POLIORCETICA
Con il termine p. (dal gr. πολιοϱϰέω 'assediare una città') si definisce il ramo dell'arte militare che si occupa dei metodi, delle tecniche e degli strumenti per la conduzione degli assedi a città e fortezze.Anche se nell'antico Oriente l'uso di macchine da guerra destinate all'assedio è testimoniato fin da epoca remota, fu solo a partire dalla prima metà del sec. 4° a.C. che iniziò a svilupparsi una vera e propria letteratura tecnica, che raggiunse il suo apogeo in epoca ellenistica. Si sono conservati vari testi in lingua greca: il libro V della Mechaniché sýntaxis di Filone di Bisanzio (sec. 3° a.C.), il Perí mechanemáton di Ateneo Meccanico (sec. 1° a.C.), i Poliorketiká di Apollodoro di Damasco (sec. 2° d.C.). Particolarmente dedicati all'artiglieria sono le Kataskeuái polemikón orgánon kái katapaltikón di Bitone e i Belopoiiká di Filone di Bisanzio, entrambi del sec. 3° a.C., e i Belopoiiká e la Cheiroballístras kataskeué kái symmetría di Erone di Alessandria, del sec. 2°-1° avanti Cristo.Meno numerose sono le fonti latine. Vitruvio tratta delle macchine da getto e da assedio nel De architectura (X, 10-15), dimostrando di conoscere le fonti greche, ma giungendo a produrre un'opera originale; le puntuali analogie che in qualche caso si riscontrano con altre opere - per es., nel caso delle macchine d'assedio, con il testo contemporaneo di Ateneo Meccanico - sembrano potersi spiegare con la comune frequentazione di una stessa scuola di architecti (Fleury, 1993). Più tardi invece (sec. 4°), e senz'altro meno specializzati dal punto di vista meccanico, sono l'Epitoma rei militaris di Flavio Vegezio Renato e l'anonimo De rebus bellicis, trasmesso da quattro codici del sec. 15°, a loro volta derivati dal perduto Codex Spirensis di età ottoniana. Entrambe queste opere appartengono a un'epoca in cui la tecnica militare aveva raggiunto una maggior importanza, come dimostra l'interesse che anche gli storici rivolsero alle macchine d'assedio (Tomei, 1982).Nel corso del Medioevo la p. bizantina e occidentale sono entrambe caratterizzate dalla continuità della tradizione antica: la tipologia dei congegni e a volte anche la terminologia rimasero pertanto pressoché invariate, anche se non mancarono le novità.Oltre ai testi più propriamente tecnici, che ne descrivono la costruzione, l'uso di macchine da guerra destinate all'assedio è testimoniato dall'iconografia, dalle fonti storiche e letterarie e, nel mondo bizantino, anche dai testi di strategia e di tattica; questi ultimi sono più numerosi che in Occidente, dove gli Strategemata di Frontino (sec. 1° d.C.) costituiscono l'opera più nota, e, pur trattando essenzialmente delle modalità delle operazioni belliche e dell'impiego delle truppe, contengono talora notizie relative alle macchine usate per l'assedio.Fra i testi letterari bizantini, il libro II del De cerimoniis aulae Byzantinae di Costantino VII Porfirogenito tratta dei congegni destinati alla guerra contro Creta nel 949: sono citate torri mobili in legno, anche provviste di arieti, testuggini, baliste, manganiká di più tipi, con la loro attrezzatura. Il testo parla anche di sistemi di raccordo, nottolini, anelli, lastre di metallo per proteggere i verricelli, pale, picconi, trapani, corde, chiodi, cucchiaie di ferro. Questo tipo di elenco fa pensare che le macchine venissero smontate per poter essere trasportate (Gyros, 1993).Come già nell'Antichità, anche nel mondo bizantino la guerra d'assedio richiedeva dunque l'uso di macchine per l'assalto, dette mechanémata, e di macchine da getto, dette órgana, mángana, manganiká, ma anche lithobóloi, petrobóloi, petraría, se destinate al lancio delle pietre. L'artiglieria a tensione fu molto spesso usata per il lancio delle frecce: a questo tipo di artiglieria, ereditata dal mondo romano, alludono infatti i termini ballístra, già usato nel sec. 6° da Procopio di Cesarea (De bello Gothico, I, 22), e toxobolístra, usato nelle fonti dal sec. 8° all'11° (Chevedden, 1995), che designano la catapulta. Quanto al lancio delle pietre, risultano scarse le prove di un'utilizzazione dell'onager (ónagros), macchina a torsione provvista di un unico braccio, anche se appare ancora menzionato da Procopio di Cesarea e se in alcuni testi medievali si riscontrano arcaiche descrizioni di congegni a torsione (Chevedden, 1995). A essere soprattutto usato fu invece il trabocco a trazione: il tipo a contrappeso sembra sia stato adoperato nel 1185 durante l'assedio di Salonicco da parte dei Normanni.Da un trattato annesso al De cerimoniis aulae Byzantinae, e anch'esso attribuito a Costantino VII Porfirogenito, si apprende che l'imperatore portava con sé in guerra testi di p., il che indiscutibilmente rivela l'utilità pratica di questa letteratura (Gyros, 1993).L'epoca della redazione del De cerimoniis aulae Byzantinae (sec. 10°) è quella in cui si affermò l'enciclopedismo e con esso il gusto per le compilazioni di opere del passato, anche nel campo della letteratura tecnica militare. Risale a quest'epoca per es. il manoscritto c.d. di Mynas (Parigi, BN, Suppl. gr. 607), in cui sono ripresi i testi di Bitone, Ateneo Meccanico, Erone di Alessandria e Apollodoro di Damasco, seguiti da alcuni passi di strateghi, e che è il testimone della forma più antica di quel corpus poliorcetico trasmesso da manoscritti dei secc. 10°-11° che comprendono anche autori di tattica e strategia (Dain, 1967).Nel sec. 10° i manoscritti di questo corpus dovettero essere consultati da Erone di Bisanzio, nome convenzionale attribuito dal Tardo Medioevo all'autore anonimo dei Paranghélmata poliorketiká, unico trattato bizantino di p. dedicato esclusivamente alla costruzione delle macchine d'assedio. In quest'opera, pervenuta in un unico manoscritto della metà del sec. 11° (Roma, BAV, Vat. gr. 1605; Dain, 1967; Gyros, 1993), vengono ripresi, parafrasandoli, i testi di tecnica militare dei trattatisti greci e lo stesso autore afferma di riunire essenzialmente le descrizioni di Apollodoro di Damasco, spiegandole e completandole con i testi di Bitone, Filone di Bisanzio, Ateneo Meccanico ed Erone di Alessandria. Nel preambolo, l'anonimo estensore precisa inoltre che suo scopo è quello di rendere più comprensibili le loro descrizioni, rese inaccessibili dai termini tecnici non più in uso, sì da rendere possibile costruire i congegni; anche le immagini, che non facilitavano la comprensione dei testi antichi, sono rese più chiare grazie all'uso della tridimensionalità e all'aggiunta delle figure umane.Prima di descrivere i congegni, viene fatta menzione degli architéctones, cui spettava progettarli, deciderne l'uso appropriato e il modo di azionarli, e dei technítai, il cui compito era invece quello di costruirli. A questo proposito, va ricordato che, stando ad Anna Comnena (Alexiade), durante l'assedio di Nicea nel 1097 fu l'imperatore Alessio I in persona a progettare macchine d'assedio di vari tipi (Gyros, 1993).Passando alla descrizione delle macchine e dei congegni, Erone tratta in primo luogo delle testuggini, macchine di protezione che potevano servire per lo scavo o per dar riparo all'ariete e che potevano avere la parte anteriore a forma di cuneo o a sperone o ancora essere simili a un pergolato (ampelochelónai). Se tutti questi tipi erano già noti nell'Antichità, le láisai - ripari leggeri fatti di tralci di vite intrecciati e particolarmente adatti per l'uso su terreni non ripidi - sono considerate invece un'invenzione recente: l'uso diffuso di tali ripari mobili facilmente realizzabili in situ è difatti attestato per la prima volta nel sec. 10° (McGeer, 1995). Fra gli arieti, destinati ad abbattere porte e mura, sono descritti il tipo sorretto da un sistema di doppie scale e quello protetto da una testuggine su quattro ruote. Da Apollodoro di Damasco appare ripresa la descrizione della torre mobile.L'azione di sorpresa giocò un ruolo essenziale nell'assedio e per questo genere di assalto le scale furono il mezzo più usato fin dall'Antichità. Oltre alle scale di corda a forma di rete munite di uncini all'estremità, Erone descrive quelle fatte di pelli cucite come gli otri e gonfiate d'aria, che riprende da Filone di Bisanzio. Ancora più efficace si rivelava l'azione di sorpresa se combinata all'effetto di spavento, come nel caso dell'aulós: si tratta di un congegno a forma di tubo, già descritto da Ateneo Meccanico, che consentiva di scalare le mura senza l'ausilio delle scale. Costruito in legno, rivestito all'esterno di assi o spesse pelli a protezione dei proietti incendiari, l'aulós è orientabile: quando un'estremità tocca terra, l'altra sarà alzata. Erone di Bisanzio suggerisce di ingrandire l'apertura anteriore, quella che viene rivolta verso le mura nemiche, così che due soldati possano tenersi l'uno accanto all'altro, e soprattutto di renderla più spaventosa, grazie a una scultura variopinta avente la testa di un drago o di un leone che sputa fuoco. Certamente diversi erano i tubi (streptá) di cui parla Anna Comnena (Alexiade, XI) e che durante la battaglia navale presso Rodi (1099) condotta da Alessio I contro i Pisani vennero posti sulla prua di ogni nave. Anch'essi presentavano però una terminazione di rame o ferro, a forma di testa di leone o altro animale, e davano appunto l'impressione di vomitare fiamme, allorché attraverso le loro bocche veniva proiettato il c.d. fuoco greco (hugrón pýr 'fiamma liquida'), una sostanza incendiaria di formulazione non precisamente nota, usata per la prima volta nel sec. 7°, la cui principale caratteristica sembra sia stata quella di esplodere all'impatto causando l'incendio (Bradbury, 1992).Fra le altre macchine destinate all'assedio descritte da Erone di Bisanzio vanno ancora ricordate quelle che consentivano di spiare gli assediati, gli strumenti per intaccare le mura, determinandone il crollo, i ponti per attraversare fiumi e fossati, o ancora le macchine destinate all'assedio delle città marittime, le sambýcai, di cui aveva già parlato Ateneo Meccanico e il cui uso è testimoniato anche da altre fonti medievali (Gyros, 1993). Il confronto tra i Paranghélmata e il De obsidione toleranda - trattato poliorcetico dedicato alla difesa, con testi scritti nel sec. 11° da militari, come lo Strateghikón di Giovanni Cecaumeno e i Taktiká di Niceforo Urano - ha rivelato che negli assedi dei secc. 10° e 11° furono utilizzati i congegni di cui si parlava nei trattati di poliorcetica. Dalle fonti citate emerge una tecnologia dell'assedio tutto sommato semplice e poco innovativa, specie per quanto riguarda l'artiglieria, che mostra i Bizantini più interessati a sfruttare la debolezza umana con astuzie e stratagemmi che non all'impiego di mezzi tecnici (McGeer, 1991).La tradizione tecnica antica fu ereditata anche dall'Occidente, dove non furono dimenticati né Vitruvio né, pur se in misura minore, l'anonimo autore del De rebus bellicis. Ma il più letto degli autori antichi fu indiscutibilmente Vegezio (sec. 4°-5°) e le copie dell'Epitoma rei militaris circolarono di fatto molto presto; se ne conservano numerosi manoscritti e ne sono stati recensiti oltre trecento per il periodo compreso fra il 600 e il 1600 (Shrader, 1979). Citato da vari autori nel sec. 12°, Vegezio era ben noto nel Duecento sia a Vincenzo di Beauvais, che ne riprende quasi integralmente il libro IV nel suo Speculum doctrinale (XI, 32-35), sia a Egidio Romano, che se ne ispirò nel De regimine principum. Ma l'Epitoma non fu solo un'opera di erudizione per gli autori medievali: è noto per es. che Rabano Mauro consigliò all'imperatore Lotario I (840-855) di rileggere Vegezio per resistere meglio ai Normanni; una copia dello stesso trattato fu consultata da Goffredo V il Bello, conte d'Angiò, durante l'assedio di Montreuil-Bellay (1147). L'episodio rivela non solo il rispetto della tradizione antica da parte di un uomo esperto nella p., ma anche le nuove esperienze militari medievali: Goffredo, infatti, per proteggere le sue truppe dai difensori della città si servì di una bomba incendiaria e di un'artiglieria a leva, entrambe ignote ai Romani e le cui descrizioni dovevano essere state aggiunte al testo di Vegezio (Rogers, 1992). La continuità della tradizione tecnica antica di fatto non precluse l'evoluzione della p., fenomeno al quale certo contribuì l'interazione fra le crociate e il progresso tecnologico (White, 1975; Rogers, 1992). Del sec. 12° è la prima menzione nelle fonti dell'ingeniator, l'ingegnere militare (Beaujouan, 1986), a cui spettava il progetto del congegno, che veniva poi eseguito dagli operatores. Fra questi ultimi vanno menzionati, al tempo delle crociate, anche i marinai, i quali abituati al lavoro di carpenteria sulle navi, si rivelarono spesso utili. È stato osservato (Rogers, 1992) che la superiorità dei Genovesi nel costruire e usare le macchine d'assedio fu dovuta con tutta probabilità alla loro esperienza e abilità nell'ingegneria navale. Le macchine venivano in genere costruite sul posto, ma molto spesso, come si apprende dai testi, data la scarsità di legno in alcune regioni, esse venivano trasportate, smontate e poi rimontate al momento dell'assedio. Guglielmo Embriaco (m. nel 1102), al tempo della prima crociata, poté trasportare in questo modo da Genova mangani, briccole e torri mobili; così come fece Riccardo I Cuor di Leone (1189-1199) con le macchine portate ad Acri dalla Sicilia e da Cipro.Le macchine di protezione erano destinate a proteggere gli assedianti durante le manovre di accostamento e di assalto: si trattava di strutture mobili, la cui tipologia e a volte la stessa terminologia erano ereditate dall'Antichità, per es. nel caso di quelle denominate cattus, gattus, testudo, vimineus. Se i mantelletti, ripari frontali di legno, ricordano i plutei romani, pur essendo più mobili e leggeri, i gatti, sorta di gallerie di legno, sono invece simili alle vineae.Ereditati dall'Antichità erano anche i metodi per attaccare le fortificazioni: si scavava sotto di esse una galleria per arrivare al di là delle mura o per indebolirne le fondamenta; prima di spingere arieti e torri contro le mura, era necessario riempire i fossati e spianare il terreno.L'ariete, detto a volte anche montone, è il più noto dei mezzi atti a intaccare e quindi a far crollare le mura, ma a questo scopo venivano utilizzati anche picconi, trapani o semplici sbarre di ferro. La storia dell'evoluzione dell'ariete, già usato dagli Assiri, è narrata da Vitruvio e da Ateneo Meccanico (Fleury, 1993). Consisteva in una lunga trave avente di solito all'estremità anteriore una massa di metallo che, sospesa orizzontalmente mediante corde o catene, veniva manovrata dagli uomini con un movimento di va e vieni. Ariete e uomini erano protetti da una semplice tettoia o da una struttura su ruote: si trattava in quest'ultimo caso della macchina che l'inventore cartaginese Geras aveva definito testudo per la sua lentezza e che Vitruvio (De arch., X, 19) chiama invece, con maggior precisione, testudo arietaria. Vegezio spiega tale nome con l'analogia fra la testa dell'ariete che entrava e usciva dalla macchina e quella della tartaruga nel carapace. L'ariete poteva anche occupare la parte inferiore di una torre mobile e in questo caso si parlava di gatto-castello.Le torri mobili d'assalto, le elepoli dell'Antichità, indicate in epoca medievale con i termini castellum, ligneum castrum, turris ambulatoria, berfredum, erano grandi e robuste costruzioni in legno, di altezza pari o maggiore di quella delle mura nemiche, a più piani e montate su rulli o telai a ruote. Muoverle non era facile: l'operazione richiedeva l'impegno di molti uomini e si cercava di effettuarla a una distanza non grande dalle mura. Rivestite all'esterno da pelli bagnate o da lastre di ferro per proteggerle dai proietti e dai materiali incendiari, esse potevano ospitare un gran numero di arcieri, balestrieri, ma anche macchine da lancio. Se nel Tardo Medioevo il loro impiego più comune fu quello di proteggere le operazioni di mina, in precedenza vennero utilizzate soprattutto per raggiungere la cima delle mura nemiche, grazie a un ponte fissato all'ultimo piano, o anche per offrire riparo a un ariete (Bradbury, 1992).La scalata era l'ultima operazione d'assalto e a questo scopo veniva usata una ricca tipologia di scale: di legno, di cuoio, di corda, fisse, smontabili, munite molto spesso di uncini da fissare in cima alle mura o poggianti a volte su piattaforme di base a ruote. Quanto al tollenone - congegno già noto nell'Antichità e consistente in una lunga trave poggiante su una forcella, con una grossa cesta all'estremità che permetteva di sollevare i soldati per renderne più agevole l'attacco alle mura -, l'iconografia medievale ne attesta l'uso anche per il lancio di teste di cadaveri oltre le mura.Le macchine da getto, usate per l'offesa e la difesa, erano destinate al lancio di proietti di più tipi: frecce, pietre o macigni, materie incendiarie, ma anche a volte carogne di animali in putrefazione per spargere epidemie. I termini che le designano sono imprecisi e spesso sembrano interscambiabili: balistae, catapultae, fundae, tormenta, petrariae, mangani, manganelli. Tra le macchine che sfruttavano una tensione per ottenere la propulsione del proietto va ricordata in primo luogo la balista, propriamente, secondo la tradizione antica, una sorta di grande balestra che lanciava frecce, anche se il termine fu comunque usato per designare genericamente un'arma da getto. Non c'è invece accordo tra gli studiosi sulla continuità o meno di impiego nel Medioevo dei meccanismi a torsione di tradizione antica: i mangana citati da Abbone di Saint-Germain-des-Prés (Bella Parisiacae urbis, I, v. 363ss.) nel racconto dell'assedio di Parigi (885-886) sono stati di volta in volta interpretati come designanti ora congegni a torsione ora a leva, sistema quest'ultimo ignoto all'Antichità (Rogers, 1992), anche se di fatto non si puo sapere con certezza cosa fossero. L'esistenza di congegni a torsione nell'Antichità e quella - almeno nell'iconografia - di macchine a torsione definite manganelli nel sec. 14° fanno supporre una continuità dell'uso della torsione lungo tutto il Medioevo, senza che questo tuttavia implichi per il mangano un esclusivo meccanismo a torsione (Bradbury, 1992).Nella letteratura storica e tecnica attuale, le definizioni del mangano risultano tuttora confuse e talvolta contraddittorie, senz'altro anche in conseguenza delle lunghe divergenze teoriche sul suo meccanismo. Esso è generalmente descritto come funzionante con il sistema a leva di invenzione medievale e questo lo accomuna a un'altra macchina da getto, il trabocco, da cui si differenzierebbe per l'uso di una cucchiaia in luogo della fionda. Il tipo più antico del trabocco, detto a trazione umana, raffigurato per es. in molte miniature del Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli, della fine del sec. 12° (Berna, Bürgerbibl., 120 II), e già noto nell'antica Cina, sembra sia apparso in Occidente alla fine del sec. 6° o all'inizio del successivo. L'innovazione del contrappeso è invece più tarda: si è generalmente concordi nel considerare l'inizio del sec. 13° come l'epoca della sua apparizione, anche se prove indirette della sua esistenza risalgono già al secolo precedente; non sembra ancora risolto invece il problema di una sua origine orientale od occidentale. Entrambi i tipi funzionano sul principio di una trave o asta di legno in grado di ruotare intorno a un asse orizzontale: per il lancio, l'estremità più lunga, con la fionda e il proietto viene abbassata dalla forza umana, nella versione più antica, o con l'ausilio di un contrappeso, nel tipo più recente. Villard de Honnecourt nel suo Livre de portraiture, del 1270 (Parigi, BN, fr. 19093, c. 30), descrive un trabocco a contrappeso, di cui si conserva solo il disegno della struttura di base. Il congegno, che doveva misurare oltre m 20 di altezza, è di un tipo particolare, perché destinato al lancio di una freccia, da intendersi come sorta di giavellotto o come lunga asta di legno, armata di una punta di ferro e munita di impennaggio a coda. È stato di recente ricostruito, seguendo le indicazioni dell'autore, rivelandosi non solo realizzabile, ma anche funzionante (Bechmann, 1993). Sempre nel sec. 13°, Egidio Romano descrive quattro tipi di trabocco usati ai suoi tempi: il trabutium a contrappeso fisso, la blida, detta anche biffa o briccola, munita di contrappeso mobile, il tripantum a due contrappesi, fisso e mobile, e infine un quarto tipo, azionato da uomini mediante corde.Le macchine da getto sono trattate anche in una fonte araba. La produzione di testi di arte militare nel mondo arabo è attestata solo a partire dal sec. 12° e i temi trattati sono la cavalleria, il tiro con l'arco, la tattica, la strategia e le macchine d'assedio (Hill, 1973). In un trattato del 1187, Murḍā ibn ῾Alī al-Ṭarsūsī descrive con cura, valendosi talora delle informazioni fornitegli da un fabbricante di armi di Alessandria, come costruire e far funzionare varie armi, fra cui figurano balestre e mangani, la manovra dei quali comporta segreti che vanno preservati (Cahen, 1947-1948). Fra le balestre spicca un modello a quattro archi, ognuno dei quali può lanciare tre o quattro frecce. Delle macchine definite mangani, tutte con meccanismo a leva, l'autore distingue quattro tipi, diversi per forma e costruzione. Al mangano arabo, considerato il più valido e sicuro, seguono quello turco, quello franco e infine quello persiano. Quest'ultimo si rivela una macchina complessa, visto che per il lancio si avvale, oltre che di un contrappeso, anche di una balestra. La presenza del contrappeso fa pensare si tratti in questo caso di un trabocco, nonostante l'uso della cucchiaia e non della fionda, consueta in Occidente.Accurate descrizioni dei congegni e delle loro modalità costruttive, accompagnate da indicazioni su proporzioni e materiali, caratterizzano anche quello che può considerarsi l'unico testo tecnico relativo alla costruzione delle macchine destinate all'assedio trasmesso dall'Occidente medievale. Si tratta del Texaurus acquisitionis Terre Sancte, redatto da Guido da Vigevano nel 1335 e da lui presentato al re di Francia Filippo VI di Valois, in occasione di una spedizione da questi progettata, ma mai realizzata, per riconquistare i luoghi santi. Il trattato si è conservato in due manoscritti (Parigi, BN, lat. 11015; New Haven, Yale Center for British Art, Mil. mss. 4°): per il primo sono state di recente proposte una datazione all'ultimo quarto del Trecento e un'attribuzione ad area avignonese, mentre il secondo venne trascritto a Cipro nel 1375 (Ostuni, 1993).Nel preambolo Guido da Vigevano espone il suo intento di ideare macchine che si possano trasportare facilmente e approntare rapidamente, per ovviare alla faticosa spedizione oltremare dei congegni bellici necessari per la conquista della Terra Santa: da ciò deriva l'idea straordinaria e incredibilmente moderna di progettare macchine di legno costituite da elementi modulari, intercambiabili e componibili. Con precisione sono descritti i vari sistemi di connessione, fissa e snodabile, realizzati mediante giunti, incastri, cerniere: in questo modo le macchine potevano facilmente essere trasportate in calosis, in peciis, sui cavalli entro delle balle o, in un solo caso, in casse. I tredici capitoli del trattato sono accompagnati da quelle che Guido definisce 'chiare figure', alle quali rinvia il lettore quando per es. non riesce a esprimere bene con la scrittura quello che ha chiaro in mente. Oltre ai disegni che illustrano le macchine, nel codice di Yale si possono vedere, all'interno del testo, i particolari costruttivi (caviglie, chiavette e altro). Questo nuovo rapporto fra testo e immagine rivela l'importanza del Texaurus anche sul piano dell'illustrazione tecnica. Caratterizza l'opera di Guido da Vigevano la conoscenza della tecnica antica e di quella contemporanea, senz'altro acquisita con la pratica diretta di botteghe di artigiani, come del resto rivela anche la sua padronanza del linguaggio tecnico.Come in altri testi tecnici di p., sono descritti sistemi di protezione, dispositivi per attraversare le acque e soprattutto macchine d'assedio. Un congegno che permetteva di sollevare gli assedianti fino alle mura nemiche era la pertica, elemento essenziale di quasi tutte le strutture, sormontata da una sorta di torretta dove si tenevano i soldati, detta bertesca, munita di carrucole di sollevamento. Furono i manoscritti bizantini dei secc. 10° e 11° a suggerire a Guido da Vigevano l'idea di quello che in greco viene definito karchésion oppure pyrghíon o thorakíon. Da Erone di Bisanzio egli riprese il modello del sistema di scale sovrapposte con applicato un ponte, che i soldati possono alzare e abbassare mediante corde che scorrono su due carrucole.Indipendentemente dal contenuto del testo, la forma può attirare e stimolare l'ingegno dell'autore del trattato, come per es. nel caso della c.d. pantera, un particolare dispositivo che consentiva di tenere a distanza un gran numero di nemici pur disponendo di pochi uomini armati. Si tratta di una sorta di recinto triangolare, formato da assi congiunte, ad angolo acuto nella parte anteriore, mentre dalla parte posteriore due pertiche permettevano di regolarne la dimensione; intorno alle assi erano fissati lunghi ferri appuntiti che impedivano al nemico di avvicinarsi. Questa stessa struttura da triangolare diventa pentagonale nel disegno successivo, per illustrare l'altro suo uso, che era quello di circondare, proteggendolo, un carro trainato da buoi che portava un piccolo mangano. Grazie allo stesso tipo di raffigurazione in pianta si può proporre un suggestivo confronto con l'immagine della testuggine detta émbolon nei Paranghélmata poliorketiká di Erone di Bisanzio (Roma, BAV, Vat. gr. 1605), che deve aver ispirato Guido da Vigevano. Di forma triangolare o pentagonale, era anch'essa ad angolo acuto nella parte anteriore e munita sui lati di ferri aguzzi, in realtà chiodi di ferro che consentivano di fissarla al suolo. Nella prima immagine della pantera appaiono anche due raffinate figure - una delle quali ha in mano un martello con penna a cacciachiodi usato in carpenteria - facilmente identificabili con gli operatores che l'autore spesso menziona, come nel caso della presentazione della torre elevabile. La didascalia del disegno precisa che, anche se poteva sembrare difficile, l'operator per l'appunto avrebbe saputo realizzarla facilmente.La domus incastellata progettata da Guido da Vigevano si basava sul principio dell'ascensore: era una struttura montata su un sistema di pertiche che i soldati, stando all'interno, potevano alzare e abbassare servendosi di corde scorrevoli su carrucole. L'idea di queste torri elevabili, diverse quindi dalle imponenti torri d'assedio note fin dall'Antichità, si trova già in Vegezio, che ne parla come di un vero e proprio inganno che gli assedianti potevano usare: si doveva costruire una torre e farne in segreto un'altra all'interno che si poteva tirare su con le corde una volta vicini alle mura.Il ponte per attraversare corsi d'acqua era fatto di assi di legno, fra loro unite mediante giunti incavicchiati e corde; una volta ripiegate le assi, alcune cinghie di corda permettevano di agganciare molto rapidamente il carico di un cavallo a quello di un altro. L'uso della compaginatio o assemblaggio per un ponte, fatto in questo caso di otri, si riscontra nel De rebus bellicis, al quale senz'altro Guido si ispirò. Scomponibile è anche la barca a pale: per consentire una maggiore velocità sulle acque, Guido consiglia l'uso di pale incrociate unite al centro da una manovella di ferro che si poteva girare come una macina. Se l'invenzione delle ruote a pale in Occidente si attribuisce all'anonimo estensore del De rebus bellicis, è invece un'idea originale dell'autore del Texaurus la manovella composta, di cui il trattato fornisce la prima raffigurazione e il primo esempio di applicazione a un sistema di propulsione. Costituiscono una novità anche i due carri d'assedio, che hanno rispettivamente la configurazione di una torre e di una torre-mulino a vento; all'interno hanno una struttura di base - un telaio su ruote con un complesso sistema d'ingranaggio - che le contraddistingue dalle torri mobili dell'Antichità. Il carro automotore, il primo della letteratura tecnica, si muove girando due manovelle. Quanto all'altro carro, Guido afferma di aver concepito tale congegno a somiglianza dei mulini a vento e difatti tutto il suo sistema d'ingranaggio rinvia a quello dei mulini, così come la stessa scelta di alcuni termini; anche in questo caso, il trattatista lombardo dà la prima descrizione di un mulino a vento a forma di torre.L'elaborazione delle macchine di Guido da Vigevano è quindi il frutto di una continuità con il passato e di una serie di innovazioni personali: la continuità dei modelli antichi si riflette nella stessa scrittura tecnologica, precisa e con puntuali definizioni degli elementi, che senz'altro si può avvicinare a quella usata dai meccanici greci.Molto più semplice risulta il linguaggio degli ingegneri che, già all'inizio del sec. 15°, trattarono di p. nelle loro opere. Mariano di Jacopo Vanni (detto il Taccola), Roberto Valturio, Konrad Kyeser e Francesco di Giorgio Martini si ispirarono a Guido, così come prima di loro Guido si era ispirato per es. ai Bizantini, che avevano a loro volta assunto i Greci come modello: la storia della tecnica militare si delinea dunque come una storia fatta di continuità e di evoluzione, in cui il passato costituisce di volta in volta momento di riflessione e spunto per nuove invenzioni.
Bibl.:
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