Redditi, politica dei
È ormai generalmente riconosciuto che nei sistemi economici moderni gli organi pubblici devono affrontare complicate problematiche, l'una innestata nell'altra, le cui soluzioni spesso comportano aspetti di incompatibilità piuttosto delicati, anche in quei sistemi che presentano un buon grado di impostazione e realizzazione delle politiche economiche e sociali.
Le problematiche a cui si fa cenno sono tra l'altro: la necessità di conseguire e mantenere un elevato e stabile livello di occupazione del lavoro potenzialmente disponibile; l'esigenza di sfruttare al massimo grado possibile le opportunità di sviluppo produttivo offerte dalle innovazioni tecnologiche e organizzative; la necessità di evitare che il perseguimento del progresso tecnico acuisca le disparità nella distribuzione dei redditi e delle ricchezze, e l'esigenza, piuttosto, di approfittare dello sviluppo produttivo per perseguire o avviare un processo di redistribuzione; l'opportunità di evitare che la dinamica del sistema produttivo, della distribuzione e della domanda comportino un aumento di prezzi, al di là di certi limiti, e uno squilibrio durevole della bilancia dei pagamenti.
Fino a che punto è ammissibile procurare disoccupazione per perseguire il progresso tecnico? Fino a che punto è opportuno tendere a una distribuzione più equa eventualmente a danno del massimo perseguimento del progresso tecnico, della stabilità monetaria e della piena occupazione? Domande di questo tipo e altre simili sono emerse con chiara evidenza dopo la seconda guerra mondiale. La risposta a esse ha indotto in prima approssimazione la scelta prioritaria di una problematica piuttosto che di un'altra, la destinazione degli sforzi della politica economica in una direzione piuttosto che in un'altra. È apparso però evidente che, ove non fosse possibile sacrificare completamente la soluzione di nessuna di tali problematiche, esse dovevano essere considerate tutte insieme, pur con un peso specifico differenziato a seconda dei sistemi a cui ci si riferiva, e rappresentate in un 'pacchetto' interdipendente di obiettivi a cui necessariamente mirare con sforzi articolati e coordinati, in un sistema integrato di misure di politica economica.
La realizzazione di tale sistema si è tuttavia rivelata, nei paesi industrializzati occidentali, lenta e faticosa: difficile è apparsa la scelta delle priorità tra gli obiettivi e l'identificazione precisa delle interconnessioni tra di essi; non è stata facile la costruzione di schemi logici (talvolta si è parlato di modelli) su cui fondare, alla luce di sistemi di ipotesi di teoria economica (specialmente valorizzando ipotesi keynesiane nell'ambito della teoria dei mercati), il collegamento tra strumenti e obiettivi; ancor meno facile è stato delineare gli strumenti e i metodi migliori, in vista della soluzione dei problemi, e configurare schemi di armonizzazione e di coordinamento, nello spazio e nel tempo, delle misure da intraprendere.
Una delle difficoltà maggiori contro cui hanno urtato i tentativi di realizzazione dei suddetti sistemi di politica economica è consistita nel mettere d'accordo i principali gruppi sociali, componenti la comunità nazionale, sull'ordine degli obiettivi da perseguire, e nel convincerli dell'opportunità di introdurre un 'pacchetto' di misure piuttosto che un altro. I gruppi sociali, tra l'altro, si sono sempre mostrati piuttosto interessati alle modalità di distribuzione della produzione ottenuta; d'altronde, la distribuzione coinvolgeva in modo immediato alcune delle problematiche ricordate, e in modo mediato altre: la distribuzione poteva essere più o meno equa, a parere di certi gruppi, poteva agevolare o ostacolare il perseguimento dello sviluppo produttivo, poteva avvenire in modo che i redditi monetari avessero una dinamica più intensa del reddito reale, così da procurare aumenti di prezzi e squilibrio della bilancia dei pagamenti, e così via.
Nasceva, dunque, un'esigenza urgente, se si voleva, da una parte, offrire delle garanzie pressoché immediate sulle modalità di distribuzione nel lungo periodo della produzione crescente, e, dall'altra parte, evitare che la lentezza del processo di intervento lasciasse insoluti, ed esposti all'occasionalità degli eventi, i problemi di più urgente soluzione, che potevano avere componenti tutt'altro che irrilevanti di carattere sociale e psicologico (anche in termini di fiducia nello sviluppo del sistema produttivo e nella partecipazione di tutti i gruppi sociali ai frutti che ne sarebbero derivati).
Tale duplice esigenza conduceva gradualmente a coniare e accettare una nuova espressione: politica dei redditi. Dopo quasi un decennio di esperienze al riguardo nei Paesi Scandinavi, l'attenzione ha finito però per concentrarsi, sotto l'influenza del pensiero di economisti keynesiani che hanno discusso i risultati della cosiddetta curva di Phillips, sui problemi di compatibilità tra obiettivi di piena occupazione e controllo delle tensioni inflazionistiche. È in questa luce che emerge la definizione offerta nel 1962 dall'OCSE: "Politica dei redditi significa che i pubblici poteri devono avere un'opinione sulle condizioni in cui l'evoluzione dei redditi può essere compatibile con i dati obiettivi economici e soprattutto con la stabilità dei prezzi; essa significa inoltre che i pubblici poteri devono sforzarsi di ottenere l'accordo dell'opinione pubblica sui principî che devono guidare l'aumento dei redditi; essa significa infine che i pubblici poteri devono indurre la popolazione a rispettare volontariamente tali principî" (v. OCSE, 1962, p. 23).
Una simile definizione rifletteva la preoccupazione, emersa chiaramente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, che il perseguimento di politiche della piena occupazione favorisse la presenza incontrollata di tensioni inflazionistiche sui mercati del lavoro e dei beni e pregiudicasse lo sviluppo produttivo nel tempo, tramite riflessi negativi durevoli sulla bilancia dei pagamenti e le inevitabili politiche macroeconomiche di stabilizzazione conseguenti. Si voleva, quindi, controllare le tensioni inflazionistiche, ma nello stesso tempo si era consapevoli che occorreva l'adesione volontaria dei gruppi sociali, per ottenere un controllo efficace, e che il controllo sulla distribuzione si ripercuoteva in modo importante al di là degli aspetti di stabilità.
Comunque, l'accento posto sulla stabilità (ragionevole) dei prezzi e della bilancia dei pagamenti caratterizzava la politica dei redditi, proposta soprattutto dagli economisti keynesiani, essenzialmente come una politica di breve periodo. L'Olanda e i Paesi Scandinavi tuttavia, essendo meno afflitti da problemi di squilibrio della bilancia dei pagamenti (va tenuto presente che la sterlina e il dollaro erano allora al centro del sistema monetario e finanziario internazionale), hanno cercato di delineare politiche dei redditi di lungo periodo."La politica dei redditi - sosteneva un economista norvegese (v. Skånland, 1964, p. 309) - può essere affrontata da due punti di vista diversi. Il primo consiste nel tentativo di influenzare gli sviluppi dei redditi in termini nominali, in modo tale che essi non danneggino una stabilità ragionevole del livello generale dei prezzi. Questo è stato talvolta denominato il punto di vista del pompiere. L'altro punto di vista è basato sul desiderio di migliorare i livelli di vita di individui appartenenti ai gruppi sociali in posizione più sfavorevole e di influenzare la distribuzione del reddito in generale. Questo è il punto di vista dell'architetto, in base al quale si ricorre a misure quali l'imposizione progressiva e la concessione di prestazioni attraverso il sistema della sicurezza sociale".
La politica dei redditi di breve periodo presupponeva il mantenimento delle quote della produzione spettanti ai diversi gruppi sociali a un livello di partecipazione globalmente costante, supposta immutata l'occupazione. Ciò significa che, aumentando il reddito reale, l'andamento dei redditi distribuiti in termini nominali non avrebbe dovuto far sì che si alterasse la macrodistribuzione del reddito. Si è però riconosciuto che, se il controllo è esercitato solo nei confronti di una certa categoria dei redditi (ad esempio i salari, come nelle prime esperienze infelici di pausa salariale in Gran Bretagna), ciò avrebbe potuto in definitiva risolversi in un'alterazione della distribuzione globale, a favore dei percettori dei redditi che sfuggono al controllo. Per cui, è stato sottolineato che non si poteva accettare una politica dei redditi in senso stretto, che in sostanza non sarebbe stata altro che una politica salariale sui generis, bensì era necessaria una politica dei redditi in senso ampio, che mirasse a disciplinare la dinamica di tutte le categorie di redditi in termini nominali: salari, profitti, rendite, ecc.
La politica dei redditi di lungo periodo presupponeva che la distribuzione del reddito, per quote globali (e anche ipotizzando una possibile temporanea diminuzione dell'occupazione), variasse a favore di certi gruppi sociali e a danno di altri, approfittando dell'espansione del sistema produttivo e cercando di rispettare l'insieme di obiettivi proposti al sistema di politiche economiche e sociali.Si può rilevare che, a prescindere che si tratti di politica di breve o di lungo periodo, la politica dei redditi prospettata avrebbe mirato a disciplinare l'evoluzione delle quote di distribuzione in termini nominali in vista di certi obiettivi. L'adozione di una politica dei redditi di breve periodo avrebbe significato scegliere la stabilità del sistema (in termini di andamento dei prezzi e di equilibrio nel tempo della bilancia dei pagamenti) come obiettivo prioritario, almeno temporaneamente, rispetto agli altri. L'adozione, invece, di una politica dei redditi di lungo periodo avrebbe significato attribuire una posizione prioritaria agli obiettivi di equidistribuzione tra gruppi sociali e gruppi di percettori di reddito.
In buona parte dei paesi usciti dalla seconda guerra mondiale, gli obiettivi di stabilità e di carattere distributivo sono stati dapprima perseguiti (insieme) attraverso controlli di tipo amministrativo sui salari, sui prezzi e sui fitti. Allontanandosi dalla guerra, nel corso degli anni cinquanta i controlli diretti su salari e prezzi sono stati abbandonati in quasi tutti i paesi, a parte modalità di indicizzazione dei salari, intese a garantire il potere d'acquisto dei lavoratori in presenza di tensioni inflazionistiche, e controlli su specifici prezzi ritenuti molto importanti dal punto di vista dell'equità. Dalla prima metà degli anni cinquanta in poi, le politiche dei redditi appaiono condizionate, in ogni specifico paese, da: "l'esistenza o meno di un efficiente apparato burocratico che (come in Olanda) condiziona la realizzabilità e l'efficacia di vincoli amministrativi; il ruolo dei lavoratori nel sistema sociopolitico che (come in Svezia) condiziona il segno redistributivo delle politiche dei redditi, le possibilità di interventi istituzionali, la natura di un eventuale 'scambio politico' o comunque la corresponsabilizzazione del sindacato nelle politiche di controllo dell'inflazione" (v. Roncaglia, 1986, p. 81); in definitiva le politiche dei redditi dipenderebbero dal contesto politico, sociale ed economico del singolo paese.Tuttavia, negli anni sessanta, dopo un famoso rapporto di 'sei saggi' sull'inflazione (v. OCSE, 1961), si è cercato di ipotizzare politiche dei redditi di periodo breve generalizzabili (come le politiche monetarie e le politiche fiscali) a vari paesi industrializzati occidentali. Si è cercato inizialmente di introdurre una guiding light, riferita essenzialmente alle variazioni della produttività del sistema, a cui ricondurre le variazioni dei salari. Le corrispondenti esperienze di politica dei redditi in senso stretto hanno però ben presto mostrato il loro fallimento, poiché si sono rivelate incapaci di assicurare la stabilità del sistema, in termini di prezzi e di equilibrio della bilancia dei pagamenti, e hanno avuto ripercussioni di carattere involutivo sulla distribuzione tra i gruppi sociali. Tipica al riguardo risulta l'esperienza britannica, in cui si è passati rapidamente dalla politica della guiding light alla politica dei prezzi e dei redditi (v. Prices and incomes policies, 1965), senza però riuscire a migliorare la capacità di controllo sui prezzi e, di riflesso, su tutti i redditi.
Il fallimento dell'esperienza britannica ha avuto un'influenza notevole nel determinare un diffuso senso di sfiducia nei confronti delle politiche dei redditi che non facessero riferimento (in una prospettiva sostanzialmente di lungo periodo) al sistema fiscale e/o al coinvolgimento politico/economico (come nei Paesi Scandinavi e successivamente in Austria) delle forze sociali, con particolare riguardo ai lavoratori organizzati.
Nel corso degli anni settanta si poteva constatare una netta divisione fra tre gruppi di paesi (pur nella differenziazione dovuta alle caratteristiche istituzionali specifiche di ciascun paese): un primo gruppo di paesi (tra cui dal 1968 si può anche annoverare l'Olanda) che mostravano un sostanziale rifiuto delle politiche dei redditi, considerate 'dirigistiche' e di ostacolo per la stessa contrattazione collettiva; un secondo gruppo di paesi che non volevano sentire parlare di politica dei redditi (come l'Italia, la Francia e la Germania) ma che sperimentavano forme di cooperazione tra forze sociali e Stato (ad esempio, l'accordo italiano sulla scala mobile del 1975 o più in generale la Konzertierte Aktion perseguita in Germania dal 1967 al 1978); un terzo gruppo di paesi (come i Paesi Scandinavi e l'Austria) che continuavano a considerare i problemi di distribuzione dei redditi nell'ambito delle problematiche di stabilità e sviluppo che le forze sociali dovevano affrontare cooperando in vario modo con gli organi pubblici.Gli anni ottanta si aprono con una forte tensione a rimuovere una serie di vincoli in materia di lavoro e di distribuzione dei redditi, a partire dal primo gruppo di paesi ma con il progressivo coinvolgimento della Germania e di altri paesi, in linea con un generale 'ritorno' alla fiducia nel funzionamento dei meccanismi di mercato. Il richiamo alle politiche dei redditi rimane sostanzialmente circoscritto al terzo gruppo di paesi; non mancano però singole esperienze (come quella italiana degli accordi tripartiti 1983/1984) in cui si è cercato di tenere conto dell'esigenza di cooperazione (o di vero e proprio 'scambio politico': v. Tarantelli, 1986) in materia di distribuzione dei redditi, soprattutto per gli obiettivi di controllo dell'inflazione, tra forze sociali e organi pubblici; inoltre, a livello di Comunità Economica Europea emergeva una crescente sollecitazione (soprattutto verso la fine del decennio sotto l'impulso della Commissione guidata da Jacques Delors) a muoversi in direzioni di 'dialogo sociale', se non proprio di strategie 'tripartite', che favorissero la crescita del prodotto e dell'occupazione, unitamente alla stabilità dei prezzi e a una più equa distribuzione dei redditi all'interno della Comunità.Recentemente, a parere di qualcuno (v. Dore e altri, 1994), sembra che si siano aperte nuove prospettive per le politiche dei redditi. A ciò può avere in parte contribuito l'evoluzione intervenuta nelle argomentazioni al riguardo espresse dagli economisti.
Le motivazioni di ordine teorico che hanno spinto, nel tendere a una distribuzione più equa come primo obiettivo di politica economica, a interessarsi dell'evoluzione delle remunerazioni nominali ai fattori produttivi, rispondevano a una logica socialdemocratica tradizionale, che trovava agganci diretti persino nel pensiero fabiano della fine del secolo scorso. Già allora si era intuito che lo sviluppo del sistema produttivo richiedeva, per certe sue incongruenze, un'attiva opera di redistribuzione a favore dei soggetti più deboli. Più recentemente, si è riusciti a mettere in luce che le incongruenze del sistema sono riconducibili all'imperfezione dei meccanismi di mercato (per cui mancherebbe quel contributo positivo generale al benessere di tutti attraverso riduzioni su larga scala dei prezzi dei beni), alla stessa esasperazione della lotta tra gruppi sociali per la partecipazione al prodotto globale in espansione e all'incertezza degli organi della politica economica e dei gruppi organizzati di fronte alla necessità di contemperamento di esigenze diverse.La novità della politica dei redditi di lungo periodo proposta negli anni sessanta, rispetto alle vecchie politiche di redistribuzione, consisteva nel non accontentarsi della correzione degli effetti distributivi negativi ex post, ma nel tentativo di operare ex ante e in modo armonico: a) cercando per quanto possibile di attivare i meccanismi di mercato o meccanismi succedanei (ad esempio, attraverso lo strumento dell'impresa pubblica, le cui strategie di prezzo avrebbero dovuto tenere conto di obiettivi di equità e non soltanto di efficienza); b) inserendo accuratamente l'obiettivo dell'equidistribuzione (pur in posizione prioritaria) e gli strumenti per perseguirlo nel 'pacchetto' coordinato di obiettivi e di strumenti, per cui la redistribuzione sarebbe apparsa come un prezzo da pagare per meglio mirare gradualmente, con la partecipazione attiva di tutti i gruppi sociali, a conseguire tutto l'insieme di obiettivi, di breve e lungo periodo.Gli economisti che hanno cercato di valorizzare il pensiero keynesiano anche nell'ambito di schemi dinamici del tipo di quelli di R. Harrod e N. Kaldor, già nel corso degli anni sessanta hanno soprattutto fissato l'attenzione sulla politica dei redditi di breve periodo, in una prospettiva in cui la lotta contro l'inflazione era vista anche come via per contenere gli effetti iniqui di essa sulla distribuzione dei redditi e delle ricchezze.
Le motivazioni di ordine teorico che hanno sollecitato a prendere in considerazione politiche dei redditi in senso stretto (ovvero politiche salariali) richiamavano le ipotesi che legano i prezzi dei prodotti all'andamento dei salari (o meglio, tenuto conto dell'andamento della produttività, al costo del lavoro per unità di prodotto), nonché le ipotesi che fanno dipendere l'occupazione dall'andamento dei salari, o direttamente per l'incidenza del costo del lavoro sulle decisioni di impresa in merito all'impiego di lavoro, o indirettamente per gli effetti della distribuzione del reddito tra salari e profitti sulle decisioni di impresa in merito agli investimenti e alle innovazioni tecnologiche o organizzative (v. Sylos Labini, 1972, specialmente pp. 118 ss.).
Le obiezioni di molti economisti, soprattutto a partire dagli anni settanta, contro le politiche dei redditi in senso stretto erano fondate, da un lato, su argomentazioni che riproponevano il ruolo centrale dei meccanismi di mercato nell'assicurare i migliori risultati dal punto di vista dell'equità distributiva (argomentazioni portate specialmente dagli economisti monetaristi, della nuova macroeconomia classica e, negli anni ottanta, dagli economisti della supply side economics); dall'altro lato, erano fondate su argomentazioni che mettevano in dubbio (in base a particolari ipotesi di teoria dell'inflazione e di teoria dell'occupazione) la dipendenza dei prezzi e dell'occupazione soprattutto dai salari.
D'altronde, come si è avuto modo di accennare a proposito delle esperienze fatte, le politiche dei redditi in senso stretto hanno incontrato la decisa opposizione dei lavoratori organizzati e delle forze politiche e sociali che hanno tenuto conto dell'inevitabile collegamento nel tempo tra gli aspetti di breve periodo e le problematiche (di equità) di lungo periodo.Ora, le motivazioni di ordine teorico che hanno spinto a considerare l'andamento di tutti i redditi monetari, sempre in un'ottica di politiche di breve periodo, cioè in vista della stabilità dei prezzi e dell'equilibrio della bilancia dei pagamenti, sarebbero riconducibili all'accettazione di un complesso interdipendente di obiettivi del tipo di quelli ricordati più sopra, ad alcune trasformazioni di fondo negli schemi teorici tesi a 'spiegare' i complessi rapporti tra produzione, distribuzione e domanda nei diversi sistemi economici, e all'importanza attribuita al ruolo dei fattori strutturali e istituzionali nel determinare i problemi di stabilità e sviluppo, oltreché la distribuzione dei redditi.In primo luogo, l'abbandono del presupposto che vi sia concorrenza pura e perfetta su tutti i mercati del sistema e il mantenimento del presupposto che le forme di mercato non competitive siano (almeno nel breve periodo) più normali che anormali, hanno condotto a individuare meccanismi diversi da quelli dei prezzi a cui legare la distribuzione del prodotto crescente tra i titolari dei fattori produttivi.
In secondo luogo, è stato messo in luce che un'analisi dinamica non può ignorare che il progresso tecnico domina l'evoluzione produttiva dei sistemi economici moderni. Il dominio del progresso tecnico si esprimerebbe tra l'altro, con peso differenziato a seconda dei differenti settori e delle diverse unità produttive, in connessione alla natura del prodotto, alla possibilità di configurare o meno certi schemi organizzativi, alla capacità per la produzione di condizionare più o meno direttamente la domanda, di modo che siano in definitiva le imprese a regolare il mercato e non viceversa, ecc. Il prevalere del progresso tecnico e il suo articolarsi settoriale o per unità produttive hanno condotto a rivedere profondamente talune costruzioni teoriche comunemente accettate, che tendono a spiegare i rapporti tra produzione, distribuzione e domanda sulla base di processi di sviluppo dominati dall'aumento della popolazione e dell'accumulazione del capitale, e a tendere verso costruzioni teoriche in cui il progresso tecnico gioca un ruolo importante e in cui l'analisi è effettuata tenendo conto della diversa dinamica dei vari settori, pur interdipendenti e integrati (v. Pasinetti, 1977).
L'accettazione di premesse di tipo strutturale per quanto concerne la dinamica dei sistemi produttivi ha avuto, in terzo luogo, profonde ripercussioni in termini di teoria dell'inflazione che può essere accolta nelle suddette costruzioni analitiche. Dato che le politiche dei redditi di breve periodo dovrebbero mirare ad assicurare una ragionevole stabilità dei prezzi, lo schema concettuale che viene seguito per quanto riguarda i fattori causali dell'aumento dei prezzi assume un'importanza notevole. La configurazione di costruzioni teoriche in cui il progresso tecnico è considerato dominante e operante in modo differenziato, così da influire sulla struttura del sistema produttivo, induce a rifuggire da una teoria dell'inflazione che consideri esclusivamente le pressioni dal lato della domanda o la spinta proveniente dagli aumenti salariali come causa dell'inflazione. L'unica teoria dell'inflazione accettabile diviene allora quella di tipo eclettico, la quale ammette che l'aumento dei prezzi risulti da un insieme composito di cause: dai rapporti tra domanda e offerta sui mercati caratterizzati ancora da un sufficiente grado di competitività, alle tensioni salariali in certi settori, all'andamento di talune componenti di costo (di produzione e di distribuzione) per altri settori.In quarto luogo, gli sviluppi recenti delle analisi sugli effetti sociali di strategie dirette a contenere/ridurre i differenziali di inflazione tra paesi diversi, ad esempio nel quadro del rispetto dei criteri di convergenza monetaria e reale nell'ambito dell'Unione Europea, hanno fatto emergere l'esigenza di strategie idonee a perseguire obiettivi di coesione economica e sociale, anche attraverso politiche di regolazione dell'andamento di tutti i redditi monetari strettamente coordinate, oltreché con le politiche monetarie e fiscali, con politiche strutturali dell'occupazione e del lavoro.Infine, il peso dell'azione dei gruppi organizzati nell'accettazione del suddetto complesso di obiettivi ha reso necessario tenere conto di fattori di carattere extra-economico interferenti nelle relazioni tra le varie grandezze economiche. In particolare, al di là dell'eccessivo ottimismo sugli effetti equilibranti e di sviluppo/equità dei meccanismi di mercato e al di là del ruolo centrale degli organi pubblici nel perseguimento dell'insieme degli obiettivi economico-sociali, è emersa l'esigenza di considerare attentamente il ruolo che può essere svolto da istituzioni intermedie tra organi pubblici e individui.In questa luce si è sostenuto che vi sarebbero nuove prospettive per le politiche dei redditi.
Le prospettive delle politiche dei redditi dipenderebbero dalla emergente necessità di superare la dicotomia tra Stato e mercato, nonché dalle trasformazioni in atto nei rapporti tra istituzioni che hanno un ruolo attivo sui mercati del lavoro.Il superamento di tale dicotomia dal lato degli organi pubblici è gradualmente imposto dall'incapacità di questi organi di far fronte, con le sempre più scarse (relativamente alle crescenti esigenze) risorse fiscali in senso lato e in presenza di un drastico ridimensionamento del ruolo delle imprese pubbliche, ai compiti tradizionalmente svolti nell'ambito dell'insieme di obiettivi menzionato più volte nonché dal crescente orientamento al mercato (persino nei Paesi Scandinavi e in Austria) sollecitato tra l'altro dai processi di internazionalizzazione/globalizzazione degli scambi di prodotti, capitali, lavoro. Inoltre, il superamento è stato imposto pure, dal lato del mercato, dall'incapacità dei relativi meccanismi, non solo di sostituire gli organi pubblici nell'assicurare il perseguimento degli obiettivi di stabilità e di sviluppo, ma anche di evitare che gli squilibri distributivi aumentassero proprio per effetto del loro funzionamento imperfetto. Ciò ha comportato, da una parte, un'affermazione progressiva di iniziative (in parte orientate al mercato e in parte no) rientranti nel cosiddetto 'terzo settore' del sistema economico-sociale, dall'altra parte a ripensare il ruolo, nel perseguimento di obiettivi di interesse generale, delle istituzioni che tradizionalmente si sono trovate contrapposte nella contrattazione collettiva.
Quindi, i rapporti tra queste appaiono in progressiva trasformazione, sotto la pressione dell'orientamento al mercato che tenderebbe a ridimensionare il ruolo tradizionale di istituzioni come i sindacati dei lavoratori o le associazioni di imprenditori e a esaltare i rapporti anche di tipo cooperativo a livello di impresa o comunque a livello di mercato del lavoro 'interno' (v. Niland e altri, 1994; v. Kerr e Staudohar, 1994; v. Locke e altri, 1995); tali rapporti appaiono altresì in trasformazione nel senso che le suddette istituzioni tenderebbero a divenire sempre più interlocutori degli organi pubblici nel perseguimento, anche attraverso lo scambio politico, di obiettivi di interesse generale che toccano le condizioni di vita di tutti (v. Hyman e Ferner, 1994).
Ecco allora emergere interessanti prospettive di rilancio di strategie, da parte delle istituzioni private e pubbliche, la cui azione può influire sulle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori (dipendenti e indipendenti) e dei loro familiari, che possono rientrare nel concetto di politica dei redditi in senso lato, di breve e di lungo periodo. Tali prospettive (di sostanziale cooperazione sociale) possono però incontrare limiti molto importanti nell'eventuale incapacità delle istituzioni private in quanto tali di surrogare in parte gli organi pubblici nel perseguimento degli obiettivi occupazionali, accanto a quelli della stabilità monetaria, e nell'incapacità degli organi pubblici di assicurare (con strumenti fiscali e simili) un controllo effettivo sulla dinamica di tutti i redditi onde garantire una maggiore (e soprattutto evitare una minore) equità distributiva. Gli esempi di Svezia e Austria, che stanno sperimentando livelli non usuali di disoccupazione difficilmente riducibili attraverso politiche dei redditi, nonché l'esempio italiano dell'incapacità dell'Accordo tripartito del luglio 1993 di sfociare (almeno fino a tutto il 1995) in positivi risultati occupazionali e in una più equa distribuzione dei redditi, suggerirebbero che le nuove prospettive delle politiche dei redditi sono legate alla capacità delle tre parti sociali, organizzativamente articolate in base ai vari aspetti delle strutture economiche e sociali, di contribuire alla realizzazione di un 'pacchetto' sistematico di strategie strutturali, di cui tali politiche non possono essere che una parte di per sé non decisiva. (V. anche Distribuzione della ricchezza e del reddito; Politica economica e finanziaria; Prezzi; Profitto; Salari e stipendi; Sindacato).
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