REDDITI, Politica dei
(App. IV, III, p. 169)
Teoria macroeconomica, politica economica e politica dei redditi. - I recenti, accesi dibattiti nel campo della macroeconomia (la teoria, vale la pena di ricordare, che ha lo scopo di fornire spiegazioni del funzionamento complessivo del sistema economico e quindi di fornire indicazioni sui possibili interventi di politica economica) non hanno portato − nonostante l'esplosione di mode e la diffusione di denominazioni suggestive di ''scuole'' che si presentano come portatrici di fondamentali innovazioni − a novità di rilievo per la definizione degli schemi teorici di riferimento per le scelte di politica economica, e in particolare per la politica dei r. così come è definita tradizionalmente: cioè un insieme coordinato di interventi miranti a conciliare la crescita del r. e dell'occupazione con la stabilità dei prezzi attraverso il ''controllo'' di tutti i r. (Lecaillon 1965; Papi 1967), che comporta in particolare −come canone fondamentale − l'ancoraggio forte dell'andamento dei salari reali alla crescita della produttività (media) del sistema.
In effetti, la persistente contrapposizione tra la ''sintesi neoclassica'', di matrice walrasiana, e le posizioni ''eretiche'' di varia ispirazione (postkeynesiana o neoricardiana); il dibattito tra ''monetaristi'' e keynesiani; l'emergere della ''scuola'' cosiddetta della ''Nuova Macroeconomia Classica'', o della scuola della ''Nuova Economia Keynesiana''; e le discussioni che intorno a questo si sono sviluppate, hanno infatti finito in sostanza per rappresentare, sia pure con nuove prospettive, in nuovi termini e in nuove forme, alcune differenze ''antiche'': quella tra opposte visioni del funzionamento dei sistemi capitalistici contemporanei (Beaud e Dostaler 1993; Dow 1989; Milgate 1988), e quella tra diverse nozioni di equilibrio nella teoria economica (Caravale 1992).
Alla visione ''ottimistica'', imperniata sull'idea dell'esistenza di meccanismi spontanei capaci, in presenza di condizioni opportune, di produrre un esito desiderabile sotto il profilo dell'efficienza nell'uso delle risorse e della giustizia sociale, si è così continuata a contrapporre la visione che J.M. Keynes chiamava ''eretica'' (Keynes 1973, p. 489), fondata sull'idea che le forze economiche di mercato sono incapaci di svolgere un ruolo di questo tipo e che pertanto il raggiungimento di posizioni ottimali in termini di efficienza e di giustizia richieda il ricorso sistematico a interventi di politica economica attiva da parte dell'operatore pubblico. Una contrapposizione che non coincide con quella tra la tesi sull'esistenza di un equilibrio ottimale come centro di gravità del sistema, e l'opinione opposta secondo cui il sistema tende a collocarsi su una posizione che è di equilibrio nel senso pieno, ma che non è caratterizzata da ottimalità. La prima di queste è infatti compatibile con l'idea che l'attrazione verso l'equilibrio ottimale è ostacolata da ''imperfezioni'' nel funzionamento dei mercati che ne impediscono la realizzazione concreta, e quindi con l'idea, comune anche alla visione ''eretica'', della necessità di interventi di politica economica capaci di consentire al sistema di avvicinarsi alla situazione di ottimalità. È ovvio peraltro che nell'un caso e nell'altro gli obiettivi degli interventi, e gli strumenti con cui questi si realizzano potranno essere anche fortemente differenziati (Caravale 1991 e 1992).
La contrapposizione più marcata ha così riguardato la concezione della politica economica, con atteggiamenti che possono essere forse distinti in quattro gruppi: a) la negazione di ogni suo ruolo (tipica del liberismo più radicale, per es. nella forma della ''Nuova Macroeconomia Classica''), e che riecheggia la non recente prescrizione, dettata da J. Bentham nel 1793, secondo cui "la regola generale è che niente dovrebbe essere fatto o tentato dal governo; il motto o la parola d'ordine del governo... dovrebbe essere star fermi... La richiesta che l'agricoltura, l'industria e il commercio presentano ai governi è modesta e ragionevole come quella che Diogene fece ad Alessandro: ''Togliti dal sole''" (A manual of political economy, 1793); b) la concezione meccanica del ruolo della politica economica, che è implicita per es. nell'identificazione dell'unico intervento ammissibile nella cosiddetta ''regola automatica'' suggerita dal monetarismo friedmaniano per assicurare la stabilità dei prezzi (questa regola consiste nella sottrazione delle variazioni della massa monetaria alla discrezionalità delle autorità monetarie e politiche con l'imposizione, eventualmente anche di natura costituzionale, di uno stretto adeguamento del tasso di crescita della quantità di moneta al tasso di crescita a lungo termine del prodotto nazionale lordo; v. monetarismo in questa Appendice); c) la concezione sussidiaria di tale ruolo, legata alla visione ''imperfezionista'' del funzionamento dell'economia che caratterizza la ''sintesi neoclassica'' e gran parte della ''Nuova Economia Keynesiana'' (l'equilibrio ottimale sarebbe possibile in teoria, ma in pratica è ostacolato da una serie di imperfezioni, che vanno contrastate); d) la concezione keynesiana, più complessa e più impegnativa, che ha come presupposto l'idea che il sistema, lasciato a se stesso, tende a muoversi nella direzione di un equilibrio che non è affatto ottimale né dal punto di vista della utilizzazione delle risorse disponibili, né da quello della giustizia sociale. Una concezione, questa, che implica l'attribuzione allo stato di responsabilità forti (nel campo della politica monetaria, fiscale e sociale), che vanno ben al di là della definizione e della tutela del quadro entro il quale le forze del mercato dovrebbero liberamente esprimersi; una concezione che presenta l'inconveniente di non poter essere definita a priori nei suoi contenuti una volta per tutte (creando così, per usare le parole di J. Robinson, "la scomoda situazione di dover pensare da soli", 1966, p. 152); e che ha dato luogo all'erronea identificazione tra le ''prescrizioni keynesiane'' e la prassi dei disavanzi pubblici incontrollati (Pasinetti 1983 e 1994).
In una situazione di "sgretolamento del consenso teorico" (Milgate 1988), la teoria macroeconomica, per usare le parole di R. Klein (1994) "è divenuta vaga, soggettiva, incerta e inutilizzabile per la formazione delle scelte di politica economica"; in questo quadro, per una complessa serie di ragioni − storiche, teoriche e di prassi (soprattutto connesse con le modalità attraverso le quali si è concretamente realizzata la presenza del settore pubblico nell'economia) − si è consumata la ''crisi'' di quell'orientamento teorico e di politica economica che va sotto il nome di ''keynesismo'', e che aveva caratterizzato il "trionfo dell'intervenzionismo" del secondo dopoguerra (Beaud e Dostaler 1993). Si è assistito così a una ripresa del liberalismo prekeynesiano: il laissez-faire è tornato in primo piano, in una misura che sarebbe stata imprevedibile fino a una ventina d'anni fa, e si è andato consolidando un atteggiamento (testimoniato per es. dal detto, diffuso negli anni Ottanta negli Stati Uniti, secondo cui "non esistono oggi keynesiani al di sotto dei quarant'anni") di insofferenza di tutto ciò che poteva apparire come legato alla macroeconomia e alle politiche economiche keynesiane (Jossa 1994).
Alcuni radicali cambiamenti di impostazione. - Il clima culturale che si è creato ha finito per incidere profondamente anche sul significato attribuito all'espressione ''politica dei r.'' e quindi al contesto nel quale è stato ritenuto legittimo impiegare l'espressione medesima. L'esempio più significativo è costituito dalla diffusione dell'accezione della politica dei r. come "manovra di contenimento dei salari monetari e reali diretta a favorire l'occupazione" (Roncaglia 1986). Questa accezione ha in realtà due implicazioni non corrette: a) la sovrapposizione concettuale tra politica dei r., politica di sostegno del r. e dell'occupazione, e politica di controllo dell'inflazione; quindi in pratica tra politica dei r. e politica economica tout court; b) la legittimazione della scelta, sempre più frequente (v. per es., Roncaglia 1986), di collocare l'analisi delle possibili spiegazioni teoriche della relazione inversa tra salari reali e occupazione come parte essenziale della riflessione sulla politica dei r.: da quelle di tipo classico e marxiano, a quella dell'impostazione marginalista (con le critiche a questa rivolte da Keynes e da Sraffa), alla curva di Phillips (come relazione inversa tra tasso di crescita dei salari e dei prezzi e tasso di disoccupazione), alle implicazioni delle spiegazioni dei prezzi fondate sul ''principio del costo pieno''. Sotto questo secondo profilo si deve sottolineare che non si tratta in realtà di una nuova accezione di una politica che rimane invariata nella sua sostanza, ma piuttosto della definizione di una politica che è fondamentalmente diversa, caratterizzata da un drastico cambiamento degli obiettivi e degli strumenti di cui è suggerito l'impiego.
Sul terreno specifico della teoria economica questa concezione appare riflessa dalla rapida diffusione dell'impostazione che va sotto il nome di ''Nuova Economia Keynesiana'' (Lawlor 1993): in effetti il corpo centrale di questa ''nuova'' impostazione − che, secondo alcuni (per es.: Lawlor 1993; Nisticò, D'Orlando e Pirro 1993), non è né nuova, né keynesiana (il punto di riferimento per la valutazione della ''fedeltà keynesiana'' è costituito dal capitolo 19° della General theory, in cui Keynes argomenta dettagliatamente il suo rifiuto della tesi secondo cui una diminuzione generalizzata dei salari comporta necessariamente un aumento dell'occupazione) − tende ad attribuire un ruolo fondamentale alla rigidità dei salari nella spiegazione del fenomeno della disoccupazione.
Il nuovo clima culturale che è andato maturando si riflette anche nella pubblicistica più illuminata (di cui può essere considerato epitome un articolo di fondo di M. Pirani su la Repubblica del 4 luglio 1993) e nei documenti di organismi istituzionali: particolarmente significativo il rapporto del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro del luglio 1993 (CNEL 1993), nel quale si arriva a sostenere che la visione ''tradizionale'' della politica dei r. − quella, per la precisione, che ha come punto di riferimento essenziale la condizione di sviluppo equilibrato definita dal modello di crescita di Harrod-Domar, e che implica il rispetto della condizione di un aumento del salario reale allo stesso tasso della produttività media del sistema (v. App. IV, iii, p. 169) − riflette una ''visione statica'', in ciò differenziandosi dalla ''nuova'' concezione, la cui natura "dinamica e propulsiva" sarebbe legata al riconoscimento, che si vorrebbe far apparire nuovo, del fatto che il r. è "influenzato nella sua evoluzione dalla chiave di ripartizione che per esso viene adottata" (CNEL 1993, p. 1). Si avverte chiaramente il presupposto teorico − rifiutato da Keynes − che una riduzione dei salari implica come necessaria conseguenza un aumento del livello di attività e di occupazione.
A questo clima culturale non è certamente estraneo neppure l'accordo sul costo del lavoro firmato dalle parti sociali e dal governo italiano nel luglio 1993; un accordo che si apre con un capitolo sulla "politica dei r. e dell'occupazione", e che merita, per la sua rilevanza, alcune osservazioni specifiche. Il ''protocollo'' del luglio 1993 costituisce in effetti un tentativo, ambizioso e complesso, di definire un quadro procedurale e un insieme di regole per un patto di solidarietà, stipulato in una situazione di eccezionalità del contesto economico e politico, e con una distribuzione diseguale del prezzo pagato dalle parti sociali alle ragioni della solidarietà (D'Antona 1993). Gli elementi più rilevanti dell'accordo sotto il profilo della questione qui trattata sono costituiti dall'abolizione del meccanismo di indicizzazione dei salari detto ''scala mobile'' e dall'istituzione di due livelli di contrattazione (uno nazionale di categoria e uno aziendale). In particolare, al primo di questi due livelli è attribuita la duplice funzione di recupero della perdita di potere d'acquisto dei salari nel periodo che precede il rinnovo del contratto (recupero reso necessario dal "prevedibile scarto tra obiettivi di inflazione 'programmata' −condivisa dalle parti in sede di contratto − e inflazione effettiva"), e di redistribuzione degli incrementi generali di produttività (D'Antona 1993, p. 420). Sono infatti previsti contratti economici di durata biennale con rinnovi "coerenti con i tassi di inflazione programmata assunti come obiettivo comune": nel caso di un ritardo (superiore a tre mesi) nel rinnovo del contratto è riconosciuto ai lavoratori, a partire dal quarto mese, un elemento provvisorio di retribuzione pari al 30% del tasso di inflazione programmata (applicato ai minimi contrattuali); una percentuale che passa al 50% se trascorrono inutilmente sei mesi senza che sia intervenuto il rinnovo del contratto. La contrattazione aziendale (con cadenza quadriennale) è invece chiamata a ripartire i margini di produttività dell'impresa mediante speciali schemi di partecipazione, come i programmi di produttività o i premi legati alla redditività aziendale (ibidem).
Al di là della complessa strumentazione posta in essere, la sostanza economica dell'accordo consiste − si può dire − nel fatto che i sindacati hanno sottoscritto un'intesa che accolla ai salari la parte più significativa del ruolo di ammortizzatore del processo inflazionistico, nella fiducia che, in una situazione di grave crisi occupazionale e quindi di debolezza contrattuale, la moderazione salariale potesse avere come contropartita un rapido effetto di espansione dei livelli di produzione e di occupazione, anche con il sostegno di un'adeguata serie di misure di politica economica. La fiducia dei sindacati ha sinora trovato limitato riscontro nei fatti: la sottoscrizione dell'intesa non è stata infatti seguita né da effetti diretti (''automatici'') di espansione dell'occupazione − ciò che sembrerebbe dar ragione alle tesi sostenute da Keynes nel capitolo 19° della General theory- né da un'incisiva e coerente politica di sostegno del livello di attività e dell'occupazione. Sotto questo secondo profilo non si può fare a meno di osservare che la presenza di vincoli di varia natura (tutti, peraltro, ben noti ai sindacati) − in primo luogo il livello dell'indebitamento pubblico e la collocazione dell'Italia nel contesto economico internazionale e comunitario − contribuiscono a spiegare le difficoltà di porre in essere politiche espansive in assenza di riforme ''strutturali'' del sistema economico. L'accordo del luglio 1993, che rappresenta una manifestazione di responsabilità e di attenzione dei sindacati nei confronti della grave situazione economica del paese, e di solidarietà nei confronti dei disoccupati, costituisce comunque una chiara espressione della nuova visione dei rapporti sociali distributivi ed è totalmente estraneo allo spirito informatore della politica dei r. così come definita ''tradizionalmente''. Questa politica, come si è già sottolineato (v. App. IV, iii, p. 169), non rappresenta certamente una formula magica per la soluzione dei problemi delle moderne economie industriali; ma può costituire un utile schema di riferimento per scelte di politica economica tendenti allo ''sviluppo nella stabilità'' in un quadro di riaffermata solidarietà sociale e di attenta distinzione tra il ruolo del mercato e quello dello stato. Due aspetti, quello della solidarietà e del riconoscimento del ruolo insostituibile dello stato, che sono strettamente legati tra loro. Nelle parole di G.U. Papi, un economista ''campione'' di un liberismo ragionevole, "non è il mercato che può affrontare la soddisfazione dei bisogni collettivi... questo compito è... assolto sempre dallo Stato, per il semplice fatto che la valutazione di un bisogno collettivo, insorgente dalla convivenza in un consorzio civile, e il successivo tentativo di soddisfarlo, sfuggono all'apprezzamento e alla possibilità d'agire del singolo" (Papi 1967, p. 1047).
Bibl.: P. Lecaillon, La politique des revenues, Congrès des Economistes de langue française, Parigi 1965; J. Robinson, Ideologie e scienza economica, Firenze 1966; G.U. Papi, Dizionario di economia, Torino 1967, sub voce; J.M. Keynes, The collected writings of John Maynard Keynes, vol. 13, The general theory and after: part I - Preparation, Londra 1973; L. Pasinetti, La teoria di Keynes e i problemi del nostro tempo, in La crisi delle teorie economiche, a cura di G. Caravale, Milano 1983; A. Roncaglia, Le politiche dei redditi, Arezzo 1986; M. Milgate, Controversies in the theory of employment, in Contributions to Political Economy, 7 (1988); S. Dow, Macroeconomic thought, Londra 1989; G. Caravale, Le prospettive per l'occupazione in Europa dopo il 1992, in Rivista di Politica Economica, maggio 1991; Id., Economic theory and policy, in Atlantic Economic Journal, marzo 1992; M. Beaud, G. Dostaler, La pensée économique depuis Keynes, Parigi 1993; M.S. Lawlor, Keynes, Cambridge and the new keynesian economics, in Labour economics: problems in analyzing labor markets, a cura di W. Darity, Filadelfia 1993; S. Nisticò, F. D'Orlando, A.M. Pirro, Alcune questioni per i Nuovi Keynesiani, comunicazione presentata alla 23ª Riunione Annuale della Società Italiana degli Economisti, Napoli, ottobre 1993; Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, La politica dei redditi tra impegni del governo e concertazione con le parti sociali, Roma 1993; M. D'Antona, Il protocollo sul costo del lavoro e 'l'autunno freddo' dell'occupazione, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, parte 1, 1993; L. Pasinetti, Problemi irrisolti di teoria keynesiana, memoria presentata all'Accademia dei Lincei il 14 maggio 1994; R. Klein, Problems with modern economics, in Atlantic Economic Journal, marzo 1994; B. Jossa, Il neoliberismo: teoria e politica economica, Milano 1994.