POLINESIANI
. L'ampia distesa di isole del Pacifico orientale, dal gruppo delle Ellice a O. fino alla sperduta e remota Isola della Pasqua a E. e dall'arcipelago delle Hawaii nell'estremo N. fino alla Nuova Zelanda nel S., è abitata da una popolazione strettamente unita per lingua e cultura; fin da quando, nel 1853, il geografo Malte-Brun introdusse il nome di Polinesia si è soliti chiamare gli abitanti di queste isole Polinesiani. I brillanti colori con cui i primi scopritori europei, secondo il gusto romantico del loro tempo, intesero descrivere le condizioni "paradisiache" di questi isolani, dovettero suscitare intorno ad essi un grande interesse, e innumerevoli sono le ipotesi, in parte del tutto fantastiche, che si sono costruite intorno alla loro origine, al tempo della loro immigrazione, alla storia interna delle singole isole. Alcuni studiosi hanno supposto, per es., un'immigrazione dall'oriente; così si è creduto di poter concludere per un'immigrazione dall'America in base alla supposta somiglianza esistente fra le costruzioni e gl'idoli di pietra dell'Isola della Pasqua con quelle delle antiche popolazioni dell'America Meridionale e Centrale, e nel tentativo di tradurre la scrittura delle tavole di legno degli abitanti dell'Isola della Pasqua, A. Carol (1892) vi lesse la notizia di avvenimenti svoltisi sulle pendici delle Ande! Il maggior numero degli studiosi ammette invece una probabile immigrazione dall'Asia e precisamente dalle terre dell'Indonesia; donde gli avi dei Polinesiani, in ondate successive, si sarebbero sparsi con lunghe migrazioni marittime nella loro nuova patria. Ma anche dai sostenitori dell'origine occidentale si è molto fantasticato: così A. Fornander (1878) affermò che i Polinesiani discendevano da un popolo affine agli Arî, ma molto più antico di questi, che abitava un tempo nell'India nord-occidentale e sulle coste del Golfo Persico, così che ancora oggi i miti e le leggende dei Polinesiani mostrerebbero spiccate somiglianze con i racconti della Bibbia. Ancora nel 1897, del resto, D. Macdonald tentò (inutilmente) di dimostrare l'origine semitica delle lingue polinesiane. Una parte degli errori in cui caddero A. Fornander e Percy Smith (1910) è dovuta alla sopravalutazione delle tradizioni indigene. Quasi tutti gl'isolani fanno provenire i loro antenati da un "Hawaiki" o da un paese di nome simile, che contemporaneamente è di solito il luogo a cui migrano gli spiriti dei morti dopo il decesso, ed esso ritorna nelle carte della Polinesia come Hawaii, Awaiki, Savaikii Savai. Se dall'atmosfera mitica che avvolge queste tradizioni si può ritrarre un qualche nucleo storico, si tratta di un'isola dell'Oceania che ha servito di punto d'espansione per migrazioni più vaste, ma non, come crede P. Smith, dell'India.
Basandosi puramente sulla loro memoria, i sacerdoti di molte isole hanno tramandato alberi genealogici di re, capi e dignitarî che presentano fin 100 nomi o generazioni; i nominati studiosi usufruiscono di questi alberi genealogici per costruire una genealogia assoluta di due, tre millennî. Essi sono però inadatti a questo scopo, giacché, per tacere di altri inconvenienti, già dopo 20 o 30 generazioni tendono a passare impercettibilmente nella mitologia. Realmente utili sono però le tradizioni indigene per la ricostruzione delle relazioni interpolinesiane nei periodi di tempo più recenti; i Samoani, per es., mantenevano il ricordo dell'occupazione da parte di genti delle Tonga di alcune coste del loro arcipelago nel sec. XIII, e secondo un altro calcolo, nel sec. XVI.
Sulla base di numerosi lavori etnologici e linguistici dovuti a studiosi quali W. Churchill, E. Tregear, F. N. Finck, W. H. R. Rivers, G. Friederici, Fr. Gräbner, W. Schmidt, R. Heine-Geldern, oggi è possibile tracciare almeno a grandi linee un esatto quadro d'insieme della storia della civiltà dell'Oceania; il focolaio formativo delle loro civiltà - già derivata dal miscuglio di varî componenti - era verosimilmente nelle Filippine. Nelle successive immigrazioni sulle coste dell'Oceania, avvenute a varie riprese e in tempi diversi, alcune caratteristiche dell'originaria civiltà - specialmente lo spirito marinaro, l'organizzazione statale, la forte autorità dei capi - subirono una particolare accentuazione o anche una trasformazione sostanziale, altre invece prima esistenti andarono perdute: così mentre gli antenati dei Polinesiani erano agricoltori sedentarî viventi nell'interno, che allevavano maiali e bovini e coltivavano cereali (riso e miglio), sapevano fabbricare stoviglie di terracotta e usavano l'arco come arma bellica, i loro discendenti vivevano nell'ambiente tutto diverso dell'Oceania, con i frutti della palma da cocco e dell'albero del pane, la banana, il taro, l'igname; i prodotti della pesca avevano dovunque una grande importanza; esclusi i cani, i maiali e i polli non avevano animali domestici; la ceramica si fabbricava soltanto in poche località, per es., nell'Isola della Pasqua; l'uso dell'arco per scopi bellici decadde tanto dinanzi all'uso della lancia e della mazza di varie forme, da servire come arma da guerra soltanto in poche isole (arcipelago delle Tonga) e fu usato invece soltanto per scopi sportivi, nella caccia ai ratti e ai piccioni. Le opinioni intorno all'ordine in cui furono raggiunti dagli immigrati i singoli arcipelaghi, sono discordi; tuttavia le Samoa potrebbero essere state il punto di partenza di importanti migrazioni che raggiunsero le Tonga, da dove poi furono occupate le isole Hervey (o Cook). Di qui irradiarono ulteriori correnti migratorie in diverse direzioni: verso la Nuova Zelanda, verso le Figi, ma specialmente verso oriente fino a raggiungere da ultimo la lontana Isola della Pasqua. Certi arcipelaghi occidentali (le Ellice e le Tokelau) possono essere stati occupati già dalle prime correnti migratorie. Dalla Polinesia centrale, o direttamente o attraverso Tahiti e le Marchesi, gl'immigrati raggiunsero anche le Hawaii, dove però essi, come sembra, trovarono già discendenti dei primi immigrati polinesiani. Alla vasta espansione dei Polinesiani sulle isole dell'Oceania contribuirono in grande misura le migrazioni involontarie e forzate. Specialmente per la Polinesia orientale esistono numerose testimonianze di canotti spinti spesso a oltre 1000 km. al largo, la qual cosa in certe circostanze poté portare all'involontaria scoperta di molte isole e a nuovi insediamenti in esse. Certe manifestazioni della civiltà polinesiana nella Nuova Zelanda e nella Polinesia orientale sono dovute ai rapporti avuti con le popolazioni melanesiane che abitavano le isole già prima dell'arrivo dei primi immigrati polinesiani. Qualche altro elemento di giudizio su questo problema viene fornito dalle moderne indagini antropologiche (vedi sotto). Una mescolanza molto forte di popolazioni e di civiltà si mostra specialmente nel settore occidentale; numerosi riflussi migratorî hanno portato qui intere folle di Polinesiani di pelle chiara in mezzo alle popolazioni melanesiane, alla cui civiltà essi impressero profondamente il loro marchio (Figi, Nuove Ebridi, Salomone meridionali).
Particolare importanza ha ancor oggi nel problema dell'origine e dell'immigrazione dei Polinesiani l'Isola della Pasqua (v.) per gli idoli di pietra, le costruzioni, le tavolette scritte, ecc., già menzionati. Tuttavia costruzioni simili, anche se in misura meno imponente, si trovano non solo nei baluardi e nelle costruzioni in pietra delle Caroline, delle Marianne e delle Nuove Ebridi, ma anche nella Polinesia stessa offrono qualche cosa di analogo le terrazze di Nukuhiva (Is. Marchesi), costruite di pietre ciclopiche; le haamonga a oriente di Tongatabu, formate di due pilastri di pietra eretti alla maniera di dolmen e alti circa 4 metri e fra loro uniti all'estremità superiore da una traversa; gli artistici mounds di Tongatabu; i langi della stessa isola (costruzioni a forma di terrazza fatte di potenti blocchi di calcare che racchiudono nel mezzo le tombe dei re a forma di camera e chiuse da larghe piastre di pietra) e le grandi figure umane dell'isola Pitcairn, rozzamente scolpite nella lava; assolutamente esclusive dell'Isola della Pasqua sono invece le tavole di legno incise con simboli o figure allineate, delle quali quelle delle file I, III, V, ecc. sono con la testa rivolta in alto; quelle delle file II, IV, VI, ecc., sono invece capovolte. Si tratta di una scrittura figurata i cui segni del resto si possono vedere anche su alcuni dei ricordati idoli di pietra, sulle pitture rupestri e su diversi oggetti. Arrivati alla fine di una riga si doveva sempre capovolgere tutta la tavola per poter leggere la riga successiva; lo scritto scorreva quindi Βουστροϕηδόν. Oggi si conservano nei musei ancora venti di tali tavole; secondo la tradizione già il re Hotumatua aveva una biblioteca di 67 tavole; si può ritenere che si trattasse di note genealogiche o mitologiche. L'esistenza di questa scrittura fu osservata solo nel 1864 dal missionario francese Eyraud. I tentativi di leggerla rimasero tutti infruttuosi. I custodi, sicuramente non numerosi, della tradizione di conoscitori della scrittura, furono forse fra gli indigeni trascinati nel 1862, insieme col re dell'isola, dai cacciatori di schiavi peruviani nei campi di guano delle Isole Chincha, dove finirono per scomparire. Sopravvissero soltanto gli analfabeti. Ancora nel 1914 riuscì a Mrs. Routledge di incontrare un vecchio lebbroso che un tempo era stato esperto scrivano, ma che morì prima di aver l'occasione di svelare il suo segreto. Gli scavi che furono intrapresi fin dal 1924 nel bacino dell'Indo portarono in luce i residui di una civiltà pre-aria che presenta chiare relazioni coi Sumeri e gli Elamiti della Mesopotamia e che risale al terzo millennio a. C. A Mohenjo-Daro (Sind) e ad Harappa (Panjab) furono trovati numerosi sigilli con brevi iscrizioni di una o due righe fatte con una scrittura finora non decifrata. Si fece gran rumore quando nel 1932 W. von Hevesy annunziò che egli aveva, in seguito a un confronto di questa scrittura con quella dell'Isola della Pasqua, verificato somiglianze molto più notevoli di quelle che possono esistere causualmente fra scritture figurate di origine indipendente. Se questa ipotesi dovesse venir confermata, ne verrebbe illuminata tutta la storia della civiltà dell'Oceania, perché si potrebbe collocare in un'età assai remota anche il primo popolamento di questa e acquisterebbero maggiore verosimiglianza anche le ipotesi emesse su eventuali influssi culturali polinesiani nel continente americano.
La cultura materiale. - Il taro, l'igname, la patata dolce, la noce di cocco, l'albero del pane e le banane rappresentavano prima ovunque la base alimentare; l'irrigazione delle piantagioni con espedienti abilmente immaginati era conosciuta nelle Hawaii, dove il taro veniva di preferenza preparato in una maniera speciale detta poi, e cioè facendolo prima cuocere in "forni a terra", poi, ridotto in pasta, facendolo fermentare per alcuni giorni. Anche i frutti dell'albero del pane e le banane si conservavano più a lungo facendoli fermentare in buche del terreno. I maiali, i polli e i cani erano originariamente gli unici animali domestici. Il maiale, l'uso della cui carne era molte volte privilegio dei capi, forniva l'arrosto delle feste; esso veniva ingrassato con i semi di cocco; se o per guerre o per simili avvenimenti venivano a scarseggiare i maiali, il capo supremo dichiarava tabu l'uso della carne di maiale per salvare l'allevamento dei pregiati animali. In alcune isole dove erano divenuti selvatici, venivano cacciati con l'aiuto dei cani. Anche la carne del pollame veniva per lo più mangiata solo in date occasioni, le uova erano disdegnate. La carne di cane era considerata (per es. nelle Hawaii) come una particolare ghiottoneria permessa solo ai nobili. Data la scarsità della fauna delle isole, la caccia agli uceelli e ai topi non poté acquistare in alcun luogo particolare importanza; mentre la pesca, i cui prodotti peraltro venivano mangiati per lo più crudi, offriva molto spesso l'alimento principale. Il frugare le lagune coralline durante la bassa marea alla ricerca dei piccoli animali marini era compito delle donne che lo sbrigavano abilmente provviste di bastoni e di canestri; la pesca d'alto mare era fatta dagli uomini. Alcune qualità di pesci venivano presi coll'amo, altre con cesti e con reti, o erano trafitti con lance di varia forma o colpiti con piccoli archi. Era conosciuta anche la pesca mediante avvelenamento delle acque; alcune qualità di pesce venivano prese di notte con la lancia al lume delle fiaccole accese sugli scogli; la comparsa del verme palolo, che veniva pescato in grande quantità con l'aiuto di ceste speciali sia dai giovani sia dai vecchi, costituiva un avvenimento gradito. Fra i prodotti voluttuarî è da ricordare specialmente la kava, bevanda estratta dalle radici del Piper methysticum, che era conosciuta in quasi tutta la Polinesia. Il suo uso era sempre collegato con particolari cerimonie e non era mai fatto per scopi profani. Si beveva la kava se si visitava il capo; la nomina del capo aveva luogo nell'ebbrezza di una festa di kava; nelle Samoa le radici di kava venivano preparate facendole masticare dalle vergini del villaggio (taupou); altrove alla cerimonia della kava presiedeva un sacerdote; la coppa in cui veniva preparata la bevanda era particolarmente sacra; nelle Tonga i capi giuravano fedeltà al capo supremo immergendo le loro mani in una coppa piena di kava; alcune gocce della preziosa bevanda venivano sempre versate sul terreno come sacrifizio agli dei.
Il fuoco veniva acceso ovunque mediante lo strofinamento: lavoro improbo; per cui si cercava di conservarlo perennemente, anche durante la notte, sotto la cenere, oppure veniva prestato fra vicini. Il cosiddetto "forno a terra" si incontrava dappertutto; i cibi, carne e vegetali, venivano posti fra due lastre di pietra riscaldate che venivano coperte di terra. Spesso si cucinava in cucine particolari, piccole capanne situate in prossimità delle abitazioni. Nelle Samoa la preparazione e la cottura dei cibi erano compito degli uomini, a cui incombeva anche il lavoro nelle piantagioni. Come utensili da cucina servivano raschiatoi di noce di cocco, scodelle di legno, mezzi gusci delle noci di cocco quali coppe da bere, pestelli di pietra, ecc.
Le capanne, per lo più quadrangolari, consistevano in sostanza di un tetto a due spioventi sostenuto da un gran numero di pali di legno; le case dei Maori avevano pareti di legno, ma spesso si accontentavano anche di un rivestimento fatto di erbe o di stuoie; le capanne dei Samoani e dei Tahitiani erano aperte; durante il brutto tempo e di notte le pareti aperte venivano chiuse mediante stuoie intessute con fibre di foglie di cocco. Spesso il pavimento delle capanne era alquanto sopraelevato rispetto al terreno circostante, all'esterno era circondato di pietra e nell'interno coperto con uno strato di pietruzze appiattite. Le stuoie servivano per tavola e per sedie e per avvolgere gli oggetti d'uso, che venivano poi posti in canestri o stivati sulle traverse delle case, e anche per giaciglio; guanciali e coperte per ripararsi dalle noiose zanzare completavano il semplice corredo domestico. La grandezza e l'arredo delle case variava secondo lo scopo a cui servivano; oltre alle capanne d'abitazione si avevano capanne per cucina, tettoie per i canotti, case collettive o pei forestieri. Le ultime costituivano di solito il centro dei villaggi ed erano, come le abitazioni dei capi, costruite con cura ed arte speciali. I Maori (v. nuova zelanda) sapevano in maniera particolare arredare artisticamente le loro case.
Per il vestiario dapprima servivano quasi dappertutto tessuti di tapa ricavati dalla corteccia battuta del gelso da carta (Broussonetia papyrifera). La bianca buccia interna, staccata dalla scorza esterna colla macerazione nell'acqua, veniva prima raschiata, poi battuta, indi incollata in pezzi più grandi e seccata al sole. Questa stoffa veniva poi coperta di decorazioni. I Samoani si accontentavano di solito di grembiuli fatti con questa materia, coi quali si cingevano i fianchi; su altre isole si portavano stuoie di tapa a forma di gonna, di scialle o di mantello. Oggi il vestito europeo ha dappertutto soppiantato le vecchie forme. Per date occasioni e per date persone c'erano, com'è naturale, speciali abiti da festa e di parata. Così i capi delle Hawaii portavano magnifici mantelli (ahuula) fatti con le penne rosse e gialle del mamo (Drepanis pacifica), fissate a squame una sull'altra, la cui lunghezza dipendeva dal rango di chi lo portava; il mantello del re Kamehameka misurava m. 3,50 di lunghezza e 2,50 di ampiezza. Dello stesso materiale erano formati anche gli elmi, per i quali si usarono forse come modelli le forme degli elmi europei. Gli ornamenti erano rappresentati da ghirlande di fiori, portate specialmente dalle donne, da conchiglie, da denti di capodoglio, portati di preferenza dai capi come ciondoli o come orecchini, da capelli umani e da penne; così gli uomini delle Hawaii portavano bende di penne di fetonte sui capelli o intorno al collo; i nobili delle Samoa portavano in capo una corona fatta di capelli coloriti e ornata di conchiglie, di madreperla, e di penne di pappagallo. Grande importanza si dava dappertutto alla cura del corpo. Gli uomini si facevano radere spesso la barba; a difesa dal sole si spalmavano il corpo d'olio di noce di cocco; i nobili Tahitiani si lasciavano crescere lunghe le unghie delle dita per mostrare che non erano costretti ad alcun basso lavoro manuale. La perforazione dei lobi degli orecchi è comprovata per quasi tutta la Polinesia. L'uso di tingersi tutto il corpo di argilla rossa presso gli abitanti dell'Isola della Pasqua è ricordato dai primi visitatori dell'isola. Il tatuaggio era quasi ovunque in gran sviluppo; di regola esso era comune ad ambedue i sessi, anche se gli uomini avevano un tatuaggio più completo e artistico. Maestri insuperati in quest'arte erano gli isolani delle Marchesi; ogni parte del corpo, perfino le palpebre, le labbra, le gengive e il cranio venivano coperte di belle figure. Per poter tatuare il capo si radevano i capelli fino a lasciarne solo due ciuffetti, uno per parte, che venivano intrecciati in modo da pendere dal capo come due corna. Tanto qui come altrove il tatuaggio veniva fatto a riprese; ogni incisione richiedeva un periodo di 3-6 mesi, così che un uomo, prima dei 30 anni non poteva essere considerato come totalmente tatuato. L'operazione, che si estendeva perfino alla punta della lingua e alla punta del membro, veniva tracciata da artisti di grido; dove essi mancavano, come nelle Tonga, i giovani si recavano all'estero (i Tongani verso le Samoa) per sottoporsi alla dolorosa operazione. L'inizio del tatuaggio per ambedue i sessi si aveva di regola al tempo della pubertà. Le singole figure con cui si tatuavano i corpi, avevano dappertutto nomi speciali e speciali significati.
L'arco era soltanto nelle Tonga un'arma di guerra: si combatteva principalmente con lance e mazze di legno o di pietra delle più varie forme (v. nuova zelanda) e inoltre con fionde, pugnali e asce di pietra. Lo scudo era sconosciuto, in alcune isole il tronco veniva difeso mediante corazze. Le innumerevoli guerre erano causate per lo più da gelosie fra i capi o "re". In molte isole il potere supremo era diviso in due parti: la spirituale e la terrena, e soltanto il capo secolare dirigeva la battaglia, o spesso egli cedeva il compito a un capo particolarmente distinto, mentre il capo spirituale provvedeva a condurre le cerimonie religiose atte ad assicurarne il felice esito. Quando l'assemblea aveva deciso la lotta, si cercava di conoscere la volontà degli dei e l'esito della battaglia dalla bocca di sacerdoti ispirati o dalle pratiche divinatorie (il volo di certi uccelli veniva ansiosamente osservato); spesso agli dei della guerra venivano offerti o promessi sacrifici umani: i guerrieri si ornavano di penne e di simili segni, coi quali essi si ponevano sotto la protezione di date divinità; attraverso il suono della tromba di conchiglia che adunava i guerrieri e li accompagnava all'assalto si sentiva in alcune isole la voce stessa del dio della guerra, il suo suono netto o cupo promettendo vittoria o sconfitta. Oltre ad assalti insidiosi di piccoli distaccamenti avveniva anche la sfida formale al nemico di mettersi in battaglia in un determinato giorno e luogo. Con ingiurie e vanterie i combattenti si provocavano reciprocamente; spesso avveniva che un guerriero ancor prima della battaglia assumesse il nome di un nemico determinato, per annunziare che egli lo avrebbe ucciso. Le fortificazioni e le trincee (v. nuova zelanda) avevano una grande importanza: quando il villaggio nemico veniva espugnato, esso era bruciato, le piantagioni venivano devastate, gli oggetti, i ragazzi e le donne trascinati via e per lo più fatti schiavi: ai nemici caduti si tagliava la testa che veniva poi custodita per qualche tempo su di un palco nella marae (il luogo sacro); talvolta si offriva ai nemici l'occasione di entrare a far parte della tribù vittoriosa; in altri casi essi venivano arrostiti, all'incirca come i maiali, e mangiati; il cuore di solito era la porzione che toccava ai capi. Mentre questa pratica si aveva soltanto occasionalmente nel maggior numero delle isole (così che per es., nelle Tonga la gente che aveva mangiato un nemico era trattata con un certo orrore non privo di rispetto), nella Nuova Zelanda essa era di largo uso.
La guerra come veniva di solito dichiarata in forma solenne, così veniva anche conclusa con festose cerimonie, durante le quali spesso era intrecciata in comune da ambedue le parti una corona di rami verdi, o venivano congiunti due pezzi di tapa per significare la restaurazione dei legami spezzati con la guerra.
Per il cabotaggio fra le singole isole di un arcipelago e per la pesca costiera si usavano canotti a bilancere piccoli e grandi, che portavano solo pochi uomini: essi avevano, come le imbarcazioni d'alto mare di cui sarà detto in seguito, un albero e una vela distesa sopra una intelaiatura. A Tahiti queste imbarcazioni avevano a prora una piccola capanna coperta di foglie che di fuori era rivestita di tavole e nell'interno di stuoie. Per i lunghi viaggi, specialmente nelle scorrerie belliche durante le quali spesso si superavano grandi distanze come fra le Tonga e le Samoa o fra le Hawaii e le Marchesi, si usavano canotti doppî solidamente legati l'uno all'altro e congiunti mediante una piattaforma, che, oltre a un gran numero di rematori (fino a 200), poteva portare ancora da 30 a 40 guerrieri. Si avevano anche canotti coperti a prora e a poppa, provvisti di assi di riparo contro le onde: questi servivano per es. ai Samoani per la pesca del pelamide (pesce bonito). Durante i viaggi si orientavano secondo la levata e il tramonto delle stelle. La costruzione dei canotti costituiva per lo più una particolare professione che godeva di altissima considerazione e di regola si faceva derivare da uno degli dei più eccelsi. Anche altre professioni o mestieri erano del resto per tradizione nelle mani di certe famiglie o di determinati villaggi, che a loro volta facevano discendere la loro arte da un dio. I mestieri menzionati erano esercitati dappertutto da uomini. Prima dell'introduzione del ferro da parte degli Europei, gli arnesi erano assai primitivi, come conchiglie taglienti o pietre affilate, asce di pietra e trapani a mano. Le donne si occupavano specialmente della preparazione della tapa e dei lavori d'intrecciatura. Accanto alle stuoie comuni che servivano agli scopi ordinarî, ce n'erano di quelle che rappresentavano dei veri capolavori artistici e che si usavano per l'abbigliamento dei nobili o costituivano come una specie di tesoro. Così le ietonga dei Samoani, la cui preparazione costava spesso un lavoro di molti anni, usando come materia prima una pandanacea (Freycinetia), restavano di generazione in generazione possesso di certe famiglie. Sul conto di esse si facevano veri alberi genealogici; si usavano come dote delle figlie dei capi o come una specie di diploma d'onore in ricompensa di particolari servigi. Lo scambio delle merci avveniva in forma di baratto; gli oggetti in uso come moneta, così frequenti, per es. nella Melanesia, erano poco usati. Per la numerazione di grandi quantità il computo veniva facilitato mettendo da parte per ogni 10 o 100 unità una foglia o qualche cosa di simile. Fra le arti stava in prima linea quella dell'intaglio, praticata dappertutto per ornare le ciotole, i pilastri delle case, le pareti, i remi, le clave ecc., che aveva raggiunto nella Nuova Zelanda il più alto grado di perfezione. L'arte della scultura che, collegata al culto degli antenati, rappresentava uomini deificati o dei, scolpendoli nel legno o nella pietra, sembra fosse sviluppata specialmente nelle regioni nelle quali si conservano tracce del matriarcato melanesiano, cioè nella Nuova Zelanda e nella Polinesia orientale. Gl'idoli di pietra dell'Isola della Pasqua furono già menzionati; in quest'isola si trovano anche pitture fatte con colori di terra su lastre di pietra situate nell'interno delle già ricordate case di pietra; esse rappresentano facce di dei e di capi, navi e coppie di figure a testa d'uccello, poste una di fronte all'altra, raffiguranti, si suppone, il dio Make-Make, a cui era affidato il dominio sugli uccelli marini che deponevano le loro uova, cibo prelibato, sulle rupi dell'isola.
Il lungo periodo di libertà che un clima felice concedeva ai Polinesiani, permetteva loro di darsi al gioco, allo sport e al divertimento. Si nuotava e si facevano i bagni nella risacca, si cavalcava seduti o distesi su assi sopra i cavalloni, sport ancora assai praticato, si veleggiava a gara; come sport si praticava molte volte la pesca del pelamide come pure la caccia ai colombi e ai topi, privilegio dei nobili. La corsa sui trampoli era lo sport nazionale degli isolani delle Marchesi. Erano diffusi anche giuochi simili alla nostra morra; le donne si divertivano giuocando alla palla. I rozzi sport degli uomini irrobustivano i corpi per la lotta molto coltivata al pari del pugilato, della corsa, dei duelli con mazze e lance, del tiro col giavellotto. La scommessa, in relazione alla manifestazione sportiva, degenerava spesso in una pericolosa passione. Numerose danze venivano eseguite da gruppi di donne stando sedute o in piedi. Nella "siva" delle Samoane le ballerine siedono intorno alla taupou (la vergine sacra del villaggio); la danza consiste in movimenti ritmici molto leggiadri delle mani e della parte superiore del corpo, che passano poi da ultimo in rappresentazioni pantomimiche (pesca, preparazione della kava, scene belliche, ecc.). Da ultimo la taupou si alza ed eseguisce con movimenti dei piedi e della parte superiore del corpo una danza da sola. L'"orchestra", posta dietro il gruppo accompagna la danza con canzoni cantate a più voci o batte il tempo con bastoni di legno su stuoie o su tamburi di legno. Le movenze di alcune taupou nella danza della farfalla, nella quale è rappresentata in pantomima la caccia a una farfalla che sempre sfugge di nuovo, non sono forse affatto inferiori a quelle delle nostre ballerine. Talvolta la taupou nella sua danza fatta in piedi è accompagnata anche da uomini che stanno seduti; alcune danze venivano eseguite da ragazze nude. Una nota fortemente lasciva avevano le danze analoghe delle fanciulle e delle donne di Tahiti e delle Hawaii. Come strumenti musicali sono da ricordare tamburi di varia foggia, flauti e bastoni, coi quali si batte il tempo su stuoie. Il talento poetico dei Polinesiani è considerevolmente elevato, come spiccato è il talento oratorio e l'improvvisazione poetica.
La famiglia e la società. La base della società era la famiglia, il cui capo incorporava in sé il nome e i privilegi della stessa; più famiglie costituivano un villaggio, più villaggi un gruppo i cui interessi venivano amministrati dal consiglio dei capi-villaggio. Un certo numero di questi gruppi stava a sua volta sotto il governo di un capo supremo che esercitava la sua attività d'accordo col consiglio dei gruppi. Ogni isola alquanto grande aveva alcuni di questi distretti autonomi, i cui capi, nei lunghi secoli della storia polinesiana, vissero reciprocamente in guerra perenne senza che dalle sanguinose lotte potesse risultare un accordo politico. Una unione di territorî più vasti si ebbe solo alla fine dell'indipendenza polinesiana, quando con l'aiuto delle armi europee e con l'appoggio di consiglieri europei riuscì a dei re energici come Hamehameha I (novembre 1736-8 maggio 1819) di estendere il loro dominio su ampî arcipelaghi. Quantunque in generale la famiglia fosse patriarcale, su molte isole si sono conservate tracce più o meno notevoli di costumi matriarcali. Per es., nelle Tonga il rango e il titolo si ereditano attraverso la donna; qualche cosa di simile è riferito anche per Tahiti. Nelle Isole Marchesi il padre era molto meno considerato della madre; forse ciò si spiega per il fatto che ivi esisteva una vera poliandria per cui la paternità era incerta. Le frequenti notizie di una particolare relazione esistente fra i figli di una donna e il loro zio materno si possono spiegare soltanto con lo statuto matriarcale. Per i Polinesiani non è comprovata l'esistenza di un reale totemismo. Come ricordi di totemismo si interpretano di solito i frequenti tabu legati a particolari animali, coi quali si ritenevano congiunti i membri di determinate famiglie. Una severa e forte organizzazione sociale divideva il popolo in più classi: nel grado più basso stavano gli schiavi; poi veniva il popolo comune; quindi i nobili, fra i quali esistevano a loro volta diverse suddivisioni di rango, il più alto grado essendo rappresentato dalle famiglie dei capi supremi e del re. Particolarmente marcato era il carattere feudale della società delle Hawaii, nelle Tonga e a Tahiti; il paese intero apparteneva al re, che però, salvo una piccola porzione che riservava a sé, lo concedeva ai più alti capi. Questi a loro volta concedevano le terre come feudi alle classi nobili più basse e sui loro fondi la gente comune viveva come fittavoli, obbligati a tributi e a lavori servili. Una netta divisione separava la nobiltà dal popolo comune, sia in questo mondo, dove i nobili di fronte alla gente comune disponevano di una quantità di privilegi gelosamente custoditi, sia nell'al di là dove, come si credeva quasi dappertutto, la sorte dei nobili era diversa da quella riservata alla plebe; nelle Tonga si riteneva sopravvivessero in genere soltanto le anime dei nobili, mentre quelle dei comuni mortali cessavano di esistere con la morte del corpo. I nobili discendevano attraverso i loro avi dagli dei; essi imponevano il tabu ed erano essi stessi tabu; chi li toccava si poneva al sicuro dei proprî nemici (diritto d'asilo).
Com'è naturale, particolarmente sacro era il re, che usciva dalla sua casa soltanto sulle spalle dei sudditi; a lui ci si avvicinava strisciando e gli si baciavano i piedi; la minima offesa alla sua persona era grave reato espiabile solo con l'esilio o con la morte. Alcuni re supremi erano trattati ancora in vita come un'incarnazione divina. La potenza del re era limitata soltanto dalla consuetudine e dal timore di compromettere la sua sicurezza mediante un eccessivo dispotismo. In molte isole erano usate speciali espressioni (lingua aulica) quando il popolo comune parlava a un capo o di un capo, espressioni che erano pure usate nelle invocazioni agli dei. Del pari in alcune isole era proibito l'uso, per scopi profani, di parole indicanti nomi di capi o di dei. Anche le donne della classe nobile godevano di particolari diritti; così nelle Samoa la figlia del capo rappresentava il suo villaggio nei ricevimenti degli ospiti, nella preparazione della kava, come prima ballerina (taupou, "vergine del villaggio"). Sui rapporti fra l'autorità temporale e sacerdotale è da notare che ogni capo supremo esercitava anche funzioni sacerdotali; c'era tuttavia anche una vera classe sacerdotale formata da membri delle famiglie eminenti, in mano della quale si trovavano certe cerimonie e oggetti sacri e che custodivano anche le tradizioni mitiche e genealogiche. Oltre a questi sacerdoti riconosciuti c'era di solito anche un gruppo di santoni e d'ispirati che godevano di poca considerazione. Le istituzioni di carattere parlamentare (consigli, assemblee, ecc.) promuovevano l'arte oratoria che era molto stimata; durante il discorso l'oratore si appoggiava a un bastone, contrassegno del suo valore.
I matrimonî fra parenti anche lontani erano proibiti e i matrimonî fra consanguinei molto vicini presso i nobili hawaiiani erano certo dovuti alla scarsità di partiti uguali per nascita. Il carattere commerciale del matrimonio è poco accentuato: molte volte la sposa riceveva al matrimonio una vera dote. Nelle Samoa veniva dato valore alla verginità che veniva verificata dinnanzi a testimonî. La ragazza non veniva consultata in occasione del matrimonio: la decisione su una proposta di matrimonio spettava di solito al capo famiglia. I nobili vivevano in poligamia; d'altra parte in alcune isole le donne d'alto rango avevano più mariti (di regola fratelli). L'uso vigente nell'antica Hawaii che due o più fratelli avessero in comune le loro mogli e che due o più sorelle avessero in comune i loro mariti ha condotto Lewis H. Morgan a immaginare la sua famiglia "punalua" della quale sarebbe un riflesso il sistema "classificatorio" della parentela diffuso, oltre che nelle Hawaii, in quasi tutta la Polinesia. Certe feste offrivano occasione a eccessi sessuali più o meno tollerati. La vita delle donne era in generale assai facile: nelle Samoa esse erano esentate da ogni lavoro duro, anche dal cucinare e dal lavoro delle piantagioni, cosicché si occupavano solo del lavoro domestico, della cura dei bambini, della preparazione della tapa e della tessitura delle stuoie. L'uso dei pasti separati per gli uomini e per le donne esisteva in molte isole. Soltanto nelle Isole della Società esistevano società segrete: quella degli Areoi, provvista di molti privilegi, era costituita di uomini obbligati al celibato, che giravano come cantanti e ballerini girovaghi d'isola in isola e nei loro festini si davano a grande dissolutezza; a questa società appartenevano anche genti di alto rango; entrando nella società il candidato assumeva un nome nuovo. L'incisione dei fanciulli era praticata nella maggior parte delle isole.
Religione e mitologia. - Gli usi funerarî erano assai varî. Nelle Isole Marchesi mummificavano i cadaveri seccandoli al sole; nelle Samoa e a Tahiti la gente comune veniva sepolta senza particolari formalità: assai diffuso era il seppellimento secondario usato specialmente per i nobili, per cui quando la carne del cadavere era putrefatta, si deponevano le ossa involtate nelle caverne o anche nelle marae (località sacre) e nelle loro vicinanze. Queste marae (nelle Hawaii dette heiau) erano piazze rettangolari circondate da muri a secco di blocchi di pietra. Su uno dei lati minori si ergeva una piramide di pietra sopra la quale era un palco dove si facevano i sacrifici agli dei (maiali, cani, polli, frutta, uomini), e dove erano custoditi per un certo tempo i teschi dei nemici catturati. Dove, come a Tahiti, l'idea del culto degli antenati era più forte, presso i luoghi di sepoltura c'erano delle figure di legno, in cui si pensava dimorassero gli avi. Mentre la gran massa degli spiriti dei morti era temuta - si credeva che essi potessero divorare nel corpo di chi dormiva il cuore e i visceri - s'invocavano per ottenerne la benevolenza, con lo stesso nome con cui s'invocavano gli dei (atua), quelli che già in vita si erano distinti per posizione e potenza. I trapassati andavano per lo più verso un'isola ad occidente (Avaiki, Pulotu) o sopra il mare o sui rami di un grosso albero che dall'orlo dell'isola natia era piegato verso la terra dei morti; salivano anche al cielo oppure erravano nei crateri vulcanici. All'occasione le anime dei morti servivano di cibo agli dei. La sorte dell'al di là come si è già avvertito variava non secondo considerazioni morali, ma secondo considerazioni sociali. Molto spesso gli spiriti dei morti potevano riapparire come animali (uccelli, pesci, grilli, farfalle) o come uomini o piante o nubi. Due erano i concetti che dominavano la vita dei Polinesiani: mana e tabu. Il primo indica una potenza straordinaria che si manifesta in cose o uomini non comuni e che si può trasmettere col contatto; il secondo invece è qualche cosa con cui si teme di venir a contatto per gli effetti indesiderabili che esso ha. Una cosa che è tabu possiede per così dire un mana di specie maligna che può agire per infezione. I nobili erano così pervasi di "santità" che ciò che essi toccavano, insieme con la loro persona e i proprî averi, veniva sottratto all'uso comune, anche con la loro semplice parola, e acquistava valore di tabu. Il sistema dei divieti per tabu dominava e dirigeva, in innumerevoli diramazioni, la vita sia della società, sia dei singoli. Un gran numero di questi tabu riuscivano assolutamente benefici tanto dal punto di vista economico quanto da quello sociale; così se veniva col tabu proibito lo sfruttamento eccessivo del patrimonio di suini o quello delle acque pescose, se erano proibite per determinate feste le ostilità, se specialmente veniva col tabu salvaguardata la proprietà pubblica e privata. Dove, sotto l'influsso delle idee cristiane o europee, il sistema tabu crollò troppo repentinamente, la caduta fu accompagnata sempre da conseguenze cattive, giacché l'ordine sociale e morale perdeva il suo più solido sostegno.
Il numero delle divinità venerate su una sola isola raggiungeva spesso molte migliaia. C'erano dei per i singoli uomini, per la famiglia, per il villaggio, per il distretto, per tutto il popolo. Ogni attività era posta sotto la protezione di dei particolari; i cacciatori d'uccelli, i pescatori, i santoni, i ballerini, i guerrieri, gli astrologhi, i costruttori di reti e di canotti, i ladri e i malandrini, tutti avevano i proprî dei protettori a cui rivolgersi. I singoli giorni del mese hawaiiano erano già in parte posti sotto il dominio di date divinità. Il ceto inferiore degli esseri sopranaturali (atua, aitu, akua, ecc.) era rappresentato dagli spiriti dei morti deificati attraverso il culto degli antenati. Seguiva quindi la folla degli esseri creati dal culto della natura (uccelli, pesci, specialmente i pescecani e le piovre, ecc.). Anche nei fenomeni naturali, quali l'arcobaleno, le nubi di vario colore e forma, le meteore, si vedevano gli dei fatti corpo. In molte isole l'attività vulcanica eccitava potentemente la fantasia: nelle Hawaii era Pele la dea dei vulcani, specialmente del Kilauea; suo marito era Lono; quando Cook mise il piede sull'isola, si vide in lui la figura di questo dio un tempo partito che ritornava. Molto più in alto stavano gli dei del cielo. Gli Hawaiiani conoscevano tre cieli, i Tahitiani 7, i Samoani 8, i Maori 12. Gli dei celesti più eccelsi appartenevano già alla religione polinesiana primitiva, giacché i loro nomi s'incontrano in diverse isole. A questi apparteneva Tane (Kane), che nelle Hawaii era invocato come il dio supremo, quando gli altri non potevano più soccorrere. Egli era il signore dell'"acqua della vita" e il creatore degli uomini. Tangaloa (Kanaloa, Taaroa, ecc.) il dio più eccelso in molte isole, e in diversi distretti messo in rapporto col sole, appariva quale creatore del mondo, per es. nelle Samoa, dove egli creò prima il cielo, poi la terra. Egli creò le isole rotolando giù dal cielo nel mare le pietre, oppure pescandole, come Maui (vedi sotto) con una canna da pesca (v. nuova zelanda). Anche il già ricordato dio Rongo (Lono) era venerato come dio della guerra su molte isole, per es. a Mangaia (Isole Hervey). Sono anche da ricordare il hawaiiano Miru, che regnava sopra i morti nel suo regno sotterraneo; e a Tahiti il dio della guerra Oro, a cui si attribuiva l'origine della società segreta degli Areoi. L'adorazione degli dei avveniva con preghiere e sacrifici sotto la direzione di un clero potente. Il culto si effettuava in località sacre dove anche, quando c'era l'uso, come nelle Hawaii, venivano eretti gl'idoli. In tutte le isole esisteva la leggenda del demiurgo Maui che pescava fuori dal mare le isole, rubava il fuoco, sosteneva il cielo e a cui si attribuiva anche una serie di tiri birboni. La sua figura non aveva alcun rilievo religioso.
Caratteristiche sono le idee intorno all'origine del mondo che si pensava come una successione di coppie a guisa di genealogia. L'idea che tutto sia nato dall'amplesso del cielo e della terra, che in origine giacevano strettamente uniti fino a quando vennero separati, s'incontra spesso. Un mito samoano dice: In origine c'era il "niente", poi si formò il "vapore" (o la "nebbia"), poi le "cose percettibili", poi le "cose afferrabili", quindi la "terra pastosa", poi le "piccole pietre, le grandi pietre e i monti". E il principio del poema della creazione Tahitiana fa ricordare l'antica tradizione greca-orfica: "Tanaoa riempie lo spazio nell'altura del cielo, percorre il firmamento e tutt'all'intorno si stende il Mutuhei (il Silenzio). Allora non c'era ancora alcuna voce né alcun suono, non c'era nulla di vivo in movimento. Il giorno non esisteva, non vi era la luce, ma un'oscura, nera notte. Da Tanaoa uscì Atea (la luce)...".
Condizioni attuali. - Il numero totale dei Polinesiani, in molte isole divenuti cristiani da un secolo, raggiunge oggi ancora i 200.000 inclusi i numerosi meticci di Europei e Asiatici. La popolazione è, rispetto al passato, dovunque in diminuzione; in alcune isole essa fu addirittura decimata; nelle Hawaii, dove la popolazione nel 1823 era stata dalle missioni stimata intorno a 142.000 individui (la cifra data dal Cook per il 1778 di 400.000 è molto esagerata) vivono oggi ancora 47.000 Hawaiiani, di cui un buon quarto sanguemisti. L'Isola della Pasqua conta oggi 250 indigeni, mentre nel 1860 essi erano circa 3000; qui è stata disastrosa l'opera di requisizione della maggior parte della popolazione, trascinata nei giacimenti di guano delle Isole Chincha. Accanto a tutte le disastrose conseguenze derivate dalla perdita della loro indipendenza sotto il dominio di potenze straniere: malattie, alcoolismo, obbligo di vestirsi, mutato tenore di vita, non si deve dimenticare che su molte isole già prima dell'arrivo degli Europei l'indice di natalità era straordinariamente basso, sterilità e mancanza di prole erano frequentissimi. Già nel 1837 la popolazione delle Hawaii era in rapido regresso con 3335 nascite di fronte a 6838 morti. Negli ultimi decennî la diminuzione della popolazione ha subito un arresto; in alcuni casi anzi si osserva un debole aumento; tuttavia il numero dei Polinesiani puri s'impicciolisce di anno in anno, mentre aumenta il numero dei sanguemisti. Agli accorti sforzi delle potenze americane ed europee è riuscito di elevare il livello degli indigeni civilizzabili con la diffusione dell'insegnamento delle scuole; già nel 1896, per es., l'84% degli Hawaiiani puri superiori ai sei anni erano capaci di leggere e di scrivere; così che oggi essi sono più capaci di prima di mantenersi indipendenti, quali agricoltori o pescatori o operai o meccanici o marinai o commercianti o altro, in quelle isole nelle quali un tempo hanno dominato i loro padri.
Antropologia. - Grazie ai recenti lavori degli antropologi americani e soprattutto di L. R. Sullivan, i due ultimi decennî hanno visto porre le basi di una buona conoscenza dei caratteri antropometrici dei Polinesiani. Possediamo ora dati rilevati con tecnica moderna ed elaborati coi metodi statistici più recenti per parecchi arcipelaghi e cioè: Hawaii, Samoa, Tonga, Marchesi, Società, Nuova Zelanda, e ogni gruppo è rappresentato con un numero sufficiente di casi. Per le Hawaii abbiamo anzi dati di due provenienze. Una prima, dei dati rilevati dal Sullivan, ma elaborati dal Wissler, per la prematura morte del Sullivan; una seconda dei dati presi dal Tozzer ed elaborati dal Dunn. La serie dei Maori misurata da un autore maori, Te Rangi Hiroa (P. H. Buck) si compone di ben 424 maschi, per le misure più importanti, ed oltre questa cifra per altri dati.
I diversi gruppi polinesiani dimostrano una singolare approssimazione nei valori della statura media. La divergenza massima nelle medie è appena di cm. 3,5. Ecco le medie relative: 205 Hawaiiani maschi (Sullivan) cm. 169,5 e 175 femmine cm. 159,1; 70 Hawaiiani maschi di Dunn cm. 171,3 e 34 femmine 162,6; 60 Samoani maschi cm. 171,7 e 23 femmine cm. 161,2; 100 Tongani maschi cm. 173 e 82 femmine cm. 162,5; 79 Marchesani maschi cm. 170,3 e 73 femmine cm. 162,50; 85 isolani della Società maschi cm. 171,3 e 68 femmine cm. 161,1; 424 Maori maschi cm. 170,6. I più alti adunque sarebbero i Tongani, i più bassi gli Hawaiiani di Sullivan, sempre però non molto distanti gli uni dagli altri. Questa relativa uniformità sorprende, data l'enorme distanza dei gruppi insulari ed il loro isolamento. È opportuno ricordare che molto più bassi invece sono i Carolini di Yap, i 46 maschi misurati da K. Hasebe avendo una statura di 163,7. Ma i 34 Carolini maschi di Kapingamarangi misurati da O. Schlaginhaufen hanno di nuovo una statura di 171,1. La variabilità della statura, misurata dalle costanti statistiche (v. antropologia, App., p. 24) dimostra un valore massimo (sempre relativamente però agli altri gruppi polinesiani sopra nominati) negli isolani della Società.
Per l'indice cefalico orizzontale abbiamo i seguenti valori: Hawaiiani maschi del Sullivan 84, femmine 84,7; Hawaiiani maschi del Dunn 83,4, femmine 84,2; Samoani maschi 81,3, femmine 80,8; Tongani maschi 81,1, femmine 81,6; Marchesani maschi 79,4, femmine 81,6; Società maschi 85, femmine 82,2; Maori maschi 77,7. Gl'isolani della Società sono adunque i più brachicefali di tutti, ma non molto oltre gli Hawaiiani. I Marchesani e Maori sono mesocefali. I Samoani e i Tongani sono intermediarî. È evidente ad ogni modo che tutti i Polinesiani sono inclinati verso le forme piuttosto corte del cranio cerebrale, non raggiungendo però valori di brachicefalia intensa. I Carolini di Yap e di Kapingamarangi sono sul limite più basso della detta variazione, avendo rispettivamente 77,7 e 78,5. Anche per l'indice cefalico gl'isolani della Società sono i più variabili fra i Polinesiani propri. L'analisi dei valori delle distanze che determinano l'indice cefalico (lunghezza e larghezza della testa) permette di stabilire che la serie degli Hawaiiani del Dunn presenta valori assai più piccoli di larghezza e lunghezza di quelli della serie del Sullivan. H. L. Shapiro, dietro il Dunn, ritiene che la serie di questo sia una serie selettiva. È possibile però un'altra spiegazione, che è anche più probabilmente la giusta.
Per i valori dell'altezza facciale, presi come espressione dello sviluppo della faccia in grandezza, i sei gruppi polinesiani si dividono in due ca- tegorie. L'una che comprende Samoani e Tongani, a faccia assai alta, l'altra che comprende gli altri gruppi a faccia relativamente, non assolutamente, bassa, giacché in complesso i Polinesiani hanno facce alte in confronto delle variazioni dell'umanità. Tuttavia il Sullivan, a proposito delle facce altissime dei Tongani e Samoani, emette il dubbio che vi sia per qualche cosa la incertezza della determinazione, sul vivente, del punto superiore (Nasion) della misura. Lo Shapiro fa notare però che non soltanto per questa misura Tongani e Samoani si differenziano dagli altri gruppi. È interessante notare che gli Hawaiiani del Dunn hanno il valore medio più basso di tutte le serie polinesiane (122,7). Le larghezze della faccia divergono poco fra i diversi gruppi, fatta eccezione degli Hawaiiani di Dunn, in cui è più piccola. Non si può escludere però che ciò sia solo correlativo ai più piccoli valori delle dimensioni del cranio cerebrale. È caratteristico di quasi tutti i gruppi polinesiani il piccolo valore della larghezza frontale minima, che raggiunge il minimo neili isolani della Società (103 per i maschi, 101,4 per le femmine). Il massimo valore in 107,8 è presentato dagli Hawaiiani, ma è sempre più piccolo di quello degli ibridi hawaiiani. Le dimensioni del naso, sebbene costituiscano le misure facciali più dubbie per le difficoltà che presentano, pare diano l'altezza più sensibile per i Tongani e Samoani con 57,5 e 60 rispettivamente. I Maori avrebbero l'altezza più piccola con 52,8. La cortezza del naso è in correlazione con un labbro superiore piuttosto alto nei Maori. Questi però, avendo anche un naso assai stretto, si avvicinano, come i Samoani e i Tongani, alla leptorinia. Tutte le serie sono in complesso mesorine. Lo Shapiro ha calcolato le differenze delle medie di ogni gruppo da quella degl'isolani della Società (da lui particolarmente studiati) ed ha calcolato delle medie di queste differenze per i valori metrici, distanze ed indici. In tal guisa egli ha potuto stabilire quali gruppi più si somigliano, per detti valori metrici. Qua come per altri casi, occorre fare delle riserve, sul significato reale di questi confronti, basati su caratteri metrici, ma essi non vanno trascurati, quando confermino induzioni basate su fatti di carattere descrittivo, che, per la loro natura, hanno bisogno di controllo. Orbene, le dette medie stabiliscono una somiglianza massima degl'isolani della Società con gli Hawaiiani di Sullivan, quindi coi Marchesani, e successivamente coi Tongani e Samoani. Forte è invece la differenza media, almeno per le distanze assolute, degli Hawaiiani del Dunn e ciò è accettabile, ma viceversa non è accettabile la forte divergenza dei Maori. Ed infatti nel calcolo di questa divergenza viene ad esser dato un peso eccessivo alle differenze nella lunghezza e nella larghezza del cranio che hanno in realtà uno scarso valore raziale e sistematico.
Passando ai caratteri descrittivi, la forma del capello più frequente è quella del capello diritto e a larga ondatura. Fanno eccezione però gli Hawaiani di Dunn e i Marchesani, che hanno frequenze apprezzabili di forme ricciute o crespe, rispettivamente con 28,4 e 1,94 per i primi e 26,8 e 5 per i secondi. Molto singolare è la differenza per questo carattere fra gli Hawaiiani di Sullivan e quelli di Dunn. I primi hanno ben 69% di capelli diritti, mentre i secondi hanno appena 8,4. I capelli ricciuti e crespi sono rappresentati nei primi solo col 3% complessivo. Il colore dei capelli è prevalentemente nero o bruno scuro. Handy osservò però un'alta percentuale di bruno-rossiccio fra gl'isolani della Società. Il colore degli occhi è prevalentemente bruno, il bruno-scuro però è più comune del bruno-chiaro. Fra i Marchesani, però, fu constatato il 7,2% fra gli uomini ed il 9,5% fra le donne di occhi azzurri. Questo fatto dimostra intervento, sebbene non documentato anamnesticamente, di sangue europeo. Per lo sviluppo della pelosità, gl'isolani della Società ed i Marchesani sono assai più glabri dei Tongani e Samoani. Questi due gruppi presentano uno sviluppo marcato di barba sul mento, nella metà dei casi. Bisogna però notare che non abbiamo dati esatti per questo carattere per gli Hawaiiani di Dunn e per i Maori. Anche per la pelosità corporea, Tongani e Samoani presentano le più forti percentuali di marcata pelosità. La plica mongolica ha la sua massima frequenza fra gl'isolani della Società, col 30% circa di gradi medî ed il 7% di gradi forti. Subito dopo vengono i Marchesani con 19,3 e 3,6 rispettivamente. Mancano dati esatti per gli Hawaiiani del Dunn e per i Maori. È tuttavia da far presente che questo è un carattere la cui osservazione è fortemente influenzata dall'errore di equazione personale.
Le serie di cranî della Polinesia, esistenti in molti musei di Europa e d'America e di cui parecchie centinaia sono state illustrate da autori diversi, concedono numerose constatazioni che riassumiamo brevemente, per i punti principali: il Turner osservò che i cranî più antichi, di grotte dell'isola Hawaii, p. d., oltre ad avere più forti dimensioni, inclinano di più alla brachicefalia e sono ipsiconchi. Ma soprattutto i nasali sono poco incurvati ed il naso è poco prominente. I cranî provenienti invece da sepolture della costa nell'isola di Oahu, meno antichi, sono in maggioranza mesatidolicocefali, hanno faccie più strette e più basse, orbite basse, naso fortemente concavo-convesso, nasali nella loro parte inferiore rivolti verso l'innanzi. Altre due serie studiate da Allen confermano i fatti osservati dal Turner. I dati craniologici antichi adunque indicano delle differenze ben nette fra nord e sud del gruppo delle Hawaii, fra Oahu e Hawaii. Il Sera in base ai detti caratteri ritenne che nell'isola di Hawaii propriamente detta siano residui più manifesti del primo tipo umano, da lui chiamato tibeto-polinesiano (v. fisionomia: Fisionomia facciale etnica). Nella ricca serie, di circa 150 esemplari di cranî moderni delle Hawaii, ma nella massima parte provenienti da Oahu, che si conserva a Londra, il Sera ha potuto riscontrare una certa frequenza del primo tipo facciale, ma, tutto sommato, la serie non dimostra la frequenza di tale tipo che si incontra a Tahiti e fra i Moriori. È degno di nota però che la serie di Oahu, misurata dal Davis, inclina fortemente alla brachicefalia a differenza dei cranî antichi della costa. I detti fatti ci permettono di spiegare le divergenze della serie Hawaiiana di Sullivan da quella di Dunn, ammettendo che nella prima, proveniente appunto dall'isola di Hawaii, prevalgono i caratteri del tipo tibeto-polinesiano, sebbene non allo stato puro; nella serie di Dunn, proveniente da Oahu, caratteri di un tipo diverso, la cui caratteristica più saliente è la presenza di capelli piuttosto arricciati. Ma qui si rimane in dubbio tra un ravvicinamento ai Micronesiani o ai Melanesiani. I Micronesiani, per ciò che si può giudicare dagli scarsi dati che sinora ne abbiamo, devono essere giudicati differenti e dai Polinesiani e dai Melanesiani e, caso mai, esser più ravvicinati, secondo il Sera, agl'Indonesiani. Le due serie micronesiane che abbiamo ricordato non sono molto caratteristiche per la Micronesia, essendo l'una di un gruppo (yap) dell'estremo ovest dell'area, l'altro (Kapingamarangi) del limite sud. Al Sera pare più probabile che l'elemento che dà agli Hawaiani del Dunn le loro caratteristiche sia di origine micronesiana. Comunque sia, dato che le serie craniensi antiche ricordate sono dolicocefaliche, occorre ammettere insieme che si sia verificata una certa evoluzione della forma del cranio cerebrale, dalla dolicocefalia alla brachicefalia.
All'estremo limite est della Polinesia, all'Isola della Pasqua, i caratteri facciali dei numerosi cranî che si posseggono sono evidentemente di un tipo praticamente più simile al tipo melanesoide che al primo innanzi nominato ed in più si può dire che esso è piuttosto rozzo. Espressione anche di questa primitività è la dolicocefalia. Anche i caratteri metrici della faccia confermano la detta diagnosi. Condizioni affatto diverse si verificano nell'Isola Sud della Nuova Zelanda e particolarmente nelle Isole Chatham. Qua, fra i cosiddetti Moriori è riuscito al Sera di constatare, e per i caratteri metrici della faccia e per i caratteri descrittivi, da lui studiati nella serie di Londra, la presenza del primo tipo facciale o tibeto-polinesiano con un'intensità tra le più forti che s'incontrino in tutta la Polinesia. Nei Moriori i detti caratteri facciali sono accompagnati da platicefalia, che rappresenta un'eccezione nei cranî del Mar del Sud e non soltanto Polinesiani. Nei Maori invece vi è una molto maggiore frequenza di caratteri melanesoidi nel cranio. Il tipo tibeto-polinesiano è abbastanza frequente, secondo il Sera, nei cranî del gruppo della Società, che si conservano a Parigi. Ne diamo appunto un esempio assai dimostrativo nella figura. Comunque la distribuzione dei tipi facciali nella Nuova Zelanda è assai importante. Essa dimostra: 1. il forte grado di annientamento del tipo tibeto-polinesiano su tutta l'area polinesiana; 2. la sua precedenza spaziale e cronologica sul melanesoide. Qua e là il primo tipo però può essersi ben conservato anche in isole meno periferiche, come nella Società, ma, tutto sommato, esso è raro. Il tipo umano rappresentato dai Tongani e Samoani è in realtà più prossimo al Melanesoide che all'altro, per i caratteri fisionomici. Può fare illusione in proposito la sua evoluzione gerarchica notevolissima, ma è questo un caso assai dimostrativo della distinzione da fare fra tipo raziale e grado gerarchico di evoluzione della forma. La scarsità di casi di plica mongolica è l'elemento più sicuro di giudizio in proposito, insieme con lo sviluppo così sensibile della pelosità. Il diricciamento del capello, la brachicefalia sono fatti di evoluzione ortogenetica o progressiva del tipo. Gl'isolani della Società, al contrario, dimostrano una maggiore quantità della componente tibeto-polinesiana, che è sensibile anche nei Marchesani. Il Sera, col Giuffrida Ruggeri, ritiene assolutamente infondata la dottrina di un elemento mediterraneo che sarebbe presente soprattutto nei Polinesiani del Centro (Samoani e Tongani). Questa teoria non è che un aspetto dell'opinione piuttosto diffusa dell'origine caucasoide dei Polinesiani. Tale dottrina ha assunto una nuova forma nella sistemazione recente di E. v. Eickstedt. Questo autore ritiene che nei gruppi della Polinesia siano presenti tre componenti raziali in diversi dosaggi da un gruppo insulare all'altro. Un elemento europida (o meglio sud-europida); un elemento paleomongolida, che ritiene più frequente in Micronesia; un elemento paleomelanesida, che sarebbe stato abbastanza forte nella Nuova Zelanda. Non è possibile entrare qua nella critica di tali concetti, coinvolgendo essi la discussione delle vedute generali dell'Eickstedt, di cui si parlerà altrove. Basterà osservare che in Micronesia non è visibile in maggior misura un elemento mongoleggiante e che nella Nuova Zelanda, andando verso il sud (Isole Chatham), diminuiscono i caratteri melanesoidi. Il Sullivan invece ammise due tipi con certezza: l'uno che chiamò Polinesiano, l'altro che chiamò Indonesiano. Entrambi egli immaginava derivati da una forma primitiva, piuttosto mongoleggiante, e da cui essi si differenziarono, l'uno, il primo, in senso "europeo", il secondo in senso "negro". Nella seconda componente tuttavia sarebbe una maggior quantità di mongolismi. Ammise poi come probabile una terza componente, più evidente nei Tongani e Samoani, ma di cui non poté precisare i caratteri. Non possiamo entrare nella discussione della concezione del Sullivan, pure non accettandola. Nella concezione del Sera le componenti raziali della Polinesia appartengono per la maggior parte ai due tipi facciali tibeto-polinesiano e melanesoide. Queste due componenti si riscontrano nel Mare del Sud in condizioni di purezza assai diverse. Il primo elemento cioè è ben raramente allo stato puro, il secondo invece si riscontra talvolta abbastanza puro. Il grado di evoluzione gerarchica è anche esso assai diverso, mentre il primo si riscontra con forme altissimamente evolute (alta statura, faccia alta, cranî di grandi dimensioni), il secondo presenta forti differenze da luogo a luogo per la sua evoluzione gerarchica. Tali fatti dimostrano l'antichità assai grande del primo elemento. Ma le tradizionali migrazioni dei Polinesiani per via di mare, appartengono certo ad un periodo assai tardivo, rispetto alla prima distribuzione dei due tipi sull'area. Non è escluso però l'intervento di un terzo elemento, per la via della Micronesia, che il Sera chiama Indonesiano, ma che non avrebbe affatto sintomi di mongolismo, essendo questi, nell'area micronesiana assai ristretti e dovuti ai cosiddetti Malesi.
V. tavv. CLI e CLII.
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