POLICROMIA
Nell'antichità greco-romana il rivestimento cromatico fu parte integrante della scultura. La portata e il significato di tale uso restano tuttavia poco chiari, sebbene negli estesi scavi dell'Ottocento siano venute alla luce numerose sculture con l'originaria coloritura in buono stato di conservazione e le analisi scientifiche del nostro secolo abbiano apportato ulteriori certezze. Il dibattito sulla p., accesosi nel XIX sec., testimonia in modo eloquente l'elevato interesse suscitato da questo tema, a fronte di una conoscenza vaga della colorazione degli originali (Türr, 1994).
Anche le fonti letterarie antiche non lasciano dubbi sull'impiego del colore nella scultura: Luciano (Imag., VI, 27) ci informa in modo assai chiaro sul significato della colorazione, affermando che una statua riceveva vita solo grazie ai colori, e attribuendo la massima importanza alla tonalità cromatica della pelle. Vitruvio (VI, 9, 2-4), Plinio (Nat. hist., XXXIII, 122) e Plutarco (Mor., 287B-C) fanno riferimento al consolidamento e alla politura dello strato cromatico per mezzo di cera d'api chiara (γάνωσις). Iscrizioni del III sec. a.C. a Delo testimoniano che la colorazione non era meno dispendiosa del lavoro degli scultori e ci informano inoltre della cura regolare cui era sottoposto il rivestimento delle statue (κόσμησις). Il procedimento dell'applicazione del colore è descritto nelle fonti in modo indiretto (Plut., Mor., 348D); Platone ci riferisce che nella sua epoca vigeva l'uso di colorare le sculture in una maniera quanto più possibile vicina a quella naturale (Rep., IV, 420C).
La coloritura delle sculture si adegua ai colori degli edifici dei santuarî e delle necropoli. Le tende, gli abiti cerimoniali dei sacerdoti, le strutture in pietra e in legno decorate, le stele, i naìskoi e altre offerte votive presentano colori e motivi decorativi diversi, che tuttavia si accordano sempre tra loro.
Le più antiche testimonianze della p. marmorea vengono dagli idoli cicladici del III e del II millennio a.C. È notevole il numero di esemplari con tracce di colorazione nell'arte antico-cicladica: le ciocche di capelli a zig-zag, gli occhi enormi, gli organi genitali femminili erano sempre resi soltanto con il colore; non è chiaro il significato dei motivi che decorano le guance e il corpo, se si tratti cioè di disegni dipinti sui corpi, di segni o ornamenti caratteristici delle sculture (Preziosi, Weinberg, 1970; Fellmann, 1981).
Una protome femminile micenea in calcare tenero (XIII sec. a.C.) mostra un incarnato bianco sul quale sono dipinti le sopracciglia, le palpebre, le pupille, i capelli sulla fronte. Le guance, il mento e la fronte sono ornati da rosette di punti rossi che ricordano immagini dell'epica omerica.
Nella plastica arcaica il pittore interveniva talvolta in modo notevole nel lavoro dello scultore e molto di quello che oggi appare non finito era originariamente rifinito con il colore. Ciò è vero in modo particolare per la resa degli occhi e dei capelli. Solo le parti che servivano per spiegare il significato della figura potevano essere completamente affidate al pittore: così l’έπενδυτης riccamente decorato della c.d. kòre con peplo che la identifica come sacerdotessa o immagine di culto (Brinkmann, 1987), era soltanto dipinto.
I colori brillanti della scultura policroma arcaica non erano mescolati tra loro: venivano impiegati colori fondamentali ricavati dai minerali e dalla terra: blu, verde, giallo, rosso con le tonalità secondarie del marrone, rosso- marrone, giallo-marrone, mentre alcuni particolari potevano essere rivestiti con lamina d'oro. La colorazione era svincolata dai modelli esistenti in natura e mirava solo a rendere viva la creazione scultorea.
Nel fregio del Tesoro dei Sifni gruppi di figure distinti sono caratterizzati mediante contrasti di colore, e i personaggi più importanti sono messi in risalto da una resa cromatica particolare (Brinkmann, 1994).
Se alcuni elementi, quali il vestiario e gli strumenti, sono caratterizzati da un'unica tonalità di colore, i capelli vengono vivificati dalla sovrapposizione di due strati di pigmenti (rosso e marrone) è l'incarnato da un pigmento cangiante (ematite). Quando la venatura del marmo lo consentiva, la carnagione chiara delle figure femminili era velata da una vernice trasparente o ricoperta da un sottile strato di ocra giallo-marrone schiarito con bianco di calce. L'intensità della tonalità della pelle umana dipende esclusivamente dalle caratteristiche della figura rappresentata: la pelle di un satiro, p.es., è resa con un colore più scuro di quella di una giovane figura maschile.
Mentre la ricchezza degli ornamenti del costume nella plastica arcaica raggiunge il culmine intorno alla fine del VI sec. a.C., lo stile severo introduce anche sotto questo aspetto una fondamentale pacatezza e una sorta di diradamento delle forme. Gli orli sono ora costituiti da bande lisce mentre vengono abbandonati i motivi decorativi continui intrecciati, prevalentemente varianti del meandro, tipici della tarda età arcaica. Anche l'intensità del colore viene stemperata mediante l'aggiunta del bianco o l'uso di pigmenti più chiari. Una fascia ornamentale può dare una nota di eleganza alle parti di più ampia superficie delle sculture; un sottile nastro decorato da ghirlande attraversa la grande superficie del mantello di Zeus nei frontoni del Tempio di Zeus a Olimpia.
Questo principio si accentua nella piena età classica: i resti cromatici delle metope del Partenone testimoniano l'uso di tonalità chiare (mantello verde pallido) con decorazioni semplici dei bordi. Nel fregio del Partenone L. von Klenze aveva inoltre notato «tracce di un fondo blu del tutto omogeneo e alcune colorazioni dei costumi nei toni del verde e del rosso, come pure dorature ...» (Aphoristische Bemerkungen, Berlino 1838, p. 253).
Per quanto semplice, la decorazione dell'orlo di una veste può assumere un valore particolare per la resa della superficie. Nella Themis di Ramnunte, le pieghe che si dipartono dall'orlo inferiore della veste scendono alle ginocchia e tramite il colore raggiungono un effetto spettacolare (Yfantidis, 1984, n. 50).
Le realtà formali spiccatamente autonome dell'architettura e della scultura, che si incontrano in modo sempre più evidente nei rilievi funerari, trovano nella colorazione un arricchimento dialettico. Da una parte i colori delle decorazioni architettoniche e dei costumi corrispondono a quelli reali, dall'altra gli elementi decorativi solo dipinti, quali anthèmia e modanature, fanno sì che le componenti strutturali delle stele rispecchino in modo ancora più esplicito i modelli della grande architettura.
Nei più antichi rilievi di stele funerarie, ancora molto piatti, la scelta degli attributi, strumenti ed elementi del paesaggio era spesso affidata completamente al pittore. Su una lèkythos funeraria in marmo a Monaco, alle spalle di un guerriero è raffigurato un albero soltanto dipinto (Vierneisel-Schlörb, 1988, n. 18).
Sempre a Monaco, in un rilievo con rappresentazione di loutrophòros è del tutto assente qualsiasi resa plastica delle figure (Vierneisel-Schlörb, 1988, n. 15): la coppia che si tiene per mano, ma anche gli alàbastra che si possono immaginare esposti sulla tomba, come pure due rotoli di tenie appesi, oggi sono visibili grazie ai raggi ultravioletti.
Per quanto riguarda la scultura del IV sec. e di epoca ellenistica, disponiamo di un maggior numero di testimonianze in buono stato di conservazione: prima fra tutte il sarcofago di Alessandro Magno da Sidone cui possiamo aggiungere numerose opere con cospicue tracce di colore riportate alla luce a Delo.
Superando la discrezione del classicismo, la gamma cromatica del sarcofago di Alessandro offre tonalità miste come il violetto e il porpora, in forte contrasto con il giallo e il blu. La colorazione rispetta i principi compositivi dell'opera scultorea: come nell'età arcaica molti elementi vengono rappresentati solo tramite il colore, p.es. la scena di udienza del gran re persiano sul lato interno dello scudo, che chiarisce il significato del portatore di scudo persiano, e completa così la narrazione del rilievo (Graeve, 1987).
Già nella tarda età arcaica una veste non rappresentata a rilievo poteva essere dipinta con il panneggio sollevato dal vento (Schuchhardt, 1939, fig. 261); anche per il V sec. è testimoniata l'accentuazione della profondità tramite l'ombreggiatura con pigmento nero (figure vestite del frontone del Partenone). Tuttavia solo nell'epoca di Alessandro e nel secolo successivo si afferma pienamente l'artificio pittorico: le pupille presentano lumeggiature, la profondità del rilievo è accentuata da un tratteggio eseguito in una tonalità più scura dello stesso colore.
Le sculture che nel II e nel I sec. a.C. decoravano le dimore private di Delo rivelano, oltre alla colorazione tipica dell'epoca, un gusto che potremmo definire da parvenus, evidente soprattutto nelle statuette completamente rivestite d'oro (a imitazione delle sculture in oro) e poi, ancora, colorate (Yfantidis, 1984, nn. 75-76, passim).
È stato dimostrato che, come le sculture in pietra e in legno, anche le più antiche sculture in bronzo venivano dipinte. Gli originali pervenutici conservano non solo resti di pigmento, ma anche tracce di colori chimici e la patinatura della superficie metallica. Va inoltre ricordato che la p. dei materiali ebbe un ruolo notevole proprio nella scultura in metallo: in numerosi originali si sono conservate labbra e capezzoli in rame, denti in argento e occhi in pasta vitrea e pietre semipreziose (Born, 1988).
Ornamenti del costume in rame, niello e inserti d'argento sono testimoniati nella statua equestre di Augusto ad Atene (Kaiser Augustus und die verlorene Republik, cat., Berlino 1988, η. 149) e in un bel frammento nel museo di Rabat (Il Marocco e Roma, cat., Roma 1992, n. 11).
Un esiguo numero di ritratti romani in buono stato di conservazione mostra le grandi potenzialità della colorazione nella resa dei dettagli della testa. I capelli sulle tempie e sulla nuca nel ritratto di Caligola a Copenaghen furono dipinti in nero con un sottile pennello (D. Boschung, Η. M. von Kaenel, Die Bildnisse des Caligula, Berlino 1989, n. 18) e ricordano vagamente i boccoli giallo-dorato sulla nuca dell'Efebo biondo dell'Acropoli di Atene, degli inizî del V secolo. Dobbiamo inoltre supporre che le uniformi capigliature dei ritratti, non solo d'epoca giulio-claudia, fossero non soltanto colorate, ma completate con un accurato lavoro di pennello. Perché altrimenti, stando a Plinio (Nat. hist., XXXV, 133), tre secoli prima il pittore Nikias sarebbe stato incaricato della colorazione delle statue di Prassitele? Indubbiamente le capigliature ricciolute di Hermes e Dioniso bambino guadagnarono corposità grazie all'apporto del grande pittore.
In occasione del ritrovamento della statua di Augusto a Prima Porta ci si sorprese della colorazione conservata in buono stato che testimoniava un vivace cromatismo. I capelli erano marroni, il mantello rosso; sul rilievo della corazza erano visibili elementi blu, gialli, rossi e bianchi. Anche se non si sono conservate tracce dell'incarnato, è lecito supporre che la figura fosse interamente colorata.
La scultura ideale della repubblica romana e degli inizî dell'età imperiale si inserisce pienamente nella tradizione della p. ellenistica. Resta da chiarire se l'uso del trapano per la resa delle pupille e delle ciocche di capelli e la sostituzione delle superfici colorate con ombre profonde, a partire dalla metà del II sec. d.C., indichino una rinuncia all'uso del colore. È evidente l'assenza di tracce di colore su ritratti e statue d'epoca imperiale media e tarda.
Tutto questo non riguarda però i rilievi dei sarcofagi i quali, fino in epoca paleocristiana, conservano resti consistenti dell'originario rivestimento cromatico che testimonia il passaggio dalla maniera ellenistica a un tratteggio più libero e fluido che accentua il modellato (Lange, Sörrie, 1986).
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