Politica e ‘alta politica’: Croce e la Germania
Risulta ben presto evidente, tra il 1914 e il 1918, come il conflitto mondiale costituisca «un fenomeno nuovo nella storia dell’umanità», presentandosi come «opera immensa», come «sforzo titanico» collettivo che richiede, nei diversi Paesi, l’impiego di «tutte le energie della razza» e il coinvolgimento dell’intera società. Ancora nel secondo Ottocento, in realtà, «le guerre erano state combattute dagli eserciti regolari, sotto la guida di pochi uomini esperti dell’arte»; popoli e nazioni erano sempre rimasti «sul margine della guerra, attendendone l’esito». La mobilitazione sistematica delle masse («La nazione armata, o, meglio, il proletariato armato, fu il paradosso dell’anno 1914», Malaparte 1961, p. 33) è un evento straordinario, una novità assoluta. In confronto ai conflitti in precedenza condotti da eserciti professionali, la vicenda bellica, in cui le distinzioni tra fronte e retrovie, tra civili e militari, finiscono per diventare irrilevanti, si manifesta come un processo costituito da «fenomeni imprevisti, che accelerano bruscamente il processo di trasformazione» dell’intero ordinamento sociale e riescono d’un tratto a «scardinare tradizioni e forme popolari di vita» (Malaparte 1961, p. 20).
Risultano sorprendenti, per l’ampiezza e la profondità degli interventi, anche gli sforzi profusi, prima e durante la guerra, per orientare l’opinione pubblica, per mobilitare in maniera programmata la cultura, cercando di inquadrare, con le loro prese di posizione, docenti universitari, letterati e filosofi. In Germania, sul piano dell’impegno militante degli intellettuali, si distingue, tra gli altri, il chimico Wilhelm Ostwald (1853-1932), menzionato da Croce al momento in cui mette sotto accusa, nel 1915, lo scomposto ‘agitarsi’ e le teatrali invettive, «i dilettantismi e gl’infantilismi degli specialisti» (Pagine sulla guerra, 1919, p. 42). Lo scienziato, che presiede tra il 1911 e il 1915 la Lega dei monisti tedeschi, associazione fondata nel 1906 da Ernst Heinrich Haeckel, figura tra i più autorevoli promotori del Manifesto dei Novantatré, l’appello (Aufruf an die Kulturwelt) con cui insigni uomini di cultura, tra cui Wilhelm Windelband e Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Wilhelm Wundt e Karl Vossler, intendevano rispondere alle menzogne della propaganda anglosassone, alle sue denunce del militarismo tedesco e della spietata aggressività dei ‘nuovi unni’ e dei ‘barbari’ invasori.
Acquista un certo rilievo, negli stessi mesi, la pubblicazione di un volume, Deutsche Abende im Zentralinstitut für Erziehung und Unterricht (1916), che raccoglie una serie di conferenze, tenute nella capitale in forma solenne, in cui filosofi, pedagogisti e linguisti come Konrad Burdach (1859-1936), Karl Joël (1864-1934) ed Eduard Franz Ernst Spranger (1882-1963) espongono il punto di vista tedesco che orienta le indagini scientifiche nelle diverse discipline accademiche. In uno di questi pubblici discorsi, Burdach si presenta quale interprete della «nuova generazione, che richiede un distacco dal concetto rinascimentale di cultura, dal falso […] ideale di umanità», finendo per riproporre, sia pur confusamente, una renovatio nazionale collegata a istanze religiose di matrice medioevale (K. Burdach, Deutsche Renaissance, in Deutsche Abende, cit., pp. 9-12). Spranger, in un’altra conferenza, proclama la necessità di lasciar cadere un ideale educativo ottocentesco, basato sul pieno «compimento estetico dell’uomo», e di definire un nuovo programma di «educazione nazionale e politica» (E.F.E. Spranger, Das humanistische und das politische Erziehungsideal, in Deutsche Abende, cit., pp. 6 e 31).
Nel medesimo periodo, viene stampata un’edizione speciale del ‘codice sacro’ del pangermanesimo (H.S. Chamberlain, Die Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts, 1899, 191511), ormai diffuso in oltre centomila copie. In questo scritto, che sarà tenuto presente in diverse occasioni da Croce al momento di «criticare […] latinità, germanesimo e altrettali pregiudizi» (Pagine sulla guerra, cit., p. 75), è rivendicata l’origine germanica (Ex septentrione Lux!) di «tutta quanta la cultura e l’incivilimento odierno»; si esalta, allo stesso tempo, la natura «nordica» dei protagonisti del Rinascimento italiano, discendenti dalle «orgogliose e impetuose stirpi, oltremodo geniali, di vigorosi germani, i quali avevano mantenuto puro, fino al quattordicesimo secolo, il loro sangue» sul suolo italico (H.S. Chamberlain, Die Grundlagen, cit., pp. 8, 341 e 371).
Tuttavia, in Germania, le prese di posizione degli intellettuali interventisti non si risolvono soltanto nell’aperta propaganda dei docenti universitari o nel biologismo di Chamberlain, quest’ultimo definito da Croce «un cervello debole, un dilettante della peggiore specie» (Pagine sulla guerra, cit., p. 99). Anche sul più rarefatto piano della storia delle idee, i richiami alla guerra in corso restano, in effetti, ben visibili. Wilhelm Wundt, nel 1915, scrive una concisa presentazione della filosofia moderna, mettendo in primo piano, nel processo formativo della nuova ‘concezione del mondo’, una costellazione «teutonica» formata da Niccolò da Cusa, Niccolò Copernico e Teofrasto Paracelso. E la sua analisi culmina in un’appassionata difesa della figura di Zarathustra, simbolo dell’intransigente rifiuto dell’utilitarismo inglese: il superuomo, che respinge il «volgare eudemonismo», diventa il fatale punto nevralgico in cui convergono le dottrine morali di Immanuel Kant e di Arthur Schopenhauer e l’«etica del dovere» propria dell’idealismo tedesco (W. Wundt, Die Nationen und ihre Philosophie, 1915, pp. 9-14, 117-22).
Ernst Troeltsch (1865-1923), dal canto suo, in uno scritto del 1916 difende «l’idea tedesca di libertà», la quale scaturisce, imponendosi come una sorta di «mistica di Stato», da una secolarizzazione del «sentimento religioso del dovere» (E. Troeltsch, Die deutsche Idee von der Freiheit, in Deutscher Geist und Westeuropa, 1925, pp. 34-36).
Sarà solo Georg Simmel (1858-1918) a deplorare pubblicamente, nel 1917, il «parossismo» febbrile della guerra, che rende i popoli ebbri e invasati, contagiati ancora una volta dal ‘morbo’ del «flagellantismo medioevale» ed esultanti di fronte alla «distruzione suicida […] dei valori europei» (G. Simmel, Der Krieg und die geistigen Entscheidungen, in Gesamtausgabe, 16° vol., 1999, pp. 54-55). La sua presa di posizione, mantenuta sul piano dell’appello ai valori e del cordoglio per la dispersione dell’«Europa ‘ideale’», sembra tuttavia a Croce assai debole, lasciando scorgere «un ingegno elegante, ma di poca forza filosofica», estraneo alla «concezione storica del filosofare» e impegnato a giocare con i suoi teoremi morali «come con un fioretto in sala di scherma» (Pagine sulla guerra, cit., pp. 182-83).
Nel periodo bellico si rafforza, per Croce, la necessità di ribadire la distinzione tra universale e particolare, tra comune e condiviso patrimonio ideale della civiltà e sfera degli affetti e delle esigenze contingenti. Nello scontro, tra nazioni e popoli, che dilania l’intero continente, si agitano e si contrappongono, in definitiva, «non […] quesiti razionali, ma […] urti tra passioni, non […] soluzioni logiche, ma […] asserzioni d’interessi». Cercare di «preparar[si] agli eventi senza ubbriacature e senza impazienze» (Pagine sulla guerra, cit., p. 12), significa riconoscere l’assoluto valore di un ampio territorio ideale, al tempo stesso storico, nel suo farsi, e sovrastorico, nei suoi esiti, in cui il gioco degli attriti e delle opposizioni si risolve immancabilmente – lungi dall’imporre un drastico aut aut – in stimolo reciproco e mutuo scambio: «la scienza, che non è la moralità, rinvigor[isce] la moralità, e la moralità, che non è la scienza, promuov[e] la scienza», mentre entro il campo dei «valori empirici», i diversi ‘partiti’ belligeranti mirano, all’opposto, all’eliminazione di qualsiasi pluralismo e «lottano l’uno distruggendo l’altro e soppiantandolo» (p. 32).
Dovendo imparare a non confondere «valori umani» universali – e quindi tutto ciò che promuove «la scienza, l’arte, la moralità» – e «valori empirici» (p. 31), conquiste spirituali da assicurare all’eternità e furori ideologici da scaricare e sostenere nel presente, l’intellettuale si ritrova in una condizione assai incerta. Il suo compito, per un verso, sarà quello di far propria un’intransigente professione di agnosticismo, non dimenticando mai che contrastanti «passioni», fedi e ‘borie’ nazionalistiche sono egualmente legittime e illegittime, vere e false, e «tutte sono degne di essere difese e degne di perire» (p. 33).
Per un altro verso, tuttavia, anche all’intellettuale è richiesto di restar ben saldo, senza incertezze o cedimenti, nella propria particolare trincea, mostrandosi pienamente consapevole che proprio dall’urto degli affetti e dei «valori empirici», quasi ‘scorie’ e ‘scarti’ utilizzati in un immane processo di combustione, trae vigore la dialettica delle supreme forme spirituali:
La difesa delle istituzioni a cui sentiamo di appartenere è il dovere prossimo […]. E il complesso dei valori di cultura, che si simboleggiano col nome di Giustizia o di Umanità, non si attua […] se non attraverso quelle gagliarde difese e offese, perché i doveri generali non si attuano se non con lo scendere da quell’astrattezza, che ha il nome di cielo, sulla terra, nello spazio e nel tempo […]. Noi siamo, nella vita, come guarnigioni e sentinelle poste qua e là dallo Spirito del mondo: al quale mal serviremmo abbandonando i posti che ci ha affidati, per rendergli un omaggio astratto e inerte, a lui non gradito (Pagine sulla guerra, cit., p. 34).
Le guerre, e quindi l’erompere delle «passioni dei popoli» e del loro «profondo istinto» (p. 59), favoriscono e sorreggono, in ultima istanza, il progredire del «genere umano»; solo grazie a violenti sommovimenti tellurici e a «gigantesche scosse» (p. 51), può intensificarsi, in termini hegeliani, quell’«oscuro lavoro» che spiana comunque «le vie dell’avvenire» e arricchisce il patrimonio ideale dell’umanità (p. 59).
Non è concesso, in certa misura, ignorare o contrastare pulsioni, egoismi e «istinti» del proprio schieramento. E ciò nonostante non si dovrà dimenticare che l’insieme dei nostri sforzi rientra, per l’appunto, in un «oscuro lavoro», i cui significati ultimi restano nascosti, e non esprime affatto, nella sua immediatezza, ideali o valori universali; se anche «gli untuosi democratici […] affermano che a noi spetta far la guerra per esercitare la giustizia nella contesa dei popoli», bisogna pur riconoscere che «la giustizia non la esercita mai un popolo sull’altro, ma sopra tutti i popoli Dio, o quel Dio che è la storia» (p. 85).
L’hegelismo di Croce viene così assumendo, nelle pagine di questi anni, un tono di austero disincanto. È richiesta sobrietà e misura nel recitare la propria parte, sapendo che non è dato scalfire «il mistero religioso della storia, […] il segreto della Provvidenza» (p. 238). Le catastrofi e i drammatici rivolgimenti dei processi storici favoriscono il dispiegamento di finalità che a lungo, travalicando aspettative, richieste e certezze degli attori impegnati sulla scena, resteranno misteriose e incomprensibili: «Religioso è il processo del mondo, e con religione deve essere accolto e seguito» (p. 270).
Per Croce, la «trama della storia» è un ordito assai complesso: individui, classi e popoli restano attaccati al loro «lavoro particolare», promuovendo gli «affari del mondo» solo indirettamente, dopo essersi incontrati e scontrati con altre innumerevoli volontà determinate (Filosofia della pratica, 1909, 19233, p. 165).
Intorno al 1915, Croce nota quanto sia arduo mantenere un abito di sobrietà e di neutralità intellettuale di fronte all’inarrestabile fiumana dei manifesti e dei proclami roboanti, delle manifestazioni «di facile critica e di facilissimi sogni» (Pagine sulla guerra, cit., p. 257). In Francia, osserva il filosofo con amara ironia, Henri-Louis Bergson ritrova il fulcro della sua filosofia – il contrasto tra «meccanicità» e «slancio vitale» – negli scontri in trincea tra soldati tedeschi e soldati francesi. E in Italia dilaga, sulle pagine culturali dei giornali, la «storia letteraria alla Ferrero», piena di invettive contro la glorificazione della tecnica, del calcolo e della razionalità economica, che domina incontrastata nelle società nordiche.
In molti contributi pubblicati su quotidiani e riviste, e poi ripresi nel libro La vecchia Europa e la nuova, Guglielmo Ferrero (1871-1942) esalta il «genio latino», risoluto nel «preferire la perfezione alla potenza», destinato a farsi l’antagonista naturale dello «spirito germanico», sempre incline «all’esaltazione, al fanatismo ed agli eccessi di follia collettiva». Il «germanesimo», da questo punto di vista, trova compiuta realizzazione nella «civiltà quantitativa, […] schiava della materia e del numero», risultato di un’«immensa scuola di menzogna» e di una sconfinata volontà di potenza; i popoli mediterranei, al contrario, salvaguardano la tradizione classica e difendono tutto ciò che rappresenta «ordine, armonia, giustizia, bellezza e misura». L’aggressività germanica, per Ferrero, è peraltro l’esito spontaneo delle trasformazioni sociali avvenute alla fine del 19° sec., al momento in cui sono all’improvviso comparsi «due ciclopi, l’industrialismo e la coscrizione: giganti fortissimi, ma rozzi, monocoli, semiselvaggi, e facilmente dominati da violente passioni» (La vecchia Europa e la nuova, 1918, pp. 277 e 307).
Senz’altro Croce tiene presente Ferrero quando ribatte con decisione a quanti guardano con sprezzo alla cultura tedesca:
Conoscere il tedesco, e mercé la lettura […] dei libri tedeschi, tenersi a paro del moto della scienza, è stato il mezzo per “disprovincializzare” la scienza italiana, e ammodernarla […]. Vedo tra coloro che oggi gridano contro la pedanteria “germanica” e lodano la genialità “latina”, troppi visi a me noti della plebe e del demimonde scientifico e letterario: e contro costoro, levo alta la bandiera e impugno l’arma del “Metodo tedesco” (Pagine sulla guerra, cit., p. 87).
L’imbarbarimento delle lettere si mostra anche nell’inaudita moltiplicazione di romanzi scientifici intorno alla superiorità spirituale di stirpi e razze. Croce denuncia infastidito la «mitologica antitesi di Latinità e Germanesimo»; se infatti risulta «stolta e goffa» la pubblicistica «pangermanista di un Chamberlain o di un Woltmann», anche le difese della «civiltà latina» e delle sue radici etniche si presentano quali speculazioni «arbitrarie e rozzissime», che riscuotono il plauso dei «partigiani confessionali e politici e degli schematici antropologi», ma vengono ignorate o derise da uno «spregiudicato indagatore storico» (p. 75).
Contro i corifei del «mito ariano» era del resto già sceso in campo, nel 1903, anche Napoleone Colajanni (1847-1921):
L’antroposociologia dilaga maledettamente [...]. Gli indici cefalici negli ultimi anni assumono l’importanza e la popolarità ch’ebbero altre volte la frenologia di Gall e l’angolo facciale di Camper. Avranno inesorabilmente la stessa sorte (N. Colajanni, Razze inferiori e razze superiori, 1903, p. 14).
Le prese di posizione di Colajanni contro il «fanatismo pan-ariano», fonte di una pericolosa «confusione tra l’elemento biologico della razza e gli elementi storici della civiltà», e le sue condanne della «teoria della razza», moderna «idra dalle sette teste», riscuotono il plauso di Croce, il quale sottoscrive senza riserve l’impegno rivolto a «sradicare le fallaci idee intorno alle razze e a combattere il germanesimo cieco e spesso comico dei Chamberlain, dei Woltmann e di altrettali». La ricerca di Colajanni, scritta con chiarezza e «sennato raziocinio», svolge temi di grande rilievo, a detta di Croce, che diventano particolarmente importanti nel momento in cui
corrono in istampa tante trattazioni pseudoscientifiche sulla senile decadenza latina e la giovinezza germanica, sull’impuro miscuglio etnico dei popoli dell’Europa meridionale e occidentale e sulla purezza dei germani e slavi (Conversazioni critiche, serie I, 1918, 19242, p. 171).
È del tutto insensato, ribadisce di continuo Croce nel 1914-18, opporre al militarismo tedesco «vacuità teoriche sugli ideali democratici e sul regno della pace e della giustizia» (Pagine sulla guerra, cit., p. 61), ricorrere a «formole vuote» e a «sofismi di letteratucci» (p. 91), indossare i panni dei «vagheggiatori dell’astratto ideale» (p. 130). Tuttavia, come osserva ancora il filosofo, proprio nell’atmosfera sovraeccitata e frenetica del tempo si operano continue confusioni tra i valori e le «chiacchiere» e si diffonde ovunque la perniciosa tendenza a «volgere i concetti della scienza a conforto di questa o quella tesi politica contingente, a difesa o offesa di questo o di quel popolo» (p. 52).
Allo «spirito del mondo», che non di rado si manifesta anche come «volontà di potenza», si deve pur lasciare il tempo di dipanare «la sua logica intricata e nascosta» (lettere del 22 e del 23 luglio 1919, Carteggio Croce-Vossler, 1899-1949, 1951, pp. 207-08). A un simile modo di vedere, tuttavia, si oppone il velleitarismo degli ‘impazienti’ e dei ‘patrioti’, accecati dall’indignazione. Pertanto, al furore dei letterati e degli attivisti politici, ormai storditi dal loro stesso profluvio di «parole da comizio, da cortei, da brindisi» (Pagine sulla guerra, cit., p. 128), è da opporre, a giudizio di Croce, una secca professione di realismo. Nell’ambito delle norme giuridiche, sia all’interno di una nazione sia nelle controversie tra Stati, se anche sembra che «si contenda di ragione, […] la contesa è sempre di forza o di autorità» (p. 117). Quindi, dal momento che «la vita del diritto internazionale, e di qualsiasi diritto», poggia sulla ‘potenza’, «dovrebbe esser chiaro che non vi ha cosa più stolta che aspettare dal diritto l’abolizione delle guerre», il trionfo indiscusso di principi etici. In ultima istanza, in effetti, «il diritto è esso stesso lotta o guerra», e dunque «non potrebbe abolire la guerra senza abolire sé medesimo» (p. 118). Spetta allora alla filosofia denunciare la concitata, fumosa retorica patriottica, risultato del disorientamento dei tempi, ribadendo pacatamente, ma con fermezza, che «la storia è gara di potenza e non già tribunale da giudice conciliatore» e che, di conseguenza, non si lascia certo intimorire o convincere dal coro degli «appelli alla astratta moralità» (p. 120).
Per contrastare e battere «l’errore moralistico […] nella scienza politica», che impedisce di scorgere l’identità di diritto e potenza, occorre sbarazzarsi anche di un secondo sofisma – nota ancora Croce – riproposto dalla retorica nazionalistica in innumerevoli occasioni. I solerti difensori d’ufficio della superiorità morale della patria procedono immancabilmente, nei loro discorsi, per mezzo di astrazioni e di schemi generali, disgregando così il dato storico, irriducibile nella sua specificità, e annullandolo entro un rigido reticolo di categorie astratte e di inferenze ottenute per via comparativa. Contrastare l’asservimento del ‘concetto’, dell’ideale, alla propaganda, e svolgere le ragioni di una sobria antiretorica, significa pertanto, secondo Croce, sostenere un coerente ‘nominalismo’ storico:
Bisogna ricordare che le forme politiche non esistono, ma sono semplici costruzioni dei teorici, e quel che esiste nella realtà è il fatto storico, cioè forme che non sono più semplici forme, ma popoli in certi momenti della loro vita, con determinate religioni e filosofie, determinate tendenze pratiche e morali […], determinate tradizioni, in determinate situazioni internazionali (Pagine sulla guerra, cit., p. 235).
Sul piano della ‘scienza politica’, prosegue la riflessione crociana, le analisi comparative, rivolte a soppesare aspetti positivi e negativi di sistemi istituzionali diversi, finiscono immancabilmente per svuotare e corrodere una «determinata e concreta realtà storica», subordinandola forzatamente ai risultati di un discorso intorno al ‘dover essere’, ai valori e alla tacita riproposizione di «certe forme politiche, astrattamente prese». In simili casi lo studioso, proprio quando «crede […] di raggiungere una verità generale», resta pur sempre attaccato a una «verità particolare», limitandosi, nonostante l’astratta fraseologia, a far «notare […] che un dato popolo, in un dato momento, prospera e va innanzi agli altri»; e tuttavia si ostina a non voler ammettere che
se si converte questa verità particolare in verità generale, si apre la via alle tante volte condannate utopie politiche, le quali non consistono solo nel disegnare repubbliche perfette fuori del corso storico […] o destinate a chiuderlo con una paradisiaca stasi, ma anche nell’astrarre dalla storia forme contingenti e spacciarle per assolute (Pagine sulla guerra, cit., p. 236).
Nonostante le roboanti dichiarazioni e le idealità di «moralisti della politica, […] settatori di forme astratte […], dottrinari» (p. 238), non è mai concesso, sul piano storico e politico, di potersi sottrarre alle ristrettezze del particolare e del contingente.
Chi sa […] essere spregiudicato non si lascia trarre all’illusione che esistano forme […] o Stati che abbiano trovato l’equilibrio stabile, ma appunta l’occhio a scoprire le forze reali, e perciò le reali possibilità, di un determinato popolo in un determinato tempo (p. 236).
Allo scoppio della guerra riprendono d’un tratto vigore, come registra Croce, i dilemmi e le contrapposizioni che, nei due secoli precedenti, avevano scosso, rimanendo irrisolti, la filosofia europea. Il conflitto tra popoli e nazioni sembra l’occasione propizia per un tardivo regolamento di conti, del tutto inaspettato: il «secolo decimottavo» può finalmente riuscire a «prendere la rivincita sul secolo decimonono» e il dottrinarismo degli ‘enciclopedisti’ pare mettere a tacere ogni richiamo alla tortuosità, e all’assenza di trasparenza, degli effettivi processi storici. La mobilitazione contro l’espansionismo tedesco viene condotta riprendendo «l’ideologia umanitaria e massonica» e dando quindi nuovo slancio a un
indirizzo intellettualistico, plasmato nel Settecento, messo ora a servigio della democrazia radicale, popolato dalla piccola borghesia, rischiarato dalla cultura dei maestri elementari, rafforzato dal semplicismo razionalistico del giudaismo (Pagine sulla guerra, cit., pp. 108-09).
Nell’insofferenza crociana verso i teoremi dell’astratto rigorismo, acquistano nuova risonanza il sarcasmo e le invettive di un Georg Wilhelm Friedrich Hegel,
gran nemico degli scontenti della vita, delle anime sensibili, dei perpetui declamatori […] in nome della ragione e della virtù, […] dell’umanitarismo enciclopedistico e del giacobinismo, che pone di fronte alla dura realtà il proprio squisito cuore, e vede dappertutto tirannie e frodi di despoti e preti (Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, in Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, 1913, 19483, p. 42).
Croce considera la guerra, in sostanza, attraverso lo sguardo dello Hegel critico «dell’astrattezza kantiana» e convinto che «nella lotta tra questo “dover essere”, tra questa vanitosa virtù e il corso del mondo, il corso del mondo vince sempre» (p. 42).
Dal punto di vista crociano, la prima, illustre vittima del conflitto è stata proprio la filosofia hegeliana. Già prima dello scoppio della guerra, in realtà, riscuoteva sempre più credito «la veduta antistorica dei popoli come individualità fisse, entità metafisiche, creature privilegiate o reiette»: all’interno di un simile scenario, non a caso, «gran dispregiatore di Hegel» si mostra, nella stessa Germania, «il pangermanista signor Houston Chamberlain» (Pagine sulla guerra, cit., p. 96).
Talvolta lo stesso Croce sembra comunque riformulare la filosofia hegeliana della storia per mezzo di schemi darwiniani, facendo della lotta per l’esistenza un fulcro del suo ragionamento. In un suo contributo di questo periodo compaiono accenti in cui è dato di ritrovare, al tempo stesso, Niccolò Machiavelli, Hegel e Charles Robert Darwin:
La teoria dello stato come potenza, […] come lotta per l’esistenza, non giustifica in nulla i raccapricci che […] provano le anime timorate: salvo che non si voglia considerare raccapricciante un’inesorabile proposizione di aritmetica o un teorema di economia politica, ossia un’affermazione scientifica (Pagine sulla guerra, cit., p. 90).
E subito dopo il filosofo aggiunge:
la storia (nonché la logica stessa della vita) mostra che gli Stati e gli altri aggruppamenti sociali sono tra loro perpetuamente in lotta vitale per la sopravvivenza e per la prosperità del tipo migliore; e uno dei casi acuti di questa lotta è ciò che si chiama la Guerra (p. 90).
Ora, il lessico biologico utilizzato in questo caso da Croce non trova riscontri né nella Filosofia della pratica né nel saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel; l’intero brano sembra piuttosto recare il segno dell’interesse con cui aveva letto uno scritto del saggista William Mackenzie (1877-1970), assai apprezzato, anche pubblicamente, dal filosofo. L’intento dello scritto di Mackenzie è quello di mostrare, svolgendo il punto di vista del «bio-filosofo», come ovunque in natura avvengano processi, nella sfera del vivente, che portano a una «crescente individuazione» e a una «maggior complessità» (W. Mackenzie, Significato bio-filosofico della guerra, 1915, p. 45); la conflittualità e la «lotta incessante» caratteristica del mondo organico si ripropone, a un piano ben più elevato, negli sforzi attraverso cui il «tipo sociale», cioè «quel sistema che […] designamo col nome di Stato», mira a ottenere una sempre maggiore potenza: «il principio è sempre lo stesso: indispensabile offendere, per dominare» (p. 43).
Chi riesca a comprendere il «significato della guerra quale fatto biologico» (p. 56), si renderà ben presto conto che «coloro che si affannano a cercare i ‘motivi’ o le ‘cause’ di un dato conflitto» non riescono ad allineare altro che «fatti contingenti e occasionali», giustificazioni non richieste e futili ragionamenti, ignorando del tutto «la vastità e la complessità dei motivi veri e delle cause profonde» (p. 72). La loro propaganda, in definitiva, finisce per «insegnare al […] popolo che il nemico bisogna odiarlo» (p. 79) a cagione della sua malvagità; si giunge così a ottenere «il solo e deplorevolissimo risultato, di fondare o di accrescere quell’odio tra gli uomini, che secondo noi è precisamente il vero ed unico ‘nemico’ da combattere» (p. 78). Viceversa, riconoscere nelle guerre eventi naturali e processi «biologici» permette di evitare quelle «semplificazioni assolutamente artificiali», riproposte senza tregua da «coloro che in questa […] guerra vedono la lotta della “civiltà” contro la “barbarie”, del principio ‘liberale’ contro quello ‘autoritario’» e finiscono magari con l’affermare, al seguito di Bergson, che l’odierno conflitto è «soprattutto una lotta della “materia” contro lo “spirito”» (p. 75).
Mackenzie non è l’unico ‘compagno di strada’ con cui Croce, ben consapevole del proprio isolamento, finisce, con le riflessioni di questi anni, per accompagnarsi. Nella sua lotta contro i letterati, il filosofo si entusiasma anche per uno scritto, Il ritorno di Machiavelli, pubblicato nel 1916 da Mario Mariani (1884-1951), «un irregolare della vita e della letteratura» (Isnenghi 1970, p. 342). Il realismo crociano trova sostegno, in questo caso, in una singolare testimonianza di «anarchismo intellettuale», in uno scritto polemico – composto nel segno di Max Stirner, di Friedrich Wilhelm Nietzsche e di Frank Wedekind – al cui interno «ogni pensiero, ogni deduzione» vuol essere «un colpo di piccone […] nel castello delle utopie e dei sogni che abbiamo costruito un po’ tutti negli anni beati della gioventù». Il libro di Mariani, in sostanza, è un’aspra critica della miopia dei popoli latini, incapaci di riconoscere che «scaltrezza e forza sono […] la sola legge, la vera giustizia, il supremo diritto». Occorre convincersi, proclama Mariani a gran voce, che «per vincere la Germania bisogna non soltanto imitarne le armi e i metodi di guerra, bisogna imitarne lo spirito», rendendosi conto tuttavia
che i buoni successi della politica e delle armi tedesche son dovuti soprattutto alla rigida e costante imitazione delle massime contenute nel Principe, nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, nel Libro dell’arte della guerra (M. Mariani, Il ritorno di Machiavelli. Studi sulla catastrofe europea, 1916, p. 13).
Questo scritto, che ribadisce il primato della forza («il resto è letteratura, è sentimento: è fola»), viene giudicato da Croce in termini assai positivi, come una presa di posizione che merita ampia pubblicità: «mi auguro che sia divulgato a migliaia di copie e meditato dappertutto in Italia e nei paesi alleati», attentamente soppesato nelle molte «amare verità» che contiene, «le quali del resto sono già nella coscienza di tutti» (Pagine sulla guerra, cit., pp. 153-54).
Proprio durante la guerra – argomenta Mariani in pagine che dovevano trovare piena adesione da parte di Croce – diventa tanto più chiaro quanto sia esiziale ogni commistione tra morale e politica: sebbene «molti […] visionari [abbiano] cercato di forzare la storia piegandola ad essere un povero commento d’etica», il loro sforzo è sempre stato «vano», dal momento che «la storia è immorale», estranea e insensibile alle grida e alle suppliche di letterati e filosofi. «La morale […] pubblica internazionale è […] il piagnucolamento dei vinti e dei deboli. Appellarsi alla morale vale quanto appellarsi a Dio, rimettere la propria sorte […] nelle mani di un’astrazione».
Mariani, attento lettore di Stirner e di Nietzsche, denuncia con asprezza la funesta tirannia esercitata dalle utopie e dai sofismi dei moralisti: «E come nella lotta fra i privati la morale non è che un’arme, anche nella lotta fra le nazioni la morale non è che un mezzo di guerra, un mezzo retorico, astratto». Aggrapparsi ai principi, difendere valori umanitari, è comunque, per questa forma di «anarchismo intellettuale», un segno di infiacchimento, un elemento patologico: «Questo amore dell’illusione, questo bisogno di pusillanimità caratterizza le razze disfatte dai vizi, dalle ideologie, le razze, in una parola, decadenti». La professione di fede ‘machiavellica’ di Mariani, di cui Croce vuol farsi patrocinatore, auspicandone la più ampia diffusione, contiene inoltre, in termini generali, un elogio dell’«immoralità del tedesco», del suo «cinismo ilare e giocondo».
Il tedesco […] s’illumina, strizza l’occhio raccontandovi una sua bricconeria e ride d’un riso rumoroso […]. Allora soltanto la sua grossa faccia vi sembra […] espressiva. È la faccia del cardinale del Seicento di tutti i paesi (M. Mariani, Il ritorno di Machiavelli, cit., pp. 144 e 206).
E descrivendo, sul piano del costume, un ‘immoralismo’ diffuso nei Paesi di lingua tedesca, che potrebbe essere un ottimo correttivo per la mentalità dei popoli latini, Mariani si sofferma, infine, a lungo su Wedekind e ne riprende le critiche all’«idea monogama» e la paradossale difesa della ‘mercificazione’ del sesso («l’antifemminismo di Weininger e le teorie di Wedekind non potevano spuntare se non in Germania», p. 209).
Carl Schmitt (1888-1985) apre le sue considerazioni sui fondamenti dell’«agire politico», nel 1932, facendo notare quanto sia «raro trovare una chiara definizione del ‘politico’», visto che per lo più «il termine viene impiegato solo in senso negativo come contrapposizione ad altri concetti, in antitesi come politica ed economia, politica e morale, politica e diritto» (C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, 1932; trad. it. Le categorie del politico. Saggi di teoria politica, 1972, p. 101).
In realtà, proprio in Croce, negli scritti degli anni di guerra, lo svolgimento delle ragioni di una coerente antiretorica trova il proprio punto focale nel principio dell’autonomia della politica, della sua piena estraneità a considerazioni di ordine etico. Le dolorose, drammatiche esperienze belliche insegnano – a suo parere – quanto sia importante «liberar[si] dai concetti astrattamente umanitari e render[si] familiare la vera dottrina dello Stato», attenta a far vedere che «la politica, come l’economia, ha leggi sue proprie, indipendenti dalla morale». Occorre, a questo proposito, rettificare, in accordo al «principio della distinzione delle forme dello spirito», la teoria hegeliana, la quale «concepiva ancora lo Stato, e la lotta per lo Stato, come ‘superiore’ alla morale», avendola assorbita al suo interno.
Piena separazione, quindi, della sfera statuale e della sfera etica – imparando a notare, nell’ottica di Croce, che il distacco dalla morale non equivale affatto, per i dominatori, a piena liceità nel sopraffare. Certo,
se si indagano le ragioni per le quali la dottrina dello Stato come potenza, o dell’autonomia della politica, suole suscitare ripugnanza, si avvertirà che una delle più forti tra esse è il timore che, resa indipendente dalla morale, tutto diventi lecito (Pagine sulla guerra, cit., p. 105).
In realtà, proprio la politica, se mira a un «trionfo spirituale […] e duraturo sull’avversario», deve rispettare le determinazioni del diritto internazionale e sottrarsi all’impulso vendicativo che richiede di umiliare e di asservire spietatamente il nemico sconfitto. La politica, anche se affrancata dalla morale, non per questo diventa insomma rabbioso spirito di rivalsa, arbitrio dispotico, legittimità di ogni sopruso e violenza.
La dialettica dei distinti insegna a riconoscere come la sfera politica sia un territorio entro cui non è consentito ricorrere alla denigrazione morale, alla demonizzazione dell’avversario. Quando ci poniamo nell’ottica «della differenza tra le varie forme spirituali», impariamo immediatamente a «non perdere mai di vista che le lotte politiche […] non sono lotte […] morali» e non possono pertanto associarsi alla condanna, sul piano dei principi, delle turpitudini o delle menzogne del nemico:
Nelle lotte politiche ed economiche, a differenza di quelle morali […], non è concepibile altra fede se non nella propria forza e capacità: fede che, diversamente dalle altre, sopporta e importa la stima e non il dispregio dell’avversario, soprattutto quando questi non è vile […] e oppone buona forza alla nostra forza (Pagine sulla guerra, cit., p. 112).
Reazioni rabbiose e invettive, al pari di qualsiasi manifestazione di odio nei confronti di coloro contro cui lottiamo, sono sintomi di debolezza, non di forza. Proprio la potenza e il rispetto delle ragioni dello Stato a cui apparteniamo impongono di sottrarsi alla logica del rancore e del risentimento e di non ignorare, sia pur tacitamente, il valore e le prerogative del nemico. Nelle guerre, i contendenti, se anche non sfiorano mai la sfera dei «valori universali» e restano sempre aggrappati a «passioni» di parte, debbono comunque riuscire, proprio per assicurarsi più probabilità di successo, sia a tenere a freno l’ira, sia a rinunciare alla calunnia e alla diffamazione.
Le lotte da cui risulta la ‘storia del mondo’ avvengono tra ambizioni e interessi altrettanto legittimi, sostenibili o criticabili nella stessa misura, e assolutamente da non ricondurre allo scontro tra ‘eletti’ e ‘dannati’, tra buoni e reprobi. La confusione tra politica e morale scaturisce a sua volta, in definitiva, da un retaggio religioso, dal convincimento che gli uomini debbano mostrare mansuetudine, «pace e fratellanza» nel «percorrere questa via di pellegrinaggio, che è il mondo». Le lunghe ombre di un simile modo di vedere si proiettano, secondo Croce, anche sulla dottrina democratica, sulla «visione umanitario-massonica», la quale, posta di fronte al cristianesimo, non ne costituisce affatto «l’avversaria, come immagina, ma la caricatura, perché predica pace e giustizia e abbracciamento universale nel mondo».
Solamente un realismo intransigente, intento a separare politica e morale, e convinto che l’agire pratico sia sempre settario, inevitabilmente schierato in difesa di interessi particolari, sarà in grado di affrancarsi da ogni ipoteca religiosa. «Avversaria vera e propria della concezione cristiana è quella della realtà come svolgimento e lotta», la quale nega la possibilità di vie di fuga di fronte al duro dovere di accettare la lacerazione, di sostenere a oltranza la propria parzialità:
L’individuo è chiamato a partecipare al mistero doloroso del farsi della Realtà, e perciò alla perpetua lotta, che dal contrasto quotidiano giunge fino al contrasto armato o guerra; ed esso non può arrogarsi di cangiare le leggi […] del mondo, ma deve soltanto difendere la causa del popolo del quale esso è parte, e mantenere a oltranza il posto che […] gli è stato assegnato: fiducioso che dall’opera sua […] nascerà il maggior bene possibile (Pagine sulla guerra, cit., p. 132).
Sulla Terra, in altri termini, a nessuno è concesso di farsi profeta. E tuttavia, l’operare pratico, se non sarà mai, per i singoli uomini come per le nazioni, un contributo diretto alla ‘salvezza’ della civiltà o alla difesa di valori etici, non per questo sarà moralmente indifferente: il suo imperativo categorico sarà proprio quello di non lasciarsi fuorviare da moralismi d’ogni sorta. Proprio la dottrina dei distinti non postula, «come alcuni credono, una eccezione alla morale in favore della politica»: essa infatti, al contrario, «inculca all’individuo lo strettissimo dovere morale di trattare la politica in modo indipendente dalla morale», così come richiede all’artista o all’uomo di scienza lo «strettissimo dovere morale [di] attendere alla perfezione estetica o logica dell’opera […], senza lasciarsi distrarre da inopportune velleità moralistiche» (p. 132). Al politico, come pure all’artista e allo scienziato, non si domanda di redimere il mondo, di renderlo più giusto. E il filosofo deve contrastare la
pretesa di trattare la politica come morale, laddove la politica (ecco il vero) è politica, e nient’altro che politica; e […] la sua moralità consiste tutta e solamente nell’essere eccellente politica, come la moralità della poesia (checché dicano gli incompetenti) consiste unicamente nell’essere eccellente poesia (Pagine sulla guerra, cit., p. 253).
Nella confusione tra moralità e politica è da scorgere, sul piano storico, l’ultima manifestazione di un patrimonio ideale ancora legato all’Illuminismo, alla sua tenacia nel proporre una sorta di «razionalistica […] imitazione della Chiesa» e nel sostenere in definitiva, al pari della fede cristiana, «la politica come morale» (p. 253).
L’‘alta politica’, secondo la prospettiva di Croce, rifugge da ogni forma di pathos e non ignora affatto la radicale alterità della storia rispetto al piano dei valori universali:
Quando la guerra scoppia (e che scoppi o no, è tanto poco morale o immorale quanto un terremoto o altro fenomeno di assestamento tellurico), i componenti dei vari gruppi non hanno altro dovere morale che di schierarsi alla difesa […] della patria, per sottomettere l’avversario o limitarne la potenza o soccombere gloriosamente […]. Solo a questo modo l’individuo è giusto, sebbene, a questo modo, giusto sia anche l’avversario (Pagine sulla guerra, cit., p. 91).
Nel rivendicare un modo di intendere la politica come disincanto e senso della misura, e quindi spontanea diffidenza verso le ‘grandi parole’, la filosofia crociana ritiene di andare incontro a un sentire assai diffuso: «Non credo che il sano senso popolare abbia mai concepito in altra guisa le guerre (la religione popolare le considera “castighi di Dio” per “migliorare” gli uomini)» (p. 91).
Quanto scrive Croce intorno all’autonomia della politica merita di essere accostato alle tesi di Schmitt relative alla «distinzione di amico e nemico», attraverso cui viene mostrata l’autonomia della sfera politica rispetto alle sfere della morale, dell’economia e dell’estetica. Anche per Schmitt, su questo piano, nella figura del nemico si presenta, al di là di qualsiasi determinazione morale, «semplicemente l’altro, l’estraneo [der Fremde]», il quale non dovrà essere necessariamente malvagio. Sulla scorta di una simile definizione, nell’«ambito relativamente autonomo della politica», non sarà possibile condannare in base a motivi etici e «odiare personalmente il nemico», dal momento che quest’ultimo, nel suo opporsi, «non è […] l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia […]. Nemico è solo il nemico pubblico, l’hostis, non l’inimicus […], il polemios, non l’eksthos». Pure per Schmitt, come già per Croce, non è data l’eventualità di «una guerra condotta per motivi ‘puramente’ religiosi, ‘puramente’ morali, ‘puramente’ giuridici o ‘puramente’ economici». Tra questi diversi ambiti vitali non vi sono reciproche interferenze; dal gioco delle «contrapposizioni specifiche» interne a ciascuna di queste sfere (e quindi dal contrasto, per es., tra morale e immorale) «non è possibile far discendere il raggruppamento amico-nemico e perciò neppure la guerra» (C. Schmitt, Le categorie del politico, cit., pp. 109, 111 e 119).
Le analogie tematiche tra Croce e Schmitt sono, a questo proposito, alquanto significative. Schmitt mostra, tra l’altro, di conoscere l’opera crociana, elogiata in una pagina del 1929:
Che tutta quanta la conoscenza storica sia conoscenza del presente, che essa tragga dal presente la sua luce e la sua intensità […], è stato detto da molti, dopo Hegel, e nel modo migliore da Benedetto Croce (C. Schmitt, Der Begriff des Politischen, 1963, p. 79).
Sarebbe interessante, proprio a partire da questo giudizio, condurre un’attenta indagine, mirando a chiarire se, in merito alla questione dell’autonomia della politica, l’indubbia convergenza, sul piano delle idee, non scaturisca anche da un’effettiva conoscenza dei testi.
C. Malaparte, La rivolta dei santi maledetti, in Id., L’Europa vivente e altri saggi politici (1921-1931), Firenze 1961.
M. Isnenghi, Il mito della grande guerra: da Marinetti a Malaparte, Bari 1970.
S. Cingari, Benedetto Croce e la crisi della civiltà europea, Soveria Mannelli 2003.
G. Cacciatore, Filosofia pratica e filosofia civile nel pensiero di Benedetto Croce, Soveria Mannelli 2005.