Vedi POLICLETO dell'anno: 1965 - 1996
POLICLETO (Πολύκλειτος; Polycletus, Polyclitus)
Scultore, prevalentemente bronzista. Le notizie biografiche fondamentali sono talvolta dubbie, data l'ambiguità delle fonti per l'esistenza di omonimi. P. è infatti il rappresentante più insigne di una famiglia di artisti attivi a Sicione ed Argo. La tradizione lo dice concordemente argivo, ad eccezione di Plinio (Nat. hist., xxxiv, ss) che lo chiama sicionio, ripetendo forse un'invenzione della storiografia sicionia alla quale egli attinse. Lo stesso autore riferisce che suo maestro fu Hageladas. Il fatto è possibile in quanto del grande maestro argivo di stile severo si ricordano opere fin quasi alla metà del V sec. a. C., quando P., che nel 420 era all' acmè della sua opera e nel 435 aveva figli ventenni, doveva essere all'incirca trentenne.
La sua attività si svolge su una trama fondamentalmente ricomponibile. Le prime statue parrebbero essere di atleti vincitori ad Olimpia, ricordati da Pausania (vi, 4, ii; vi, 7, 10; vi, 9, 2; vi, 13, 6), stando solo alla cronologia delle loro vittorie. Ma la data di creazione va fissata sull'esame delle basi fortunatamente ritrovate ad Olimpia (I.G.B., 50, 91, 90, 92). Del Kyniskos di Mantinea, vincitore nel pugilato dei fanciulli nell'Olimpiade lxxix o lxxx (464-460) la base è databile intorno al 450: il primo e unico punto fermo della giovinezza di Policleto. Altre basi (Pythokles di Elide, Xenokles di Mainalon, Aristion di Epidauro) sono assai più tarde, al punto da esser disputate, in parte, con un P. più giovane.
Un secondo punto fermo nella vita di P. è costituito dal suo soggiorno ad Atene. Ivi fece un ritratto dell'ingegnere militare di Pericle, Artemone detto periphorètos (Plin., Nat. hist., xxxiv, 56). Callia, il negoziatore ateniese della pace che porta il suo nome, non ebbe invece il ritratto da P. perché il figlio temeva che la fama del maestro oscurasse quella del padre (Aelian., Var. Hist., xiv, 16), preoccupazione non ingiustificata se si pensa ai nomi con cui sono noti varî capolavori policletei. Da porre in rapporto con il soggiorno ateniese di P. è forse anche la notizia senofontea (Memorab., iii, 10, 6) di un dialogo tra Socrate e un Kleiton, grande artista plasmatore di atleti, nel cui nome è probabilmente nascosto quello del grande artista argivo. Anche la creazione di una Amazzone per Efeso (Plin., Nat. hist., XXXIV, 53), in gara con l'attico Fidia e col cretese, ma atticizzato, Kresilas attorno al 435, fa pensare ad un concreto contatto di P. con Atene. Se la portata artistica di questo contatto è ben precisabile nelle opere stesse, la estensione cronologica di tale soggiorno è solo approssimativamente definibile nel decennio 440-43o.
Il terzo punto fermo della cronologia policletea è costituito dall'incarico dato al maestro di creare la statua crisoelefantina di Hera per il nuovo tempio dell'Heraion argivo, dopo il 423 a. C. Poiché Plinio segna l'acmè di P., certo per la sua opera di maggior impegno, nella XC Olimpiade (420-417), non è difficile considerare tale data come quella della creazione dell'Hera argiva.
La fine dell'attività artistica di P. non è nota; dopo l'Hera non si può ricordare nessun'altra opera certa. L'Afrodite di Amyklai, dedicata dopo la vittoria di Egospotami (405 a. C.) ed opera di un P. (Paus., iii, 18, 7), deve ormai essere dell'omonimo più giovane; così come lo Zeus Meilìchios di Argo (Paus., ii, 20, i) e Latona, Apollo e Artemide del santuario di Artemide Orthìa presso Tegea (Paus., ii, 24, 5), opere tutte di marmo bianco che sarebbero casi singolari nell'attività bronzistica di Policleto.
Altre opere di P., tutte di bronzo, sono ricordate, senza riferimento cronologico e quasi sempre senza indicazione topografica, da Plinio (Nat. hist., XXXIV, 55-56): il Diadumeno, il Doriforo, il Canone (opera programmatica che avrebbe esposto i principî teorico-artistici del maestro sulla base di un suo scritto ugualmente intitolato: forse una cosa sola col Doriforo), un Destringens se o Apoxyòmenos, un Nudus talo incessens (opera di discussa esegesi forse rappresentante un Astragalobòlos nel gioco della tropa), due Astragalìzontes, un Hermes già a Lisimachia, un Eracle che era a Roma, l'Hageter arma sumens (opera molto discussa e dubbia: forse un comandante in atto di armarsi) e l'Artemone già citato. Fuori dell'elenco pliniano sono ancora da ricordare due Canephorae, già nella collezione di C. Heius a Messina (Cic., Verr., iv, 3, 5). Molte tra le opere citate sono lettera morta o tutt'al più ci documentano gli interessi e gli aspetti più esterni dell'attività di Policleto. Per una conoscenza più diretta dei problemi della sua arte la tradizione monumentale ci ha tuttavia conservato un patrimonio non trascurabile, parzialmente da connettersi con le opere ricordate.
Di P., come di pochi altri artisti greci, conosciamo alcune opere sicure, indiscusse, sia pure solamente in copie di età tardo ellenistica e romana (come il Doriforo e il Diadumeno) e altre facilmente attribuibili così da poter seguire i momenti fondamentali della sua attività. Tali copie di età romana, per lo più in marmo, solo approssimativamente ricordano l'originale bronzeo di P., il maestro che più di ogni altro, per esplicita affermazione degli autori (Plin., Nat. hist., xxxiv, 56; Quintil., Inst. orat., xii, 7; Plut., Quaest. conv., Il, 3, 2), aveva raggiunto una "perfezione" nel lavoro del bronzo, tale da definirlo maestro insuperato.
Nonostante questa conoscenza mediata, in base alla trama cronologica dataci dalle fonti e agli sviluppi stilistici che in un artista rigorosamente formale come P. non possono non essere disposti lungo un arco evolutivo di progressivi arricchimenti, è stata già da tempo fissata la successione delle sue opere.
La prima statua attribuitagli ormai concordemente è un Discoforo. Pur essendo lavoro giovanile dovette subito qualificare i principî della sua arte. Rappresenta un efebo stante, in una ponderazione che è ancora quella degli Apollini di stile severo, come l'Apollo dell'Omphalos. Nulla di nuovo quindi rispetto ad un'assai comune tipologia dell'atleta vincitore. Ma sul piano formale è ormai superato ogni rapporto con la tradizione arcaica. Nel movimento degli arti si notano quelle soluzioni di chiasmo che caratterizzano tutta l'opera successiva del maestro. Accanto a questo più vistoso mutamento sarebbe da ricordare la novità di altri caratteri policletei, qui non ancora maturati. I piani muscolari sono infatti ancora sentiti severamente, quasi complessi separati. La chioma già configurata nelle tipiche ciocche a fiammella forma una calotta molto compatta, bassa sulla fronte e non ancora bipartita. Anche il profilo del cranio e i lineamenti del volto concorrono a collocare il Discoforo in testa alla serie delle opere di P., tra il 460 e il 450. L'opera non è ricordata dalle fonti né è possibile proporre una identificazione con qualcuno degli atleti policletei già ricordati. La base di Xenokles presenta impronte uguali a quelle della nostra statua, ma non è indiscutibilmente certa la sua attribuzione a P. il grande, per non dire che Xenokles era stato vincitore nel pugilato dei fanciulli e non nel pèntathlon.
Attraverso una documentazione di copie, numericamente e qualitativamente più scarse dell'opera precedente, ci è nota una seconda opera di P.: un Hermes, forse il Mercurius qui fuit Lysimacheae. Certe particolarità, ancora di tradizione, non permettono di oltrepassare il momento del Doriforo. D'altra parte è già presente con la ponderazione nuova (gamba in riposo portata indietro) una serie di fatti stilistici più recenti di quelli del Discoforo, per cui viene proposta una datazione attorno alla metà del secolo.
Una terza opera è da ascrivere alla giovinezza di P. sia sulla base dell'analisi stilistica sia sulla base - ipotetica, ma molto probabile dell'identificazione dell'opera con il Kyniskos di Mantinea. I casselli della sua base di Olimpia possono essere esattamente coperti dalle orme di un tipo statuario policleteo riccamente documentato in copie e noto, dalla più completa, come l'Efebo Westmacott. Anche a prescindere da questa coincidenza, che è significativa in quanto riferita ad una impostazione dei piedi insolita in P. e che potrebbe perciò fissare anche il primo caposaldo cronologico della sua attività, l'analisi formale del tipo Westmacott porta, nonostante isolati tentativi anche recenti di datazione bassa, ad uno stadio ancor precedente alla formulazione canonica del Doriforo. Il tema torna ad essere come nel Discoforo: un adolescente stante, presentato vincitore. Ma il problema formale è nuovo. Il lato destro della figura, che in tutte le opere policletee è portante e chiuso nelle masse muscolari contratte, qui si distende e si apre. Non si ha tuttavia solo questa inversione speculare del ritmo più comunemente seguito da Policleto. L'efebo china sensibilmente il capo alla sua destra e innalza verso di esso il braccio rispettivo in un gesto che è comunemente interpretato di autoincoronazione e che ha un preciso scopo formale. Crea infatti una zona d'ombra sul viso modestamente chino e si inserisce nel ritmo di una linea di contorno che sale dal piede destro fino al capo per discendere ad ampio arco fino al piede sinistro fermo. Nelle due prime opere ricordate le braccia avevano ancora uno scopo illustrativo, nell'Efebo Westmacott (anche accettando la recentissima ipotesi dello Hafner, secondo la quale il giovane avrebbe tenuto nella destra alzata uno strigile, così da stabilire l'equazione non priva di fondamento: Kyniskos = destringens se) la disposizione delle braccia risponde prevalentemente ad esigenze ritmiche e. apre la strada a tutte le soluzioni successive, fino all'opera in tal senso compiuta del Diadumeno. Si propone una datazione attorno al 450, consolidata dal fatto che gli accenti policletei presenti nel fregio partenonico possono ascendere a questo tipo più che a qualsiasi altro del maestro argivo.
La conclusione delle ricerche stilistiche di armonia, simmetria e ritmo, già rilevate nelle opere giovanili di P., si ha nel Doriforo: è la sintesi della sua giovinezza e l'espressione della raggiunta maturità, al punto di poterne significare esemplarmente lo stile. Nonostante la ricca documentazione di copie (con il Diadumeno è l'opera più copiata della scultura greca, subito dopo la Cnidia di Prassitele) e le numerose citazioni nelle fonti antiche, l'originario valore rappresentativo della statua resta ancora ipotetico (Achille? un atleta?). Poiché l'opera, per attestazione di alcuni documenti di artigianato, doveva trovarsi ad Argo, nella sede cioè della bottega di P., è possibile vi sia stata fatta dal maestro, non per commissione, ma come manifesto dei suoi principî artistici. Non doveva rappresentare quindi né una figura del mito, nè un atleta vincitore (Argo non era sede di giochi), ma semplicemente esemplificare il raggiunto equilibrio della sua visione artistica. Il fatto potrebbe sembrare eccezionale nella cultura greca classica, e questa eccezionalità infatti non era sfuggita agli antichi se è vera, come ormai si crede, la coincidenza del Doriforo con la statua detta Canone e se è attendibile la notizia pliniana che con quest'opera P. - solo fra tutti - volle rappresentare l'arte stessa. Senza contare che la sua forza magistrale, messa in luce da Plinio (liniamenta artis ex eo petentes veluti a lege quadam) trova un effettivo corrispondente concreto nella fortuna non solo iconografica avuta dal Doriforo e da nessun'altra opera policletea, quanto da esso - dalla seconda metà del V sec. a. C. fino in età romana. A prescindere comunque dall'intenzionale significato dell'originale, il valore del Dorioro è proclamato dai suoi caratteri intrinseci rivelati, attraverso la critica delle copie, nelle repliche presumibilmente più fedeli (l'erma bronzea di Apollonios per la testa, il torso basaltico degli Uffizi per la lettura dei piani muscolari, le statue di Napoli 6011 e Uffizî 75 per il ritmo generale). La novità della ponderazione su un unico piede porta con sé qui anche tutta una serie di contrapposti in equilibrio e di corrispondenze a chiasmo nell'impianto generale della figura, così come in particolari sezioni di essa: troppo note per dover essere nuovamente ripetute. Quello che merita d'essere ancora una volta sottolineato è la perfetta coerenza di linguaggio che lega le diverse componenti dell'opera, dalle più generali quali la sintassi degli assi di movimento e la linea di contorno, alle più semplici, quali i particolari minuti dell'esecuzione. Una coerenza che non significa univocità di forme ma fedeltà ad una ispirazione controllata da una "vigile razionalità" che fa dell'opera policletea la statua "classica" per eccellenza, il frutto di un equilibrio perfetto. L'opera è datata fra il 450 e il 440 su basi di cronologia relativa, senza dubbio prima del periodo ateniese.
Un'altra opera va ricordata prima di questo importante contatto con l'Attica, un'opera particolarmente legata al Doriforo, così da essere stata, nella letteratura archeologica, parzialmente confusa con esso: un Eracle nella consueta ponderazione, con la mano sinistra appoggiata al fianco e la destra alla clava, forse l'Herakles qui Romae. L'opera è nota in più copie. Caratteristica, perché unica nella tradizione policletea, una classe di varie repliche di formato ridotto., tra cui va ricordata la statuetta Barracco che più di tutte dà il motivo generale della figura. I caratteri stilistici originali vanno tuttavia ricercati in altri documenti quali il torso del Museo delle Terme e la testa di un'erma bronzea da Ercolano. E dall'esame attento di questi docuinenti che l'Eracle rivela una generale dipendenza dal Doriforo: i punti di contatto sono tuttavia già superati da esigenze che preparano l'ultima fase dell'attività del maestro. La pacatezza dei piani plastici delle opere del primo periodo diventa qui più drammatica, più colorita; le masse muscolari acquistano un risalto che solo in parte dovette essere motivato dal soggetto. Anche la calotta dei capelli non è più piatta, a ciocche di uniforme spessore; acquista varietà e una dinamicità più espressa di quella, suggerita, solo potenzialmente, dalle ciocche uncinate e a fiammella del Doriforo. Nei tratti del volto cominciano ad apparire annotazioni di colore e di sentimento assenti nelle prime opere. Se dall'esame analitico si passa all'osservazione generale del monumento, non è difficile rilevare una euritmia che porta a maturazione le esigenze già affermate nel Kyniskos. In rapporto a tale opera va ricordata una testa dell'Antiquarium del Celio, sfortunatamente ancora isolata nella tradizione copistica policletea, con caratteri di stile vicinissimi a quelli dell'Eracle, da datarsi pertanto al 440 circa. Tale sfortuna di tradizione sarebbe condivisa da una statuetta di Eracle del Museo dell'Università di Würzburg, se potessimo ravvisarvi, senza riserve sul piano dello stile, un Eracle che regge l'Idra sul braccio, un'opera supposta dal Ferri in base ad un suo emendamento del testo pliniano: problema esclusivamente filologico che non tocca, almeno per oggi, la realtà monumentale dell'opera policletea.
A questa prima serie di opere, tutte peloponnesiache, fa seguito una triade fondamentale per la conoscenza degli sviluppi stilistici di P. durante e in seguito al suo soggiorno ateniese: l'Amazzone del 435 circa, la statua crisoelefantina di Hera del 420 circa e, forse fra le due, il Diadumeno.
L'Amazzone policletea fu fatta, secondo l'aneddoto pliniano, in concorso con Fidia, Kresilas e Phradmon per il santuario efesino di Artemide: un concorso di discussa validità storica che sarebbe stato vinto da Policleto. Stando alle letture stilistiche più attente e valutando i singoli tipi con una esegesi integrale che li situi nei problemi stilistici delle quattro personalità è indubbio che il tipo-Berlino ha tutti gli elementi per essere ritenuto di Policleto. Conforta l'attribuzione anche la più ricca serie di repliche che distingue questo tipo dagli altri e che, assieme ad un rilievo del teatro di Efeso, ne attesta la superiorità della fortuna, allo stesso grado della notizia pliniana. Due nuovi problemi doveva affrontare P. con quest'opera, il soggetto femminile da un lato, il panneggio dall'altro. Per il secondo era mancata alla sua pratica di modellatore di vibranti superfici muscolari l'occasione di impegnarsi. Assunse pertanto un panneggiare di derivazione fidiaca, leggibile nelle repliche in tal senso più fedeli di Berlino, New York e Copenaghen. Ma nella distribuzione dei suoi elementi fondamentali l'artista tenne fede ai principî peculiari del suo linguaggio. L'equilibrio viene così raggiunto dalla modulazione dei lembi del chitonisco in un rapporto che è interno ad essi e nello stesso tempo in, accordo col movimento del corpo. Il soggetto femminile non toccò come tale l'artista, che infatti nella sua fedelta' a problemi formali-compositivi lo risolse negli stessi termini stilistici della sua scultura di atleti. L'aggiunta di un pilastrino alla sinistra della figura non ha motivi di carattere statico e tanto meno illustrativo; ha una ragione formale di chiusura di una linea di contorno che sale energicamente dal lato destro, si espande nel braccio rispettivo e ricade a sinistra ad equilibrare il lato della gamba flessa: una tappa intermedia tra il Kyniskos e il Diadumeno.
L'esperienza attica confluisce ancor più sensibilmente nel Diadumeno, l'opera più coerente della maturità avanzata di Policleto. Non si può tacere infatti una certa relazione tipologica con l'Anadoùmenos fidiaco e, un po' meno, con uno schema presente nel fregio partenonico. Poiché tuttavia la statua policletea cade nello sviluppo della sua opera quasi con la consequenzialità di un teorema, nei problemi formali non deve essere sottolineato lo spunto iconografico quanto piuttosto l'aumentato senso coloristico delle superfici, la maggior delicatezza e morbidezza del viso e dei capelli, che il maestro dovette assumere dal momento maturo dell'arte fidiaca. Lo spunto iconografico fu una scelta libera e intenzionale di P. per l'espressione compiuta dei due problemi da lui più studiati e sentiti: l'equilibrio armonico, contrappuntistico, della struttura interna, il ritmo concluso della linea di contorno. Il gesto dell'atleta che, vittorioso, cinge la sua chioma con la benda, chiude sul capo, modestamente chino sul lato portante, le linee che salgono dalle gambe e si espandono nelle braccia aperte. Paragonato al Doriforo, come usava fare la letteratura classicheggiante antica, il Diadumeno rivela anche altre novità. L'asse del corpo cade al centro, tra le gambe, non più unicamente su una sola: ùna conseguenza di una nuova impostazione dei piedi. Le masse muscolari del petto accennano ad una elasticità che è già lontana dalla gravità dei piani del Doriforo. È la dimostrazione più eloquente della libertà del ricercare artistico di P., per il quale il vero canone corrispondeva al costante rigore di una problematica formale insita in ogni nuovo atto creativo. Si è discusso, come per il Doriforo, quale potesse essere il valore rappresentativo della statua. Alle vecchie ipotesi che vi volevano ravvisare un Apollo Anadoùmenos o il Pythokles di Elide (per una tentata ma insoddisfacente combinazione con la sua base trovata ad Olimpia), si è sostituita recentemente quella più generica, ma documentata, di un atleta vittorioso di cui non si conosce il nome. La datazione è pertanto suggerita solo per motivi di stile, preferibilmente prima della creazione della Hera argiva, che segna anche il definitivo rientro del maestro in ambito peloponnesiaco.
La nostra conoscenza della statua crisoelefantina di Argo - un impegno che P. dovette assumere senza nascondersi, anche qui, un confronto con Fidia - è ancor più approssimativa di quella concessaci dalle copie per le precedenti opere. In base alla descrizione di Pausania e alla sbiadita raffigurazione di monete argive di epoca antoniniana è possibile ricomporre il tema della Hera. Non si è informati sulle ‛dimensioni del colosso; ma si possono desumere dalle dimensioni del tempio, per cui la statua (alta circa m 5,50) avrebbe raggiunto, con la base, 8 m di altezza. Dimensioni più modeste rispetto ai colossi fidiaci, in accordo con le mutate condizioni storiche e in parallelo con i contemporanei colossi di Alkamenes. Una testa del British Museum è concordemente valutata come lontana derivazione da essa, per caratteri tecnici (ispirazione ad un originale eburneo), per i rapporti con il Diadumeno e, più ancora, con l'Amazzone e per una significativa coincidenza di lineamenti con i profili di Hera che appaiono sulle monete argive della fine del V sec. a. C. Troppo poco comunque per la conoscenza di un'opera che nella tradizione scritta condivide la fama del Doriforo e che nella problematica artistica del maestro dovette rappresentare l'impegno più grave e insolito.
Altre statue, che già ebbero la ventura di essere riferite al maestro, oscillano troppo tra "Policleto" e "policleteismo" perché possano entrare storicamente e a pieno diritto nel quadro della sua opera. Si tratta del Versatore Petworth, del Narkissos, dell'Efebo di Dresda, del Paniskos di Leida, della testa dell'Idolino di Firenze. L'opera dei numerosi allievi di P. non è stata ancora vagliata criticamente - se mai sarà possibile farlo sulla base dei dati troppo scarsi per poter accogliere sculture che, d'altro canto, mancano di quella coerenza formale e di quel legame con la tradizione scritta che sono necessarie per un riferimento indiscusso al maestro. Né al contrario può dire di più il tentativo di riconquista - almeno iconografica - di opere policletee, ricordate nelle fonti, ma non documentate in copie, come il Destringens se e il Nudus talo incessens, dei quali il Brückner pensò di ravvisare un ricordo in alcune stele funerarie attiche. È storicamente più valido in tal senso l'esame di documenti nei quali l'arte di P. agisce più direttamente, come nel bronzetto di Sicione al Museo Nazionale di Atene e in varie opere di scultura attica. Ma sono fatti che entrano già nel problema generale della fortuna policletea nell'antichità che si articola nel duplice aspetto dell'attività artistica e dell'attività critica.
Fatto primo, ma così ovvio da non dovere essere particolarmente sottolineato, è la consistenza veramente impressionante (almeno sul piano filologico delle fonti scritte) della scuola peloponnesiaca di Policleto. Plinio ci dà un elenco di numerosi allievi (Nat. hist., xxxiv, 5o) che ha riscontro in varie basi firmate dei santuarî di Delfi e Olimpia. Due figure dovettero principalmente portare avanti con originalità l'arte di P. fino alle nuove formulazioni canoniche e artistiche di Euphranor e Lisippo alla metà del IV sec. Naukydes e Daidalos. Più significativo è naturalmente il ripercuotersi delle forme policletee nell'ambiente attico, proprio nel momento in cui si stava affermando una grande tradizione nel nome di Fidia. Fino alla pace di Nicia, la ponderazione e il ritmo policleteo stentano ad essere assunti nella statuaria. Solo nelle espressioni più legate al disegno essi sono chiaramente presenti: varie figure del fregio del Partenone e della pittura di lèkythoi a fondo bianco del Pittore di Achille e del Pittore di Thanatos ne sono un documento diretto. Durante i due ultimi decenni del V e agli inizî del IV sec. tale influsso si fa ancora più vivo nel rilievo (rilievo alle divinità eleusinie di Copenaghen, gruppo dei rilievi funerarî ed eroici accentrati attorno alla stele di Chairedemos e Lykeas del museo del Pireo) e diventa attivo anche nella grande statuaria (Ares Borghese, Hera Borghese, Atena Farnese, Korai dell'Eretteo, rielaborazione eleusinia del Kyniskos). È da questo momento che la classicità di P. comincia ad agire non solo per schemi disegnativi e ritmici ma anche per problemi, e non solo in ambito di artigianato, ma nel filone direttivo della scultura greca. Alcuni aspetti dell'arte di Skopas e Prassitele non sarebbero comprensibili prescindendo dalla problematica policletea. Le innovazioni di Lisippo partono pure da P., ma per contrasto e superamento, con l'affermazione di un nuovo canone di rapporti, con l'armonia nello spazio e non sul piano e con l'aggiunta, ai rapporti puramente plastici e di massa della visione policletea, di componenti ottico-psicologiche con cui il maestro di Sicione aprì la via all'ellenismo. Questo, nel suo aspetto più originalmente creativo ignorò P.: né poteva essere diversamente. Ricordi iconografici (come la stele del doriforo della necropoli rodia di Rhodiniò: Bull. Corr. Hell., lxxxiii, 1959, p. 730, fig. 14) si fanno rari e vengono espressi con rinnovate proporzioni. Si è parlato di vitalità dell'arte di P. nella Grecia propria, ma si sarebbe incompleti se non si accennasse ad un certo suo influsso anche perifericamente soprattutto in Etruria (Bianchi Bandinelli, Policleto, flg. 91; Banti, Il mondo degli Etruschi, tavv. 76-77). È tuttavia nell'esplicazione più cosciente del classicismo romano che ritorna il secondo momento della fortuna di Policleto. Le sue opere vengono frequentemente copiate nel rigore di fedeltà più esigente possibile per soddisfare al collezionismo dotto, e nel "variare" caro alla scultura puramente decorativa. La statua virile nuda di P. - su un piano etico o di costume - diventa anche espressione di eroicità, almeno a giudicare dal suo frequente impiego iconografico e prescindendo dalla validità o meno del rapporto tra il passo pliniano relativo alle statue achilleae (Nat. hist., xxxiv, 18) e il Doriforo inteso come Achille. Il ritmo delle sue opere era così penetrato nel concetto romano di eroicità e solennità della rappresentazione, che non è raro trovarlo, forse assunto inconsciamente, in opere nuove, come l'Augusto di Prima Porta e l'Antinoo di Antonianos. Ma tale fortuna ebbe un riflesso forse anche più esteso e capillare nell'eclettismo e nel classicismo della bronzistica minore, soprattutto di età giulio-claudia.
La fortuna di P. nell'attività critica del pensiero antico si articola in due momenti fondamentali, parallelamente alla fortuna nella pratica artistica. Al momento classico va riferita l'attività speculativa di P. stesso come teorico, espressa nel suo scritto intitolato Canone, e il giudizio platonico (Protag., 311 C) che accomuna P. a Fidia come i sommi della scultura. Del trattato di P. - se fu di P. e non di un pitagorico della fine del V sec., come si è recentemente supposto - solo qualche frammento si è salvato indirettamente (Diels, Vorsokr., i, 228, 28; 391; 392, 17). Sulla base di questi scarsi dati si è a lungo discusso per la definizione del modulo che sta alla base dei rapporti semplici della figura umana. Per citare gli estremi del problema, si ricorda che in base all'analisi delle opere di P. tale metro sarebbe dato dall'altezza della testa (Anti), mentre il frammento del Canone farebbe pensare al dito (Ferri). Soluzioni incerte quindi; quanto basta tuttavia per intravvedere una coscienza di artista preoccupato da problemi di armonia e di rapporti numerici. Si è pensato che alla base di questo sistema vi sia la fede pitagorica nel numero, soprattutto nel numero quattro, che nella indistinzione del pensiero di quella scuola compendiava qualità ideali, etiche ed estetiche. La nostra scarsa conoscenza del Canone è parzialmente supplita dai giudizi che gli autori del secondo momento - quello classicistico - danno sull'opera di Policleto. Essi sono quasi tutti compendiati nel giudizio pliniano, ma risalgono - tramite Varrone - alla critica classicistica dell'ellenismo, in particolare a Xenokrates di Sicione. Dopo aver sottolineato il carattere innovatore della ponderazione policletea (proprium eius est, uno crure ut insisterent signa, excogitasse) Plinio riferisce infatti un giudizio che, come ha chiaramente dimostrato il Ferri, appare tradotto o improntato alla terminologia critica greca (quadrata tamen esse ea ait Varro et paene ad exemplum). Quadratus va messo in rapporto con il τετράγωνος della critica letteraria ellenistica e sta a significare un sistema di rapporti chiastici, di simmetrie e di corrispondenze che si vengono a creare sui diversi piani della figura sottoposta alla quadratio. Tale soluzione viene anche ad illuminare lo spirito del Canone, soprattutto quando la si metta alla prova nell'interpretazione di un altro passo pliniano relativo alle innovazioni canoniche di Lisippo (Nat. hist., xxxiv, 65). Fin qui la critica antica studia l'architettura delle figure di P., ma non sono mancati anche accenni più generali. Quintiliano (Inst. orat., xii, 10, 7) annota che in P. è presente diligentia e decor, quel decor che egli diede alla figura umana fin oltre il vero, ma è assente il pondus e quella auctoritas che sono necessarie alla espressione della divinità e che ebbe in sommo grado Fidia. È un riscontro di quel contrasto tra due visioni artistiche che già sottintendeva il consiglio di Socrate allorché, nel ricordo senofonteo più sopra citato, cercava di convincere lo scultore Kleiton sulla necessità di aggiungere all'εἶδος da lui realizzato magistralmente, anche τὰ τῆς ψυχῆς πάϑη. È evidente pertanto come P., sempre secondo Quintiliano, non fosse mai uscito, nella scelta dei suoi temi, dall'età giovanile. Non mancano infine numerosi altri accenni più rapidi relativi a singole opere, alla tecnica e alla sua figura, ricordata sempre al confronto con i più grandi nomi della scultura classica. Ma sono notizie di relativo peso, interessanti più la storia della critica e del gusto; che il giudizio storico sulla figura del maestro argivo.
Se da questa larga base di informazioni e di documenti monumentali volessimo passare ad un giudizio complessivo sul valore di P. nell'arte greca, dovremmo riscontrare la relatività di un giudizio che non può esplicarsi sull'esame diretto delle espressioni originali della sua arte e pertanto privo di vivezza storica. P., come del resto la maggior parte degli scultori del V e del IV sec., è infatti una riconquista della critica instaurata dal Furtwängler, la quale riuscì in questo, più che in altri casi, a darci una visione prossima ai valori originarï dell'artista, per il carattere stesso della sua opera. Sono irrimediabilmente perduti i valori di superficie che, affidati alla reazione del bronzo alla luce, dovevano esaltare la composta dinamicità delle sue figure. Ma ci sono giunti, pur mediati, i valori più profondi della sua opera, che sono valori di struttura interna, di architettura. Il problema statico e volumetrico che era stato il centro d'interesse di tutta una corrente della scultura greca, soprattutto di quella peloponnesiaca, ebbe in P. una soluzione integrale, per unitario concorso di varie componenti. La ponderazione su un'unica gamba non è così invenzione a sè stante: in tal senso non era mancata forse già nella produzione artistica precedente. È uno spunto che crea, per risonanza, l'armonia degli assi del corpo. Non è neppure il raggiungimento di una posa naturalistica, perché le figure di P. non sono né ferme né in marcia, ma nell'equilibrio formale tra stasi e movimento. All'armonia nuova si intreccia una simmetria nuova, una serie di rapporti di una parte con le altre e col tutto che si direbbe geometrica o musicale nello spirito, se non fossimo al corrente dell'indistinzione di tali categorie nel pensiero a lui contemporaneo. La simmetria si risolve ancora sul piano per cui, sotto tale aspetto, egli conclude, senza preannunci, la visione artistica classica. Carica di sviluppi successivi è invece la ricerca del ritmo di contorno, un ritmo che tende progressivamente a chiudersi attorno alle figure con una modulazione che è l'eco più esterna degli equilibri strutturali e statici interni.
Con Fidia, per ripetere il rapporto che usava stabilire la tradizione storiografica antica, P. è il rappresentante più significativo del momento "classico" dell'arte greca: l'uno poeta del colorismo attico, l'altro della plasticità peloponnesiaca. E come a Fidia gli compete, per eccellenza, l'appellativo di Maestro.
Bibl.: J. Overbeck, Schriftquellen, nn. 932-977; A. Furtwängler, Meisterwerke, Lipsia-Berlino 1893, p. 413 ss.; A. Mahler, Polyklet und seine Schule, Atene-Lipsia 1895; C. Anti, Monumenti Policletei, in Mon. Ant. Lincei, XXVI, 1920, c. 501 ss. (opera fondamentale a cui si rimanda anche per il completamento della cospicua bibliografia anteriore); C. Blümel, Der Diskosträger Polyklets, in 90. Berl. Winckelmannspr., 1930; M.Bieber, in Thieme-Becker, XXVII, 1933, c. 224 ss.; P. Wolters, Polyklets Doryphoros, in Münchner Jahrbuch, 1934, p. 139 ss.; S. Ferri, Un emendamento a Plinio, ecc., in Rend. Lincei, s. VI, v. XI, 1935, p. 770 ss.; id., in Boll. d'Arte, 1936, p. 437 ss.; D. M. Robinson, The Cyniscos of Policlitus, in Art Bulletin, XVIII, 1936, p. 133 ss.; R. Bianchi Bandinelli, Policleto, Firenze 1938; Ch. Picard, Manuel, II, i, Parigi 1939, p. 257 ss.; S. Ferri, Nuovi contributi esegetici al canone della scultura greca, in Riv. Ist. Arch. St. Arte, VII, 1940, p. 117 ss.; id., in Annali Sc. Normale Pisa, s. II, XI, 1942, p. 2 ss.; L. Forti, Pondus, auctoritas, decor, in Atti Acc. Pontaniana, n. s. I, 1947-48, p. 79 ss.; L. Stefanini, Ispirazione pitagorica del canone, in Giorn. crit. filos. it., 1949, p. 84 ss.; G. Lippold, in Handbuch der Archäologie, III, i, Monaco 1950, p. 162 ss.; J. E. Raven, Polyclitus and Pythagoraneism, in Class. Quarterly, n. s. I, 1951, p. 147 ss.; G. Lippold, in Pauly-Wissowa, XXI, 2, 1952, c. 1707 ss.; G. Hafner, Zum Epheben Westmacott, in Sitzungsb. Heidelberg. Akad. Wissensch., 1955, p. 7 ss.; L. Alscher, Griech. Plastik, III, Berlino 1956, p. 12 ss.
Per un aggiornamento degli elenchi delle repliche dei diversi tipi statuarî dati da C. Anti, op. cit., si veda: Discoforo: C. Blümel, op. cit., p. 20 ss.; G. Mansuelli, Galleria degli Uffizi, Le sculture, I, Roma 1958, p. 33. - Efebo Westmacott: D. Mustilli, Il Museo Mussolini, Roma 1938, p. 145; E. Paribeni, Museo Naz. romano. Sculture greche del V sec., Roma 1953, p. 36. - Eracle: E. Paribeni, op. cit., p. 37; G. Mansuelli, op. cit., p. 37; G. Lippold, Vatic. Katal., Berlino 1956, III, 2, p. 434. - Amazzone: Arch. Anz., 1942, c. 347, fig. 34; id., ibid., 1957, c. 328, fig. 107. - Diadumeno: G. M. A. Richter, Metrop. Mus., Catalogue of Greek Sculptures, Cambridge Mas. 1954, p. 37 ss.
Per alcune informazioni sulla fortuna di P.: oltre al commento di H. Gallet de Santerre a Pline l'ancien, Histoire naturelle, XXXIV, Les belles lettres, Parigi 1953, p. 217 ss.; G. Rodenwaldt, Kunst um Augustus, Berlino 1943, p. 11 ss.; R. Lantier, in Mélanges Ch. Picard, II, Parigi 1949, p. 554 ss.; T. Dohrn, Attische Plastik, Krefeld 1957, p. 54 ss.; L. Beschi, in Sculture greche e romane di Cirene, Padova 1959, p. 93 ss.
(L. Beschi)
Fortuna di Policleto nella cultura del Rinascimento italiano. - Il nome di P. fu noto alla cultura medievale attraverso Aristotele, presso il quale P. appare il massimo rappresentante della scultura (mentre in Platone lo è piuttosto Fidia). Che, in una cerchia colta, il nome fosse diffuso nella sua celebrità lo dimostra il fatto che da esso potesse essere ricavato un aggettivo, sia pure d'uso prezioso ed erudito, come nella Cronaca di Santa Caterina, in Pisa, dove sotto l'anno 1267, a proposito dell'arca di S. Domenico, si dice quem sculpserant magistri Nicole de Pisis policretior manu (Vasari, Vite, ediz. Milanesi, I, 1878, p. 297 n. i). Alla stessa tradizione risale la comparazione dantesca: conobbi quella ripa intorno - esser di marmo candido ed adorno - d'intagli tal, che non pur Policreto - ma la Natura lì avrebbe scorno (Purg., x). Ciriaco d'Ancona (v.) nella biografia dello Scalamonti (G. Colucci, Delle Antichità Picene, xv, 1792, p. 91) parla dei pezzi antichi posseduti attorno al 1433 dal Ghiberti, lo scultore della porta del Battistero di Firenze e primo traduttore in volgare dei libri della Naturalis historia di Plinio contenenti notizie storico-artistiche (v.plinio il vecchio), da lui inclusi nei suoi Commentari. Tra queste anticaglie, delle quali Filippo Baldinucci (1624-96) vide ancora un inventario, vi era un rilievo celebrato come il letto di Policleto, noto anche al Vasari (ediz. Milanesi, II, 1878, p. 245), come "cosa rarissima". Sembra che si trattasse di un bassorilievo in marmo con la rappresentazione di una scena erotica, che potrebbe esser stata anche la rappresentazione dell'episodio culminante della favola di Amore e Psychè. Ciò si deduce dagli atti di un processo intentato il 21 giugno 1609 contro Michelangelo Torrigiani, figlio del fonditore Sebastiano da Bologna, dove il rilievo è descritto come "una tavoletta di bronzo... con dentro rilievi un giovane in letto e una donna ignuda che gli tiene alto un lenzuolo et ai piedi del letto e della donna una schiavetta". Sembra, infatti, che dell'esemplare ghibertiano si fosse eseguito un calco e da questo se ne fossero diffuse repliche in bronzo, una delle quali appartenne al Bembo. Sappiamo che l'esemplare ghibertiano passò a Mons. Giovanni Gaddi (1491-1542) e da questi agli Estensi. Una replica, citata da Pirro Ligorio (v.) appartenente al Card. Granvella, passò poi nella grande raccolta di Rodolfo II nello Hradscin di Praga e scomparve in uno dei saccheggi ai quali fu sottoposta (nel 1620 dai Bavaresi, nel 1631 dai Sassoni, nel 1648 dagli Svedesi). Esso non compare nell'inventario delle opere in possesso di Cristina di Svezia (che, del resto, è del 1621) né nella raccolta S. Ildefonso, passata al Prado di Madrid, nella quale confluirono gli oggetti posseduti da Cristina. Anche gli altri esemplari, di alcuni dei quali è possibile seguire per un certo tempo la sorte, finirono dispersi. Lo Hülsen aveva cercato di identificare il soggetto in due rilievi che coincidono con le descrizioni: uno di questi, che nel 1870 si trovava ancora nel Palazzo Corsetti a Roma, è ora disperso e l'altro (Matz-Duhn n. 3589) murato nella loggia superiore del palazzo Mattei a Roma (costruito verso il 1615) e riprodotto dallo Schlosser (op. cit. in bibl., p. 137) è appunto copia o imitazione cinquecentesca di un rilievo con Amore e Psyche. Non è possibile stabilire se l'esemplare ghibertiano fosse un originale ellenistico o non, come è più probabile, una replica neo-attica o romana, sul tipo del rilievo del Museo Barracco a Roma riprodotto in Schreiber, Hellenistische Reliefbilder, tav. lx. Eco di composizioni analoghe si hanno anche su vasi aretini (v. perennius) che dipendono dall'arte neoattica. Da tener presente la confusione che avviene nel Rinascimento, attraverso il testo di Plinio, fra P. e Polignoto, il pittore. Essa è in atto nell'epitafio di Gentile da Fabriano (morto nel 1427) dove di lui, pittore, si dice flectare qui valuit Polycreti solus honores (Vasari, ediz. 1896, p. 20). E poi in Pirro Ligorio che parla di Polycleto di patria Thasio mentre Taso è, appunto, la patria di Polignoto (Mscr. Archivio di Stato di Torino, vol. xiv, cit. dallo Schlosser, p. 126). Nei carteggi relativi alle varie repliche del "letto", via via che ci si allontana dall'ambiente artistico del primo Rinascimento, si hanno altre contaminazioni onomastiche tra Policleto, Policretto, Polidoro. Finalmente, nel Galateo di Mons. Della Casa (1558) cap. xxv, si trova il nome di P. scherzosamente tradotto in quello di "maestro Chiarissimo", del quale si dice che "provvedutosi di un fine marmo, con lunga fatica ne formò una statua così regolata in ogni suo membro e in ciascuna sua parte, come gli ammaestramenti del suo trattato divisavano; e come il libro aveva nominato, così nominò la statua, per regolo chiamandola." Dove, a parte l'errore di ritenerla opera in marmo anziché in bronzo, è pur inteso a dovere il concetto di una statua "regolata in ogni suo membro e in ciascuna sua parte", che è proprio quello policletèo. Il problema medesimo, del resto, che aveva risolto P. per la scultura della metà del V sec. a. C. in Grecia, era quello stesso che rimase al centro dell'attenzione degli scultori del Rinascimento, espresso chiaramente nel David di Michelangelo e nel Perseo del Cellini: il problema della statua virile ignuda, stante, immobile, ma con possibilità chiaramente accennate di movimento, chiusa in un ritmo di proporzioni e di rispondenze di volumi.
Bibl.: Ch. Hülsen, in Österr. Jahres., XVIII, 1915, p. 130 s.; J. v. Schlosser, Leben u. Meinungen d. florentinischen Bildhauers Lorenzo Ghiberti, Basilea 1941; R. Bianchi Bandinelli, Il letto di Policleto, in La Critica d'Arte, VII, 1942, p. X ss.
(Red.)