1507 (Lettere, p. 172; anche se certamente non fu questo il codice cui M. ebbe accesso, non contenendo esso i frammenti di argomento militare che il Segretario ben conobbe). Sono testimonianze indubitabili, comunque, di una certa circolazione di traduzioni latine del libro VI delle Storie. Non sembra davvero azzardato pensare – anche in assenza di altri dati – che quelle pagine capitali del pensiero costituzionale antico fossero state segnalate a M., e forse da qualcuno per lui tradotte o riassunte (qualche anno fa è stata indicata in una «missing translation» di Giano Lascaris, usata poi in Francia da Claude de Seyssel, il concreto tramite della conoscenza machiavelliana del libro VI di P.: cfr. Hexter 1956).
Che negli anni Dieci del Cinquecento, e per di più negli ambienti ‘oricellari’, quelle pagine polibiane fossero merce circolante attesta del resto il semplice fatto, segnalato da Carlo Dionisotti (1980, pp. 13840), che già qualche tempo prima Bernardo Rucellai nel De urbe Roma (certamente terminato prima del 1505) cita il VI libro di P.; e le sue parole non hanno tanto il tono di chi comunica al lettore una novità assoluta, ma richiamano a una corretta interpretazione del testo noto («[...] qui si Polybii sextum volumen recte interpretati sint [...]»). Una pagina in cui, andrà aggiunto, l’importanza del VI libro è segnalata proprio per il suo carattere teorico/costituzionale, e perché in essa lo storico di Megalopoli non modo praecellere ceteras omnes respublicas adserit, sed nihil eo rerum ordine excogitari posse perfectius («non solo afferma che [Roma] è la migliore di tutte le altre repubbliche, ma anche che non potrebbe essere escogitato nulla di più perfetto di quell’ordine dato alle parti [dello Stato]»; B. Rucellai, Liber de urbe Roma, 1770, pp. 164-65). Precoci traduzioni latine degli excerpta polibiani dovevano circolare del resto anche a Venezia, se, come è stato recentemente segnalato (Rinaldi 2009, pp. 81 e segg.), del VI libro si servì Sabellico, che al pari di M. non conosceva il greco.
È stato osservato (Momigliano 1974) che M. è il primo moderno che ha ‘usato’ P. come pensatore politico, di fatto instaurando con lo storico di Megalopoli, nei capitoli iniziali dei Discorsi, un dialogo che tocca il nucleo più profondo e originale del proprio pensiero politico. Ma P. è anche, nella sua qualità di storico di Roma, uno degli autori fatti oggetto della «continua lezione delle [cose] antiche», fondamento, assieme alla «esperienza», del metodo dell’autore, della sua peculiare «cognizione» della politica: come altri storici antichi P. è, infatti, fornitore di esempi storici da sottoporre all’analisi messa a punto nei trattati.
Il grande numero di rimandi a P. segnalati da Leslie J. Walker (The Discourses of Niccolò Machiavelli, 2° vol., 1950, p. 290) nei Discorsi va in realtà ridimensionato. In taluni casi sono richiami troppo generici perché se ne possa individuare con certezza la fonte (è il caso della riflessione svolta da P. in I 14 sull’imparzialità di giudizio dello storico, in cui Walker volle vedere un legame con Discorsi II proemio). In altri casi il rinvio è effettivamente insostenibile: come l’accenno all’introduzione a Sparta di monete di cuoio (Discorsi II iii 11), che non può essere desunto, come indica Walker, da P. VI 49, che parla di monete di ferro (Martelli 1998, p. 73); così come da escludere sembrerebbe che da P. III 81 siano desunte le informazioni sulla «fraude» di Annibale sul Trasimeno in Discorsi III xl 5-6 (Martelli 1998, pp. 206-07).
Episodi storici desunti da P. sono nondimeno assai frequenti nei Discorsi. In qualche caso M. potrebbe avere tratto dallo storico greco spunti di natura morale: così in Discorsi III xxxi, sull’imperturbabilità di fronte agli alti e bassi della fortuna, caratteristica sia degli uomini «eccellenti» sia delle repubbliche «forti» (su cui cfr. P. VI 2; ma uno spunto analogo è anche in Plutarco, Demetrio xxx). Più spesso P. sembra fornire spunti significativi sul piano dell’interpretazione storico-politica: è il caso del giudizio sull’effimera supremazia di Tebe, fondata non su ‘ordini’ e strutture, ma sulla virtù di singole personalità (Pelopida ed Epaminonda), che rimanda a un preciso locus polibiano (VI 43) ripreso da M. in Discorsi I xvii. Un richiamo, in questo caso, di notevole peso: che non solo riguarda un giro di capitoli tra i più importanti dei Discorsi (I xvi-xviii: sui fattori profondi della ‘corruzione’ delle repubbliche e sui mezzi per contrastarla), ma che rinvia a quel VI libro delle Storie le cui teorie politico-costituzionali furono, come vedremo meglio, attentamente meditate da Machiavelli.
Nei Discorsi diversi spunti tratti da P. riguardano temi militari (un ambito che troverà particolare sviluppo nell’Arte della guerra, dove i richiami allo storico greco sono quasi sistematici). Se non mancano casi di esempi storici citati da M. a sostegno di argomenti tecnici (così per la tesi della superiorità della fanteria sulla cavalleria, in Discorsi II xviii 29, dove si richiama un episodio della prima guerra punica narrato in P. I 33-34), P. sembra fornire soprattutto esempi relativi al tema politico-militare, cruciale per M., della pericolosità delle milizie mercenarie. È il caso della grande ribellione dei mercenari cartaginesi guidati da «Mato e Spendio», a conclusione della prima guerra punica, narrata in P. I 65 e segg., cui M. accenna in Discorsi III xxxii 5; che è episodio dalla forte valenza persuasiva, tanto da essere richiamato in Arte della guerra I 55 e, pur nella forma di un brevissimo accenno, nella più nota delle denunce machiavelliane della pericolosità delle milizie mercenarie (Principe xii 14). In Discorsi II xx 11, M. trae da P. I 7 l’esempio del presidio romano che durante la guerra contro Pirro fu inviato, su richiesta degli stessi reggini, a difesa di Reggio Calabria, ma che nel 279 a.C. si impadronì della città: citato a dimostrazione della pericolosità delle milizie «ausiliarie». Del resto, sul tema delle milizie mercenarie, P. aveva espresso giudizi espliciti e teoricamente motivati che non potevano lasciare indifferente Machiavelli. In vari luoghi delle Storie ricorrono, infatti, nette condanne delle armi mercenarie. Commentando l’episodio famoso della ribellione dei mercenari cartaginesi, a conclusione della prima guerra punica (episodio, come abbiamo visto, ricordato da M. in tutti e tre i suoi trattati), P. trae dall’evento una precisa lezione politica: «dalle circostanze di allora si può osservare nel modo più chiaro quali cose coloro che impiegano forze mercenarie debbono prevedere e da quali debbono stare in guardia con largo anticipo»; nonché quale differenza intercorra tra eserciti ‘barbari’ e truppe costituite da «coloro che sono stati allevati nella cultura, nelle leggi e nelle consuetudini civili» (I 65 7). Ma, soprattutto, nella parte conclusiva del libro VI P. propone un’organica formulazione della tesi sull’inferiorità delle armi mercenarie, facendo anzi del ricorso ad armi cittadine un fattore dirimente per valutare la bontà di una costituzione. Confrontando, infatti, la costituzione romana e quella cartaginese (VI 51-56), P. riconosce come uno dei segni della superiorità del sistema romano il fatto che Roma non ricorra a mercenari, come Cartagine, ma a «propri uomini», la cui opera è molto più efficace, «poiché si battono per difendere la patria e i figli» e «continuano a lottare all’ultimo respiro finché non hanno il sopravvento sui nemici» (VI 52 5-7).
Agli esempi storici ricavati da P. vanno affiancate le informazioni di argomento militare di cui sono ricchi gli excerpta del VI libro delle Storie (capp. 1942), e che M. utilizza in maniera pressocché sistematica nell’Arte della guerra (da qui in poi anche abbreviato in Adg). Si tratta in genere di riprese puntuali relative a dati di carattere strettamente tecnico. Il primo caso rilevante è offerto da Adg I 212-16, dove, parlando delle modalità di arruolamento dell’esercito romano da parte dei consoli, M. riprende P. VI 19-20, traducendone alcuni passi quasi letteralmente (meno evidente forse il legame con P. VI 20 in Adg I 261-62, segnalato dai commentatori). Informazioni di carattere quasi archeologico-antiquario M. ricava a proposito dell’armamento romano nel libro II dell’Arte della guerra: è il caso della descrizione dello scudo romano (Adg II 5) che segue fedelmente P. VI 23 o della descrizione dell’armamento dei cavalieri romani (Adg II 20-22), che riprende P. VI 25. Lo storico greco (VI 20 e 26) sembra una possibile fonte di informazione sul numero dei soldati di una legione romana (in Adg III 41-42); e da lui sembra derivare anche la tripartizione delle principali azioni della legione («marcia» [porèia], accampamento [stratopedèia] e schieramento [paràtaxis]; VI 26 11) cui M. accenna in Adg III 44 (le «tre azioni principali» del «camminare, alloggiare e combattere»).
Adg V 4-6 (sull’ordine dell’esercito romano in marcia) sembrerebbe riprendere P. VI 40 4-7. Da VI 37 e segg. sono poi tratte le informazioni sulle punizioni dei soldati romani e sui mezzi per il mantenimento della disciplina (Adg VI 111 e segg.). Ricordiamo infine (ma l’elenco non vuole essere esaustivo) Adg VI 13-17, dove – parlando degli accampamenti romani – M. osserva che, diversamente dai Greci, che preferivano servirsi delle difese naturali del territorio, i Romani preferivano ricorrere unicamente all’«arte», e costruivano l’accampamento utilizzando sempre lo stesso schema. L’osservazione è ripresa da P. VI 42, ma M. sviluppa le brevi considerazioni della fonte (sull’attivismo romano, sul non ritrarsi di fronte alla fatica) con implicazioni concettualmente interessanti: il dominio sul territorio è un’articolazione di quel rapporto agonistico con la realtà esterna che richiama, su un piano più generale, la dicotomia virtù/fortuna («i Romani [...] volevano che il sito ubbidisse a loro, non loro al sito», § 15).
Il nesso strettissimo tra successo politico e conquista è, nelle pagine di P., il presupposto dichiarato dell’indagine costituzionale proposta nel libro VI. Lo storico di Megalopoli parla in VI 1 1 di una specificità costituzionale (e tou politèumatos idiòtes) che consentì a Roma di ottenere un vastissimo dominio (dynastèia); un rapporto necessario tra forma costituzionale e successo militare che egli interpreta come l’oggetto di un sapere politico individuabile e trasmissibile: cosa «utilissima» (ofelimòtaton) risultando appunto «il poter conoscere (gnònai) e apprendere (mathèin) come e per mezzo di qual genere di costituzione (tini ghènei politèias) quasi l’intero mondo abitato (oikoumène)» (VI 2 3) sia stato assoggettato dai Romani. Il motivo (a prescindere da cosa, e come, M. leggesse dei frammenti del libro VI) è comunque ben presente anche nel P. dei primi libri, da tempo a stampa in traduzione latina: come bene segnala il ricordato incipit delle Storie (I 1) che sottolinea come la forma costituzionale («regendi genus») abbia fatto sì che i popoli di quasi tutto il mondo abitato venissero soggiogati a Roma («universae totius fere orbis nationes [...] imperio populi romani subiectae fuerint», come si legge nella traduzione di Perotti). Sono dunque indicazioni esplicite, che suggeriscono la possibilità che a quelle pagine M. si sia avvicinato con piena consapevolezza; e con la curiosità di chi cercava nella ‘lezione’ degli antichi, se non risposte preconfezionate (e non sarà così, come si vedrà, per il pensiero costituzionale di P.), certo indicazioni utili per riorganizzare in un quadro teoricamente coerente le molteplici sollecitazioni che l’osservazione del mondo variegato della politica gli squadernava. Si tratta di una lettura che va forse collegata con gli interessi ‘politologici’ e di materia costituzionale di cui M. aveva dato prova, attorno al 1510, nei ‘ritratti’ di Francia e Germania (Inglese 1992, poi 2006, pp. 109-10).
Discorsi I ii presenta evidenti contatti (che diventano in più parti una vera e propria traduzione/parafrasi) con molti punti del VI libro di Polibio. Già nei primi capitoli del libro VI P. propone l’ideale di una forma ‘mista’ di costituzione, capace di mettere insieme gli elementi caratteristici delle forme costituzionali ‘particolari’ (o forme ‘semplici’), che sono monarchia, aristocrazia e democrazia (cui vanno aggiunte le corrispondenti forme negative o degenerate: tirannide, oligarchia e oclocrazia): una soluzione che realizza una superiore armonia delle componenti politico-sociali («È chiaro che si deve considerare come migliore costituzione quella che consiste dell’unione di tutte le forme particolari», VI 3 7). Il tema della costituzione mista (→) era canonico nel pensiero politico antico (e come tale ben noto agli umanisti del Quattrocento): cfr. almeno Tucidide (VIII 97), Platone (Leggi 712 d-e; a proposito della costituzione ‘mista’ di Sparta) e la Politica di Aristotele (1265 b e 1294 a-b). Una novità era invece, per la cultura europea, la teoria polibiana che individuava nel continuo passaggio da una forma costituzionale semplice all’altra il ‘naturale’ percorso storico delle istituzioni dello Stato: una teoria che affascinò M. proprio in quanto proponeva una visione dinamica delle forme costituzionali, riconoscendo come componente ineliminabile della realtà i processi degenerativi caratteristici di ogni fenomeno mondano (un’idea che a M. era, per così dire, connaturata – si pensi a Discorsi III i – ma trovava conferma nelle pagine ‘costituzionali’ di P., che in VI 51 4 enuncia la regola generale per cui «in ogni corpo, in ogni costituzione, in ogni azione ci sono, secondo natura, una crescita [àuxesis], poi un momento culminante [akmè] e infine un declino [phthisis]»). Ogni forma semplice retta (monarchia, aristocrazia e democrazia), secondo P., degenera nella corrispondente forma negativa; e lo fa attraverso un processo ‘naturale’ (katà physin e physicòs: sono termini ricorrenti nel testo polibiano), e in quanto naturale ‘necessario’, di carattere ciclico, che lo storico greco presenta come un processo inevitabile, una vera e propria ‘legge’ evolutiva delle forme politiche, che P. racconta in una sorta di storia ideale o storia-paradigma nei capp. 5-9 del VI libro delle Storie. Questo, dunque, lo schema polibiano, che M. parafrasa, riassumendolo, in Discorsi I ii 14-23. Il governo di uno (la prima forma di governo che l’umanità, uscendo dallo stato ferino, adotta: espressione primigenia ed elementare di governo del più forte, non a caso caratteristica anche delle comunità animali) si perfeziona gradualmente in una forma più evoluta che concede spazio al sorgere, nella comunità, della distinzione morale tra il giusto e l’ingiusto (P. distingue, infatti, in VI 6 tra monarchìa, governo del più forte, e basilèia, governo del più giusto); nondimeno il governo di uno, una volta passato nelle mani dei discendenti, non scelti per il loro valore, ma per diritto ereditario, evolverà presto in tirannide. A essa, divenuta insopportabile per i sudditi, subentra l’aristocrazia (VI 8), cioè il governo dei migliori e dei più coraggiosi che hanno rovesciato il tiranno; degenerata l’aristocrazia nel governo arbitrario e dispotico dell’oligarchia (governo dei pochi, privilegiati per nascita), il popolo si ribellerà alle molte ingiustizie subite, dando vita alla democrazia, a sua volta destinata a degenerare nell’oclocrazia: governo caratterizzato dal mancato rispetto delle leggi e dal sistematico uso della forza da parte della massa sfrenata. A questo punto «ridotta a uno stato bestiale», la massa ritroverà «un despota e un monarca» (appunto un mònarchos, non un basilèus, presupponendo dunque un ritorno alla condizione primitiva e prepolitica dalla quale sorgerà di nuovo la prima e ‘animale’ forma di governo di uno: non a caso la distinzione tra mònarchos e basilèus, uno dei molti tratti che connotano in senso astratto lo schema polibiano, viene lasciata cadere nella parafrasi machiavelliana, che parla solo di un ritorno, dopo la degenerazione democratica, «al principato», Discorsi I ii 23). «Questa – conclude P. (VI 10 1) – è l’evoluzione ciclica (anakỳklosis) delle costituzioni, questa è la direzione data alle cose dalla natura (phỳseos oikonomìa)»; parole che M. richiama a conclusione del suo riassunto-parafrasi della teoria dello storico greco: «Questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano» (Discorsi I ii 24; corsivo nostro).
A Licurgo P. riconosce il merito di avere compreso l’imperfezione delle forme semplici (destinate a degenerare in breve tempo nella corrispondente forma negativa), creando per Sparta una costituzione che riunisse «insieme tutte le virtù e particolarità dei sistemi politici migliori» («tas aretàs kai tas idiòtetas ton arìston politeumàton», VI 10 6), in modo tale da creare un sistema bilanciato, in cui nessuna delle singole forme prevalesse (esponendosi così alla sua ‘naturale’ degenerazione), ma «il sistema politico restasse a lungo in equilibrio e bilanciato, sempre secondo il principio della compensazione (katà ton ten antiplòias logon)» (VI 10 7). Non diversamente, conclude P., i Romani seppero creare un analogo bilanciamento, anche se ciò non avvenne, come a Sparta, grazie a una sola riforma organica frutto del ragionamento (dia logou), ma avvenne per progressivi aggiustamenti (dia pollòn àgonon kai pràgmaton): distinzione che M. riprende in Discorsi I ii 30 («quello che non aveva fatto uno ordinatore lo fece il caso»; dove ‘caso’ altro non è che la storia stessa, con i suoi imprevedibili percorsi).
C’è, tuttavia, nella teoria polibiana una contraddizione (cfr. Sasso 1987, 1° vol., pp. 22 e segg.): se il processo ‘ciclico’ descritto è ‘naturale’ e ‘necessario’, come può la soluzione ‘mista’ (cioè un intervento umano e razionale) interromperlo? Una contraddizione che M. sembra in qualche modo intuire, inserendo nella sua parafrasi alcune differenze che, di fatto, reinterpretano, mutandola radicalmente, la fonte. M. segnala infatti il carattere astratto e non storico di un «cerchio» pensato come un processo ‘naturale’ e necessario, qualcosa che definisca una sorta di destino biologico dello Stato, un suo percorso ineludibile di sviluppo e morte. Se P. teorizza la possibilità di stabilire con sicurezza a quale punto del suo sviluppo una certa costituzione si trovi («Chi ha ben compreso ciò [...] raramente potrà commettere errori nel dire a che punto della crescita o della dissoluzione ciascuna si trovi», VI 9 11), M. esplicitamente indica il carattere ‘ideale’ di un processo che rappresenta sì una tendenza profonda della storia, ma non può costituire la descrizione di un percorso reale. Come abbiamo visto, M. scrive nel § 24 che «questo è il cerchio» in cui le repubbliche ‘girano’, ma subito aggiunge una avversativa che limita radicalmente la portata della ‘legge’: «ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi, perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazione e rimanere in piede». Segnalando l’astrattezza del disegno polibiano, M. lo reinterpreta come un processo non già ‘biologico’, ma come una tendenza che affonda le radici nella dinamica profonda delle passioni e dei desideri umani. Non il ‘cerchio’ interessa a M., con la sua rigida norma del ritorno all’eguale, ma quella particolare legge degenerativa del potere che determina l’instabilità delle forme politiche, di tutte le forme politiche. La canonica distinzione fra le tre forme rette e le tre forme degenerate di governo perde, infatti, nella reinterpretazione machiavelliana del ‘ciclo’ ogni nettezza. Se in P. le tre forme positive conoscono l’imperfezione della scarsa durata, in M. la negatività di tutte e sei le forme semplici è radicale. Esse sono, addirittura, ‘pestifere’: «Dico adunque che tutti i detti modi [monarchia/tirannide; aristocrazia/oligarchia; democrazia/’licenza’] sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni e per la malignità che è ne’ tre rei» (Discorsi I ii 26). Destinate in poco tempo a trasformarsi nella corrispondente forma negativa, le forme rette esprimono con drammatica evidenza la tendenza alla degenerazione che caratterizza ogni forma di potere non controllato e non adeguatamente bilanciato. Ma il processo degenerativo non può non riguardare anche una forma ‘mista’ di governo, non concepita da M. come sottratta, una volta per sempre, ai processi di corruzione, ma come un equilibrio dinamico di forze in contrasto che – come tutte le cose del mondo – rimane però esposta al pericolo della crisi, al rischio della deflagrazione violenta delle passioni e all’esplosione barbarica degli interessi particolari. Ogni astrattismo costituzionale viene così superato in nome di una visione dinamica e drammatica, a un tempo, dei processi storici: un sistema ‘misto’ rende possibile l’equilibrio dinamico delle componenti dello Stato, che diviene perciò durevole, ma civismo e superamento degli interessi egoistici, individuali o di classe – in una parola: la ‘virtù’ della repubblica – non può che essere una difficile conquista che si ripropone, generazione dopo generazione.
Si realizza così un processo di appropriazione e reinterpretazione della fonte che contrassegna una forma intellettualmente altissima di ‘lezione’ degli antichi. Il ‘cerchio’ teorizzato da P., da legge storica qual è nelle pagine dello scrittore greco, ha consentito a M. di mettere in rilievo una legge ‘politica’: ogni potere degenera se non è ‘guardato’, se non è sottoposto al controllo esercitato dalle componenti politico-sociali che, all’interno dello Stato, sono portatrici di interessi diversi. Una considerazione che solo all’apparenza si collega all’ideale classico del governo ‘misto’: essa non costituisce, infatti, un generico richiamo all’armonia delle parti (come in P. che parla, come abbiamo visto, di una sorta di principio fisico-geometrico, quello della ‘compensazione’, antìploia), ma è fondata su un’idea conflittuale dei rapporti di potere e della contrapposizione degli «umori». Scrive, infatti, M.: «Talché, avendo quelli che prudentemente ordinano leggi conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di questi modi per se stesso, ne elessero uno che partecipasse di tutti, giudicandolo più fermo e più stabile, perché l’uno guarda l’altro» (Discorsi I ii 27; corsivo nostro). E sono parole, come bene si vede, che richiamano il campo semantico del ‘guardare’ (nel senso di ‘controllare’), che in Discorsi I iv-v assurgerà a vera e propria categoria politico-costituzionale nel concetto di «guardia della libertà», che – individuata da M. in un soggetto specifico, il popolo rappresentato dal Tribunato della plebe – fonderà il principale argomento a favore dell’eccellenza romana su ogni altra costituzione ‘mista’ storicamente data (cioè sul modello antico di Sparta e su quello moderno di Venezia). E anche nel fatto che l’elemento ‘popolare’ della costituzione romana sia da M. individuato nel Tribunato – vale a dire in una magistratura dal carattere fortemente antagonista rispetto all’aristocrazia (agendo i tribuni tramite il ‘veto’ alle proposte di legge) – è il segno di una divergenza, rispetto al testo polibiano, che marca anche una diversa concezione del conflitto politico: P. individua, infatti, l’elemento popolare della costituzione mista romana nelle Assemblee (Pedullà 2011, pp. 115 e segg.).
È stato spesso notato che lo schema polibiano dell’anakỳklosis proposto in Discorsi I ii non fornisce un criterio-guida adottato anche nei capitoli che lo seguono (iii-v); nei quali la Repubblica romana (al centro dell’analisi dello scrittore) appare invece caratterizzata da due componenti (non tre), quella dell’aristocrazia («grandi») e quella del popolo (plebe). Né la «guardia della libertà» affidata al popolo (attraverso il Tribunato) realizza quel reciproco controllo di tutte le componenti («l’uno guarda l’altro», § 27) che costituirebbe l’anima della costituzione ‘mista’. Di qui qualche studioso ha derivato l’ipotesi (Larivaille 1982, pp. 161-62 e 171; Bausi 1985, pp. 14-23) che il cap. ii del libro I appartenga a un’altezza cronologicamente diversa da quelli che lo seguono, e vada collegato alla fase di pensiero cui appartiene il Discursus florentinarum rerum (inverno 1520-21) che teorizza la necessità costituzionale di «dare luogo» (offrire rappresentanza) a tutte le componenti politico-sociali di uno Stato («primi, mezzani e ultimi», Discursus, § 57). Va però notato che la congruenza si limita al dato generico della compresenza rappresentativa di componenti diverse dello Stato; mentre, infatti, in Discorsi I ii parla di forme istituzionali, quella del Discursus è una tripartizione sociale (né è certo possibile identificare i «primi» del Discursus, cioè l’antica aristocrazia cittadina che aspira alle più alte cariche, con la componente monarchica del governo ‘misto’ polibiano).
Non è da escludere che il richiamo all’anakỳklosis da parte di M. rispondesse a un’esigenza di nobilitazione culturale del testo, richiamando una teoria non priva di un certo sapore di novità. Una teoria, soprattutto, che, a prescindere dai dettagli, fungeva da catalizzatore di una lezione più profonda: che non consisteva nella tripartizione (o esapartizione) delle forme ricomposte nella miktè, ma nella legge della necessaria degenerazione/corruzione del potere non contrappesato da forze con esso in conflitto. Non l’equilibrio delle forme aveva letto M. in P., ma la positiva conflittualità degli interessi tradotta in una ‘guardia’ istituzionale. A questo proposito va segnalata una recente proposta (Pedullà 2011), secondo la quale la lettura diretta di P. da parte di M. possa essere stata mediata dalle Antiquitates di Dionigi di Alicarnasso, testo assai diffuso nelle Firenze di fine Quattrocento - inizio Cinquecento, e disponibile nella versione latina di Lampugnino Birago (stampa nel 1480). Proprio in Dionigi (Antiquitates VII 56-57) si troverebbe (assieme ad altri motivi che potrebbero avere suggestionato M.) quello spostamento d’accento per cui, all’interno della costituzione ‘mista’, l’elemento popolare è appunto connotato non da una generica rappresentanza, ma dal controllo (la ‘guardia’, appunto) esercitato tramite il diritto dei tribuni di accusare pubblicamente i magistrati che travalicassero i limiti del loro potere.
Da P. (che al confronto tra Roma e le altre costituzioni dedica i capp. 43 e segg. del VI libro) M. trae anche lo spunto per l’affermazione della superiorità del modello romano sulla costituzione ‘mista’ spartana che, se pure durò quanto nessun’altra («[Licurgo] permise agli Spartani di conservare la libertà per il più lungo periodo di cui siamo a conoscenza», VI 10 11), si rivelò tuttavia adatta solo a garantire stabilità e durata in un piccolo Stato, ma «per chi abbia ambizioni più vaste [...] e divenire signore e padrone di molti [popoli]» – per chi voglia insomma perseguire una politica espansiva e di potenza – «il sistema politico [...] dei Romani è superiore» (VI 50 3-4). Un giudizio che, come è noto, M. allarga alla costituzione ‘moderna’ di Venezia (Discorsi I vi), come Sparta durevole e stabile, ma inadatta a sostenere una politica militarmente aggressiva (la disfatta di Agnadello del 1509 lo aveva dimostrato): un giudizio espresso da M. con l’evidente intento polemico di contrapporsi al mito di Venezia, un modello caro agli oligarchi fiorentini, che nei primi del Cinquecento propugnavano una riforma in direzione aristocratica della Repubblica. Non più che uno spunto M. trae dallo storico greco: l’argomentazione su cui si regge la dimostrazione della superiorità romana è infatti tutta fondata sull’idea della drammatica instabilità delle sorti umane, su quel perenne moto delle ‘cose’ («sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino», Discorsi I vi 34) che caratterizza la conflittualità permanente della politica, e che rende perciò più sicura (perché non soggetta alla volontà, non controllabile, degli esterni) una politica di conquista. Di nuovo, le teorie polibiane sono così riformulate sulla base di una sensibilità storica che è solum machiavelliana: fondata sulla consapevolezza dell’imprevedibilità della storia e dei suoi giochi inafferrabili, che escludono ogni ideale politico fondato sull’irenica perfezione di forme immobili e intangibili, date una volta per sempre.
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