VIRGILI, Polidoro
VIRGILI (Vergili, Virgilio), Polidoro. – Nacque intorno al 1470 a Primicilio, nei pressi di Urbino, secondo figlio maschio di Giorgio e di Battista Pini.
Ser Giorgio, notaio, entro il 1482 si trasferì con la famiglia a Firmignano, da dove proveniva la moglie Battista. Un fratello di lei, Teseo, era vicario vescovile di Fossombrone e scrisse tra il 1484 e il 1486 un trattato sui vagabondi, lo Speculum cerretanorum, primo esempio di un genere letterario destinato a notevole fortuna. Nella famiglia paterna – la cui insegna era contraddistinta da un lauro con due lucertole – si era segnalato un avo, Antonio, esperto di medicina e astrologia e docente di filosofia a Parigi. Tra i fratelli di Polidoro il più giovane, Giovanni Matteo, insegnò filosofia a Ferrara e a Padova. Girolamo, mercante, seguì Polidoro a Londra. Solo il primogenito Giovanni Francesco rimase a Urbino, e a suo figlio Polidoro l’omonimo zio lasciò in eredità i propri beni. Le tre sorelle si chiamavano Elisabetta, Pantasilea e Bernardina.
Polidoro studiò a Padova e forse a Bologna (dove potrebbe aver frequentato le lezioni di Filippo Beroaldo), e ricevette l’ordinazione sacerdotale prima del 1496. In quell’anno pubblicò a Venezia un’edizione del Cornu copiae di Niccolò Perotti, dal quale trasse materiale utile per le sue prime opere, stampate a Venezia da Cristoforo Pensi: il Proverbiorum libellus (1498) e il De inventoribus rerum (1499).
Il Proverbiorum libellus (riedito anche come Adagiorum liber) anticipò la prima edizione degli Adagia di Erasmo da Rotterdam (1500), ma la discussione sulla precedenza dell’uno o dell’altro non impedì che tra i due – i quali avevano lavorato indipendentemente alle loro raccolte – nascesse una buona amicizia. Meno benevola fu l’accusa di plagio avanzata da Ludovico Gorgeri, scolaro di Beroaldo e forse compagno di studi di Polidoro a Bologna.
L’umanista urbinate continuò ad arricchire la raccolta di proverbi fino alla ventesima edizione (1550), e rielaborò e ampliò a più riprese anche il De inventoribus, enciclopedico catalogo di scoperte e invenzioni. Ai tre libri della prima edizione, dedicati alla nascita di credenze, saperi, mestieri e tecnologie, ne aggiunse nel 1521 altri cinque (già composti nel 1517), nei quali ricostruiva le origini dei riti e delle istituzioni cristiane in un’ottica vicina a quella erasmiana. Per la presa di distanza nei confronti di pratiche come il celibato ecclesiastico e le indulgenze, l’opera fu inserita più volte nell’Indice dei libri proibiti, e ne furono allestite edizioni e traduzioni espurgate. Nonostante la parziale condanna, il De inventoribus andò incontro a una fortuna straordinaria, testimoniata da oltre cento ristampe (fino alla fine del Seicento), e da traduzioni in francese, tedesco, italiano, inglese, spagnolo, e più tardi polacco, olandese e russo.
Nel 1502 – dopo un periodo per noi oscuro, forse al servizio del duca di Urbino – fu inviato in Inghilterra dal cardinale Adriano Castellesi con l’ufficio di vicecollettore, che prevedeva non solo la riscossione di tasse e tributi destinati a Roma, ma anche mansioni simili a quelle di un ambasciatore. Salvo brevi ritorni in Italia, Polidoro sarebbe vissuto in Inghilterra per oltre cinquant’anni. Qui ricevette vari benefici (le prebende delle cattedrali di Lincoln e Hereford nel 1507; l’arcidiaconato di Wells e la prebenda di Brent nel 1508; la prebenda di Oxgate, legata al capitolo della cattedrale di St Paul nel 1513) e strinse amicizia con importanti esponenti dell’umanesimo inglese (da John Colet a Thomas More). Attraversò tuttavia un periodo di disgrazia quando, nell’aprile del 1515, fu arrestato per ordine del potente consigliere di Enrico VIII, Thomas Wolsey. Rinchiuso nella Torre di Londra, Polidoro fu rilasciato solo dopo che Wolsey – il quale nel settembre ottenne da Leone X il cappello cardinalizio – fu nominato, il 24 dicembre dello stesso anno, lord cancelliere.
Tornato in libertà, perse l’ufficio di vicecollettore (nel quale era già stato sostituito, tra il 1508 e il 1512, da Pietro Griffo, e che andò nel 1515 al suo rivale Andrea Ammonio) ma fu reintegrato nei precedenti benefici. Da allora trascorse una vita tranquilla, lontana dalle controversie politiche e religiose che divisero il Paese, dedicata all’amministrazione ecclesiastica (come rappresentante, a Londra, del capitolo di Wells), alla cura degli affari di famiglia e all’attività letteraria.
Il primo dei quattro viaggi in Italia di Virgili avvenne nel febbraio del 1514, quando si recò a Roma munito di una lettera di raccomandazione di Enrico VIII, per discutere la nomina di Wolsey a cardinale. In agosto era a Urbino, dove pagò 600 fiorini al fratello Giovanni Francesco per corredare una cappella del duomo e lasciò al bibliotecario ducale Federico Veterani un manoscritto della prima stesura dell’Anglica historia, forse per ottenerne una bella copia (avrebbe poi recuperato il codice, oggi nel fondo Urbinate della Biblioteca apostolica Vaticana, per allestire l’editio princeps dell’opera).
Tornato a Londra nel febbraio del 1515, Virgili, di lì a poco, fu arrestato. Pochi mesi dopo il suo rilascio, nell’estate del 1516, partì nuovamente alla volta di Roma, per incontrare Leone X e il suo protettore Castellesi. Fece ritorno nella capitale inglese entro il 5 dicembre 1517, quando scrisse la lettera dedicatoria al fratello Giovanni Matteo dei cinque libri aggiunti al De inventoribus.
Intanto, l’attività letteraria non si era arrestata. Oltre a ristampare e ampliare i suoi due primi lavori, in Inghilterra Polidoro curò l’editio princeps del De excidio Britanniae di Gildas (1525) e pubblicò nello stesso anno un commento al Padre nostro. Nel 1526 compose un Dialogus de prodigiis (stampato nel 1531), nel quale recuperò il punto di vista naturalistico del De divinatione di Cicerone per negare l’esistenza dei prodigi pagani (non dei miracoli cristiani). Di lì a due anni tradusse il De perfecto monacho di Giovanni Crisostomo, stampato nel 1530 con dedica a Erasmo da Rotterdam, e nel 1545 pubblicò i dialoghi De patientia et eius fructu, De vita perfecta, De veritate et mendacio. Ma l’opera principale del soggiorno inglese di Polidoro fu l’Anglica historia, commissionata da Enrico VII intorno al 1506, pubblicata nel 1534 e poi, in versioni aggiornate, nel 1546 e nel 1555.
Prima storia d’Inghilterra (dalle origini fino agli inizi del XVI secolo) condotta con metodo umanistico, l’opera rappresentò a lungo per la storiografia britannica un punto di riferimento, pur discusso e anche criticato (a partire da John Leland, che nel 1544 attaccò l’urbinate per aver negato la storicità di re Artù). Seguendo il modello di Leonardo Bruni, Virgili adottò un approccio critico nei confronti delle numerose fonti raccolte, inserì nella narrazione discorsi diretti attribuiti ai protagonisti e superò l’impostazione annalistica delle precedenti cronache inglesi (dalle quali si distinse anche per l’innovazione paratestuale degli indici dei nomi e dei luoghi citati).
Con l’allestimento della prima edizione dell’Anglica historia, stampata a Basilea da Johann Bebel, si spiega forse il terzo viaggio sul continente di Virgili, che il 1° aprile 1534, a Urbino, dettò un testamento al notaio Felice Guiducci. Il 17 agosto dello stesso anno, stando a una nota del fratello Giovanni Matteo, ripartì alla volta dell’Inghilterra (Lodone, 2010, p. 177).
Sul finire del 1546 rinunciò all’arcidiaconato di Wells, ricevendo in cambio una rendita reale. Nel 1550 ottenne da Edoardo VI la licenza di tornare definitivamente in Italia, «to visit and see, nowe in his old age, his said natyve countrey and there to make his abode» (Hay, 1952, p. 20).
A partire dal 1553 visse nella casa di famiglia vicina al palazzo ducale di Urbino, a lui stesso venduta, nel febbraio del 1508, da Emilia Pio (vedova di Antonio da Montefeltro). Qui morì il 18 aprile 1555.
Fu sepolto nel duomo, nella cappella da lui finanziata quattro decenni prima.
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