Politica e giustizia
La cronaca trecentesca del doge veneziano Andrea Dandolo contiene una lunga e importante analisi del ruolo di mediazione, già allora mitico, svolto da Venezia tra l'imperatore Federico Barbarossa e papa Alessandro III nel 1177. Secondo Dandolo, Federico aveva avuto la meglio nel conflitto tra la Chiesa e l'Impero in Italia; e anzi, i suoi successi militari erano stati tali da costringere il papa a fuggire a Venezia. Il tema di Venezia come luogo di pace e serenità, un rifugio dal disordine del mondo, è una costante nella cronaca di Dandolo, e sarebbe diventato un elemento portante del mito di Venezia. Dandolo apriva la sua cronaca con quello che è in pratica un elenco degli individui e dei gruppi giunti nell'antica Venezia alla ricerca di pace e riparo da un mondo violento a cominciare dall'apostolo Marco, cui un angelo aveva promesso che le sue spoglie avrebbero trovato pacifico riposo nella futura città ("Pax tibi Marce"), fino alle diverse ondate di profughi incalzati dai tanti che invasero l'Italia con il crollo dell'Impero romano. Anche le tante reliquie di santi salvate dall'oblio e portate a Venezia per essere venerate nelle sue chiese - di cui Dandolo parla in grande dettaglio - potrebbero essere considerate come profughi spirituali di straordinaria importanza e efficacia.
Senza dubbio la fuga del papa riproponeva quel tema, ma per Dandolo gli eventi del 1177, nelle proporzioni mitiche da essi assunte nella tradizione veneziana, possedevano un significato ben più vasto. Che Venezia avesse difeso il papa, e mediato la pace tra papa e imperatore, consentiva al doge di spiegare tante cerimonie e costumi di governo vigenti nel secolo XIV, nei quali egli leggeva rilevanti implicazioni sulla parità di Venezia rispetto alla Chiesa e all'Impero, e sull'unicità del suo status. Uno dei primi momenti simbolici di quelle vicende nella versione di Dandolo si verifica mentre il doge si accinge a guidare la flotta veneziana contro quella imperiale, in difesa del papa. Constatando la grave inferiorità numerica dei Veneziani, il papa consegnò al doge una "spada splendidamente ornata, per una Chiesa militante" (1); la conosceva bene, Dandolo, quella spada, poiché la sua cronaca si affretta a sottolineare che "i dogi di Venezia da allora l'avrebbero sempre fatta portare al loro seguito". In realtà, nelle cerimonie pubbliche del secolo XIV, questa spada seguiva il doge alla sua destra, nelle mani di uno dei giudici del proprio - una delle più antiche magistrature della Repubblica; era la famosa spada della giustizia, che accompagnava il doge per "istruire" il popolo veneziano sul potere punitivo dello Stato, personificato dal doge e dai suoi magistrati (2).
La spada dunque, che almeno in teoria proveniva dalla massima autorità morale del mondo cristiano, il papa, non era una spada qualsiasi, era una spada ornata per una Chiesa militante; era la spada che puniva, ma dietro di lei - nella realtà come nel mito - stavano lo splendore e la potenza militante della Chiesa. In questo senso la spada ornata per una Chiesa militante è una perfetta metafora della natura della giustizia e del diritto penale a Venezia. Il rapporto tra diritto e giustizia penale, infatti, è spesso più problematico di quanto appaia. L'evoluzione della giurisprudenza penale veneziana nel tardo medioevo e nel primo evo moderno è un ottimo esempio di questa complessità. La legge e la pratica si tenevano generalmente, e intenzionalmente, ben distinte: il diritto, come intendo sostenere, mirava soprattutto a costruire una visione morale dello Stato (uno Stato che, come la Chiesa militante, intendeva creare una comunità morale), assumendo spesso una dimensione più simbolica che non direttamente pratica. Anche la pratica possedeva dimensioni simboliche e morali, ma era soprattutto la sfera delle risposte pragmatiche a quelle che venivano percepite come le istanze concrete sollevate dal reato. Insieme, la legge e la giustizia, allo stesso modo della spada che seguiva il doge Dandolo nelle pubbliche processioni, trasmettevano un ricco simbolismo incentrato sulla moralità e sull'amputazione dei membri colpevoli della società.
Ritornando al diritto, nella Venezia del tardo medioevo e del primo rinascimento non era affatto facile nemmeno conoscerlo. In teoria, il diritto si articolava su diversi livelli, da quello divino, a quello romano, fino agli aspetti pratici della consuetudine e del decreto legislativo locale (3). Nella realtà, però, le cose erano più complicate, imperniate com'erano soprattutto sulla pratica e sulla legislazione a livello locale. E ciò era particolarmente evidente nella materia penale, il cui nucleo portante fu codificato nella Promissio Maleficorum del 1232, un piccolo codice che, posto in appendice a quello di diritto civile commissionato dal doge Jacopo Tiepolo nel 1242, avrebbe costituito il riferimento principale per il diritto penale per tutto il corso del rinascimento (4). È significativo però che in quell'arco di tempo, sebbene le modifiche alla Promissio fossero di minimo conto, il diritto e la pratica penale subirono invece una vera e propria rivoluzione - una rivoluzione trecentesca rimasta in una certa misura nascosta dall'imposizione del mito di Venezia, per il quale nella giustizia come in tutti gli altri aspetti determinanti della società nulla era cambiato dopo i perfetti esordi della città.
Un settore che andò modificandosi in modo rapido e incessante per tutto il corso del periodo fu quello del grande numero di parti - atti legislativi con il valore pratico di leggi - approvate dai consigli legislativi della città, innanzitutto il maggior consiglio, la quarantia e i pregadi. Il solo volume della legislazione rendeva praticamente impossibile una conoscenza aggiornata, in qualsiasi momento dato, di quanto essa richiedeva ai tribunali penali. Il governo veneziano era ben consapevole dei problemi causati da questa massa di leggi in rapida espansione, e tra la fine del XII secolo e l'inizio del XIV tentò di trovare una soluzione burocratica, affidandola a uno dei consigli più potenti, che operava in contatto costante con la materia legale: gli avogadori di comun. Costituito da tre patrizi, questo piccolo consiglio aveva come prima responsabilità il perseguimento dei reati di fronte ai più importanti magistrati e consigli del comune. Il nome e le funzioni svolte parrebbero implicare che si dovesse trattare di giuristi, ma anche in questo caso - a dimostrazione della relativa irrilevanza del diritto nella pratica penale veneziana - la preparazione giuridica contava meno della posizione sociale e politica: in genere non erano giuristi, bensì esponenti di spicco delle maggiori famiglie della città, che occupavano la carica per due anni. La sapienza giuridica a disposizione del consiglio era fornita da un gruppo più o meno numeroso di notai e segretari che dipendevano dagli avogadori e tendevano a costituire il nucleo semipermanente di funzionari più pratici delle forme burocratiche dell'ufficio e della legge (5).
Gli avogadori dovevano essenzialmente occuparsi della collazione delle leggi, agendo come comitato di consulenza legale per il governo. Da questo compito derivò una serie di registri in cui si raccoglievano i principali atti legislativi e giudiziari del maggior consiglio, che va sotto il nome di Deliberazioni del maggior consiglio. Furono inoltre compilati, o aggiornati, "capitolari" per tutti i consigli veneziani, e in particolare per gli organismi e i tribunali responsabili della pubblica sicurezza. Sebbene privi del valore formale di leggi, i capitolari raccoglievano le leggi e le procedure operative ordinarie cui avrebbe dovuto attenersi ciascun consiglio, corpo di sicurezza o tribunale, e dunque, insieme con i suggerimenti e le prescrizioni degli avogadori, avrebbero dovuto costituire la fonte di riferimento per buona parte delle procedure ordinarie del governo. E in effetti il maggior consiglio approvava di continuo provvedimenti che imponevano ai nuovi membri delle magistrature e dei consigli la lettura del capitolare prima di assumere l'incarico. Se davvero i capitolari fossero stati la fonte della procedura ordinaria, gli avogadori - che li controllavano tutti, e conservavano la memoria giuridica dello Stato - avrebbero amministrato un potere davvero notevole; ed erano potenti, ma non tanto quanto potrebbe far pensare questo insieme di poteri. In primo luogo, i capitolari potevano essere seguiti o trascurati senza troppi problemi: lo sta ad indicare il fatto stesso che il maggior consiglio continuasse ad approvare provvedimenti che obbligavano consiglieri e magistrati a leggerli; ma lo dimostra in modo ancor più evidente la tenuta fin troppo raffazzonata dei capitolari stessi per tutto il corso del rinascimento. Basta raffrontarli con i registri che documentano l'operato dei diversi consigli per constatare la scarsissima correlazione con il rispettivo capitolare; e anzi, non è raro il caso di consigli che non tengono in conto alcuno la legislazione cui dovrebbero fare riferimento, o che addirittura riprendono come nuovi dei provvedimenti già inseriti nel loro capitolare (6). Era importante, in questa scarsa attenzione per i capitolari, un problema puramente tecnico: la difficoltà per gli avogadori di mantenerli aggiornati e di controllarne l'osservanza. In un certo senso era proprio la grande portata dei poteri teoricamente controllati dagli avogadori a rendere quasi impossibile l'esercizio sistematico delle funzioni che richiedevano un'attenzione costante. C'era però un altro motivo, ancor più importante e fondamentale, per cui il potere teorico degli avogadori non corrispondeva con quello reale: con buona pace del suo mito (quantomeno nelle versioni successive) Venezia non era una Repubblica governata dal diritto. Come abbiamo già rilevato, gli avogadori stessi ne costituiscono l'esempio più efficace; con poche, e notevoli, eccezioni, si trattava di dilettanti del diritto, scelti più che altro per la loro posizione sociale e per l'impegno politico. In materia penale, come in tanti altri campi, i Veneziani si limitavano a lasciare ogni decisione circa le procedure e le pene alla consuetudine e all'arbitrio dei tribunali, dei consigli e dei singoli giudici (7). Non si vuol dire con questo che la legge fosse priva di significato. Si potrebbe infatti obiettare che se così fosse stato risulterebbe incomprensibile il motivo per cui i consigli veneziani passavano tanta parte del loro tempo ad approvare parti e ad adattare il diritto e le procedure con cui esso veniva applicato; sarebbe anzi inspiegabile che uomini di potere come gli avogadori di comun impegnassero tante energie per registrare e riorganizzare ogni atto legislativo. Ancora una volta, ritengo che la risposta vada cercata nella "spada ornata per una Chiesa militante" del doge Dandolo: quando quella spada doveva colpire, si trattava spesso di problemi troppo delicati per lasciare che la direzione del taglio fosse imposta dall'impersonalità della legge, fosse anche una legge compilata da consumati politici quali erano gli avogadori. Quel taglio andava deciso caso per caso, da giudici - anch'essi di regola uomini dotati di grande sensibilità politica e sociale - ben al corrente delle diverse implicazioni politiche e sociali di ciascun processo. Doveva essere il taglio di un chirurgo, non di un macellaio, e dunque la politica contingente doveva avere il sopravvento sulla fissità della legge. Ma la spada recava anche gli ornamenti di una Chiesa militante; era splendida, e nel suo splendore era il veicolo tangibile di una più alta autorità morale e spirituale. Questo, ritengo, fu l'ambito prioritario del diritto penale, e del diritto in generale, a Venezia: l'espressione di una superiore concezione morale e simbolica dello Stato e del suo potere.
Per comprenderlo appieno dobbiamo però ritornare al codice penale veneziano, la Promissio Maleficorum del doge Jacopo Tiepolo, che si apriva con una breve dichiarazione in cui si riconoscevano da un lato i limiti della legge quanto all'eliminazione dei reati, e dall'altro si enfatizzava la sua dimensione simbolica e morale: "Cum ex rigore iustitie excessus emendare et punire malefitia merito invicte nobis sollicitudinis teneamus. Ad hoc efficiendum tanto studiosius intendere volumus quanto de vitiorum correctione tota patria laudabiliter praedicticitur" (8). Si noti che l'"invicte nobis sollicitudinis" può garantire soltanto la punizione del reato e l'emendazione degli eccessi; non c'è nemmeno l'idea che possa limitare o eliminare i crimini. Tanto "excessus emendare" quanto "de vitiorum correctione" indicano uno stretto rapporto tra diritto penale, punizione e tutela dell'ordine nella città, un ordine che è di fondo l'ordine morale di un contesto sociale. Ancora una volta non ci troviamo di fronte a una spada che si limita a punire: le è necessario anche l'ornamento degno della militanza morale di uno Stato simile alla Chiesa.
Dopo questa premessa, la Promissio apre una lunga sezione sul furto. Qui la spada incombe come non mai: diversamente da altri reati, infatti, per il furto il volto tagliente della giustizia veniva chiaramente delineato in una gerarchia di punizioni in larga misura corporali. La collocazione all'inizio del codice, l'estensione del capitolo e l'accurata specificazione delle pene stanno tutte ad indicare che a questo reato Tiepolo e i signori della città attribuivano il massimo rilievo. Le pene per il furto erano articolate, quantomeno per i non recidivi, in una gerarchia basata sul valore della proprietà sottratta. Si cominciava con la semplice fustigazione per il non recidivo che avesse rubato meno di una lira. Si passava rapidamente alla perdita di un occhio per un furto del valore compreso tra cinque e dieci lire, per arrivare poi al marchio a fuoco più la perdita dell'occhio, quindi al taglio della mano, e infine all'impiccagione per chi avesse rubato più di quaranta lire. Quanto ai recidivi, la legge cancellava senza pietà ogni gerarchia delle pene: c'era soltanto l'impiccagione. Si prevedevano inoltre nel dettaglio le pene da imporre per l'effrazione e la violazione di domicilio a scopo di rapina e per la rapina a mano armata (9).
Assai più brevi le sezioni successive, sull'aggressione e l'omicidio; una sinteticità in parte giustificata dal fatto che anche per questi reati gravissimi il codice tendeva a delegare un potere sempre maggiore alla discrezione del giudice. L'aggressione semplice comportava una multa di venticinque lire o il bando del reo, ma le pene per le aggressioni più gravi, con spargimento di sangue ("sanguinem fecerit"), rimanevano a discrezione del giudice (10). Per l'omicidio ci si atteneva al modello dell'aggressione grave, lasciando decidere la pena al giudice in base alla natura del reato e alla qualità così della vittima come del reo. Nei casi di omicidio, però, la Promissio poneva anche la questione della prova: il margine di arbitrio cioè che rimaneva al giudice quando le prove non erano abbastanza decisive. Il codice finiva per stabilire che in questi casi il giudice godeva di potere assoluto: "[A>ut non fuerit manifestum homicidium ipsum perpetrasse sit in conscientia et discretione iudicum de condempnando et puniendo eum" (11). L'aggressione e l'omicidio si limitano a introdurre il tema della discrezionalità del giudice nella valutazione del reato, ma già bastano ad indicare quella che sarà una delle caratteristiche portanti della giustizia veneziana nel tardo medioevo e nel rinascimento: era una giustizia preminentemente personale, in cui erano i giudici a giudicare, avendo dalla legge ampia discrezione per farlo, specie nei reati di violenza.
Il reato che segue nella Promissio parrebbe confutare questa conclusione, in quanto la pena per la violenza carnale viene indicata con chiarezza. La legge stabiliva una pena precisa sia che la vittima fosse una vergine nubile, o semplicemente nubile, sia che fosse una donna sposata o una vedova. Se il reo confessava, o veniva riconosciuto colpevole sulla base di una testimonianza, andava rinchiuso in prigione fino a un massimo di otto giorni, entro i quali doveva pagare una multa pari all'ammontare della dote della vittima; se non lo avesse fatto, avrebbe perduti entrambi gli occhi. Una pena apparentemente severa, che lasciava ai giudici ben poca discrezione, ma di fatto la legge era ben lungi dall'essere rigorosa. La questione chiave era la dote, ed era ancora una volta il giudice a decidere quale dovesse essere il suo valore caso per caso. Ne conseguiva, quindi, che di fatto la violenza carnale veniva punita dai giudici con una multa per l'ammontare da essi ritenuto adeguato. E il codice continuava: "Si vero hec [la violenza> manifesta non fuerit nec probari poterit in discretione sit iuddicum penam eis talem imponere" (12). Poiché accadeva spesso che i giudici, essendo uomini, non fossero certi dell'avvenuta violenza, ancora una volta dunque la legge concedeva loro ampia discrezione nella pratica (13). Una realtà che veniva confermata nel 1331 da una breve correzione della Promissio, attribuita in alcuni manoscritti ad Andrea Dandolo, che istruiva i giudici a punire i rei di violenza carnale in modo da indennizzare tutte le parti coinvolte, comprese le vittime, lo Stato e chiunque altro, nell'opinione del giudice, avesse subito un danno. Sull'ammontare delle indennità, però, la legge taceva, lasciando alla discrezione del giudice l'entità della pena - e anzi, ometteva anche ogni riferimento alla dote della vittima (14).
Riprendendo il tema nell'ultima sezione della Promissio, Tiepolo riassumeva il significato complessivo del codice penale affermando che sarebbe stato impensabile enumerare tutti i reati possibili e prescriverne le pene; per tutti i reati non specificati, o laddove non fosse prevista una pena precisa, la decisione doveva rimanere "in discretione iudicum iuxta maleficii qualitatem" (5). Poiché il codice prendeva in dettagliata considerazione soltanto il furto, l'aggressione, l'omicidio e la violenza carnale, e anche in questi - con l'eccezione del furto - tendeva a lasciare ampia libertà ai giudici, il diritto penale autorizzava di fatto il giudice ad esercitare la propria discrezione invece di attenersi alle prescrizioni legali formalizzate. Fu questo uno dei temi portanti in materia criminale per tutto il corso del rinascimento, evidenziato persino nell'iconografia della giustizia, che veniva spesso rappresentata come una giovane donna con la bilancia in una mano e una spada nell'altra - un'altra versione della nostra spada della giustizia che certamente la gravava di un ulteriore peso simbolico ma, contrariamente a tante altre tradizioni, non era bendata (16). No, a Venezia la giustizia non voleva essere cieca: l'ideale le chiedeva anzi di scrutare da vicino, attraverso gli occhi dei giudici dello Stato, le circostanze particolari di ciascun reato prima di valutare la direzione del taglio necessario al ripristino dell'ordine nella società. Per determinare il giusto taglio non servivano leggi astratte, ma uomini dotati di discernimento - giudici versati in materia politica e sociale - e istituzioni forti ed efficaci che ad essi offrissero la base operativa più autorevole possibile.
E proprio nel campo delle istituzioni e degli uomini si sarebbe verificata nel primo Trecento la vera rivoluzione nella procedura, che fissò il tenore del diritto penale veneziano per tutto il resto del rinascimento. Il primo cambiamento riguardò gli uomini, ed è il cambiamento più noto, e forse più controverso, nella storia di Venezia: la "Serrata" del maggior consiglio. La maggioranza degli studiosi concorda sul contesto legale generale della Serrata, sebbene la legislazione originale non ci sia stata conservata. Furono approvate, soprattutto negli anni 1297-1298, una serie di leggi che in un primo momento riformarono la procedura per l'elezione dei membri del maggior consiglio, per poi procedere rapidamente a trasformarla in un privilegio ereditario. Presentata come l'ennesimo rimaneggiamento legale di una procedura elettorale, di fatto la Serrata avrebbe modificato la natura stessa della vita politica e sociale veneziana.
Iniziate come cambiamento politico, le nuove norme elettorali guadagnarono peso nei primi decenni del secolo XIV, con una legislazione integrativa che esplicitava ciò che comunque era forse già implicito nelle prime leggi: non soltanto l'appartenenza al maggior consiglio sarebbe diventata ereditaria, ma praticamente tutte le cariche governative di rilievo sarebbero state assegnate da quel consiglio, al proprio interno. Quella che in un primo momento era forse apparsa come una mera modifica tecnica della procedura elettorale divenne dunque la rivoluzione strisciante che creò a Venezia una classe politica dominante ereditaria (17). Ma la Serrata fu anche più di questo, poiché quel gruppo dominante ereditario divenne ben presto un ceto sociale legalmente definito: la "nobiltà" veneziana, cui vollero atteggiarsi quegli uomini, pur essendo soprattutto mercanti e investitori piuttosto che nobili nell'accezione medievale del termine.
La discussione sulle conseguenze sociali della Serrata è imperniata sulla rapidità con cui si fece sentire l'impatto di una nobiltà legalmente definita. La posizione più convincente è forse quella che non traccia confini rigidi, sostenendo che anche prima della Serrata alcune delle famiglie più antiche andavano assumendo, o avevano assunto, le arie dell'aristocrazia, e che dopo la Serrata il processo di aristocraticizzazione continuò come nel resto d'Italia per tutto il corso del rinascimento. E ovviamente occorre accettare il fatto che, coll'andare del tempo, alcuni "nobili" perdettero la ricchezza e buona parte del prestigio sociale pur conservando il titolo, creando così divisioni anche all'interno dell'élite legalmente definita. Sta di fatto che anche un'élite sociale e di potere legalmente definita deve proiettare la sua esistenza nel tempo; la Serrata non bastò certo, di per se stessa, a collocare astoricamente questa classe ai vertici della società, né vi fu un momento specifico in cui essa divenne aristocratica. Ma la Serrata comportò comunque, in un periodo di tempo relativamente breve agli inizi del Trecento, una radicale trasformazione nella natura del potere e nella definizione formale della gerarchia sociale a Venezia. Nel Trecento Venezia si distingueva da altre realtà perché la sua nobiltà di mercanti investitori era un gruppo legalmente definito: in primo luogo sul piano politico, dalla Serrata, e quindi su quello sociale, da una legislazione che dopo il fallimento della congiura Querini-Tiepolo del 1310 inquadrava quell'élite politica come nobiltà ereditaria (18). Nel primo Trecento, quindi, si verificò un cambiamento radicale nella qualità degli uomini che reggevano Venezia, che divennero gli esponenti di una classe dominante ereditaria, tendendo col tempo ad assumere una definizione legale e una percezione di sé sempre più aristocratiche.
Per la spada della giustizia ciò significò un profondo cambiamento di entrambe le istituzioni che la brandivano e la riformulazione del significato dei suoi ornamenti al fine di adattarlo alla nuova visione, più aristocratica, del governo e della società. Nel primo Trecento, quando ancora le implicazioni della Serrata non erano evidenti, gli avogadori di comun stavano al centro dell'apparato penale della città. Conducevano le indagini per i più importanti processi penali, e sulla scorta di quelle indagini sceglievano il consiglio o il tribunale competente, di fronte al quale erano di regola loro stessi a presentare il caso. In questo sistema tradizionale la reazione più immediata ai reati veniva dai cinque alla pace e dai signori di notte. I cinque alla pace erano un corpo di sicurezza responsabile, appunto, del mantenimento della pace. Il loro compito consisteva soprattutto nell'amministrare una giustizia sommaria nelle strade, comminando multe di poco conto ai rissosi e ai disturbatori della pubblica quiete, oltre che per il porto d'armi abusivo e le violazioni del coprifuoco. Se le multe non potevano essere riscosse, venivano trasformate in condanne al carcere o al bando. Erano sostenuti, nel far giustizia sommaria, da un gruppetto di "custodi" che operavano alle dipendenze di ciascuno dei cinque membri del consiglio (19). I signori di notte costituivano, almeno teoricamente, un corpo di tutori dell'ordine più potente. Anch'essi provvedevano alla giustizia sommaria nelle strade, ma si occupavano anche dell'arresto e della detenzione, di loro iniziativa o per ordine del doge, di ladri, violentatori, fornicatori e altri malfattori che minacciassero l'ordine nel comune. Per svolgere queste funzioni di polizia disponevano anch'essi di un corpo di agenti armati che pattugliava le strade. Insieme, dunque, signori di notte e cinque alla pace erano il momento portante dell'apparato di pubblica sicurezza. Operavano sulla base di un'imponente serie di leggi (in genere parti approvate dal maggior consiglio) che in teoria dovevano aiutarli a tenere sotto controllo le strade. Soggette costantemente a piccole modifiche, queste leggi si preoccupavano soprattutto di limitare il porto scoperto o nascosto di armi - la definizione legale di ciò che era un coltello da cucina occupò da sola ore e ore di dibattito legislativo, e ci volle la saggezza di Salomone per deciderlo - e dell'imposizione del coprifuoco. Più avanti altre questioni, come i discorsi in pubblico, l'entità e l'abbigliamento dei "bravi" al seguito dei potenti, le dimensioni degli assembramenti in genere, e di quelli che avvenivano in luoghi particolari, avrebbero ottenuto maggiore attenzione. La chiave di tutto era comunque data dalle leggi che questi tutori dell'ordine decidevano di applicare, perché anche la migliore delle leggi, se non applicata, poteva avere ben poco effetto sulla sicurezza delle strade della città (20).
I signori di notte avevano però un'altra serie di responsabilità che ne facevano un organismo di maggiore peso. Non si limitavano a pattugliare le strade, ma si occupavano anche, come gli avogadori, di istruire i processi per determinati reati penali. Nel Trecento la loro competenza penale comprendeva i furti, alcuni tipi di omicidio (per intendersi, non quelli razionalmente progettati, ma quelli passionali (21) e la sodomia. Una volta istruito il caso, lo portavano di fronte ai giudici del proprio, uno dei più autorevoli tribunali di Venezia che oltre alla giurisdizione penale esercitava, come implica il nome, anche quella civile. Era essenzialmente questo l'apparato burocratico statale interessato al diritto e alla giustizia penale. Mentre in altre città nell'Italia settentrionale del tardo medioevo la giustizia, e quella penale soprattutto, era amministrata da un funzionario straniero, in genere un podestà, a Venezia era invece controllata dai potenti locali, in collaborazione con la burocrazia permanente. Altre città, nel corso del rinascimento, si sarebbero lentamente avviate lungo la stessa strada, ma come in tanti altri settori, anche nel controllo della criminalità Venezia fu all'avanguardia.
In questo sistema tradizionale assumeva la massima importanza anche il modo in cui venivano condotti i processi. La teoria prevedeva un armonico insieme di garanzie burocratiche per assicurare il rispetto della giustizia e la dovuta attenzione alle singole circostanze di ciascun caso. Nei processi di quarantia o dei giudici del proprio il caso seguiva un iter in sei tappe, a cominciare dalla denuncia, che poteva venire da un individuo (e in questo caso la legge la voleva firmata) o da un altro organismo di governo, in genere uno dei consigli addetti alla sicurezza. Il passo successivo era dato dalla raccolta di testimonianze e prove che costituissero la base dell'istruttoria presentata dagli avogadori o dai signori di notte: l'"intromissione". A questa seguiva il "placitare", l'esposizione del caso di fronte alla corte. In questa fase si consentiva anche all'imputato di presentare una difesa, e alcune parti promettevano persino l'assistenza legale a chi non poteva permettersi di pagare una consulenza per la sua preparazione. Si arrivava così al momento del voto, che in genere condizionava l'emissione del verdetto al conseguimento di una certa maggioranza. Per il diritto penale, e per la nostra spada della giustizia, le ultime due fasi assumevano rilevanza cruciale. Si cominciava con la proposta della pena: di fronte alla quarantia la proponevano quasi sempre gli avogadori, e spesso la proposta si atteneva a quanto previsto dalla legge, o in assenza di una legge specifica a quanto suggerito dalla consuetudine. È però significativo che anche altri, all'interno della quarantia, potessero proporre la pena, compresi il doge o i consiglieri ducali, che ne facevano parte. Come non è difficile immaginare, le proposte di questi funzionari erano dettate da una vasta gamma di motivazioni molto difficili da identificare; una cosa è comunque chiara: spesso si trattava della risposta a considerazioni di carattere politico o sociale (22). Di conseguenza, come abbiamo già osservato, la giustizia veneziana non era cieca. Alla valutazione attenta del reato contribuiva anche, com'è ovvio, la fase finale del processo, l'approvazione della pena. È significativo che ben di rado la pena proposta dagli avogadori ottenesse la maggioranza dei voti in quarantia, che andavano di regola alla pena sostenuta dai partecipanti più potenti. Dietro al diritto, ai consigli e alla loro procedura formale rimaneva dunque ampio spazio per consentire agli uomini di potere di assicurarsi che la giustizia servisse, invece di essere servita (23). Di fatto, il diritto penale aveva ben poco a che fare con questo mondo.
Con tutte le sue fasi, la procedura era comunque alquanto lenta e farraginosa, e almeno in teoria non era priva di garanzie per gli imputati. E inoltre, i processi discussi in quarantia, date le dimensioni del consiglio, erano relativamente pubblici, e potenzialmente potevano sfuggire di mano quando nascevano divergenze all'interno del gruppo che lo costituiva. Nel periodo di tensioni che seguì la Serrata queste carenze apparvero tanto più gravi, e rappresentarono forse il motivo immediato di un profondo cambiamento strutturale che avrebbe modificato alla base la natura della giustizia penale a Venezia. Il processo fu avviato dalla congiura Querini-Tiepolo del 1310. Per reagire alla fallita insurrezione di alcune tra le famiglie più importanti della città, sostenute - o almeno così si temeva - da una parte considerevole del popolo, la classe dirigente creò ad hoc un comitato temporaneo costituito da dieci tra gli uomini più potenti per coordinare la punizione dei ribelli e riportare ordine nella città. Il ricorso a questi comitati temporanei di personaggi autorevoli, detti sapientes, per far fronte a tutti i diversi aspetti di un problema specifico non era affatto inconsueto, e tale sarebbe rimasto per tutto il corso del rinascimento. E non era del tutto inconsueto nemmeno il fatto che il maggior consiglio avesse conferito a quel gruppo il potere di intervenire in tutto quanto riguardava il ripristino dell'ordine o il rischio di una congiura con la stessa autorità del maggior consiglio medesimo, legiferando e agendo come massimo organismo di governo. Inconsueto fu invece che quell'organo di sapientes non cessasse di esistere nel momento in cui il problema specifico per il quale era stato creato - la congiura Querini-Tiepolo - fu risolto. Integrato in precedenza dalla presenza del doge, dei consiglieri ducali, dei tre capi della quarantia e di uno degli avogadori di comun, quell'organismo divenne il famoso e temuto consiglio dei dieci. I dieci non rinunciarono mai ai poteri ottenuti in origine dal maggior consiglio, e dunque agirono sempre con tutta l'autorità legislativa e decisionale del governo per tenere sotto controllo ogni forma di disordine sociale che considerassero una minaccia per lo Stato. Fin dall'inizio intesero questi poteri nel senso più ampio, intervenendo, al fine di evitare le fazioni e le congiure, in materia di libertà di parola, di assemblea e di associazione (24). Nel Trecento furono particolarmente attivi nella repressione dei reati di parola in generale, non soltanto di quelli associati a una potenziale congiura. E riuscirono anche a soffocare sul nascere diverse cospirazioni, compreso il noto tentativo del doge Marino Falier, nel 1355, di rovesciare l'ordine creato dalla Serrata per imporsi come tiranno. Come si sa, i dieci decisero la sua sorte nel modo più efficiente e riservato, facendolo decapitare in forma privata la notte stessa della sua cattura - Falier poteva forse lamentare che la spada che gli mozzò il capo non fosse adeguatamente ornata per una Chiesa militante, ma proprio per questo il suo filo si dimostrò tanto più tagliente.
Di fatto, in questo consisteva una delle armi più potenti del consiglio dei dieci: agendo senza tener conto dei normali rituali della giustizia, poteva intervenire in modo rapido e decisivo anche quando gli obiettivi dell'élite politica non raccoglievano adesioni diffuse. La giustizia veneziana ne derivava la flessibilità necessaria per la tutela di un'élite legalmente definita quale quella espressa dalla Serrata. La giustizia poteva essere letteralmente misurata: laddove la punizione di un criminale pareva promettere consenso, la spada del doge poteva colpire con tutti gli ornamenti del simbolismo morale offerto dalle esecuzioni o dalle mutilazioni pubbliche, o quantomeno la giustizia poteva essere servita con procedure pubbliche e burocratizzate nei casi in cui si richiedevano pene più moderate. Ma se pareva necessaria un'azione rapida e impopolare, come l'esecuzione di un potente doge o il bando di qualcuno che avesse alzato la voce contro la classe dominante, c'era pronta l'alternativa dei dieci.
La potenza di quell'alternativa risulterà ancora più chiara da un rapido esame della procedura dei dieci in materia penale. Essa seguiva fondamentalmente un iter a sei tappe analogo a quello della quarantia: denuncia, indagine, discussione formale del caso, votazione sulla reità, proposta della pena, approvazione della pena. Ma nella pratica c'erano parecchie differenze sostanziali. In primo luogo, i dieci trattavano tutto al proprio interno, senza dover riferire a un altro consiglio come invece gli avogadori con la quarantia e i signori di notte con i giudici del proprio: tutte le loro decisioni erano quindi riservate e segrete. In secondo luogo, le procedure investigative erano estremamente flessibili, e spesso venivano definite dal consiglio nel corso del singolo procedimento stesso. L'imputato aveva dunque ben poche garanzie legali, e quelle che pure esistevano in teoria potevano essere arbitrariamente cancellate. Questo significava anche che i dieci potevano intervenire con tutta la rapidità che ritenevano imposta dalla natura del caso. Infine, i dieci pretendevano che non vi fosse appello alle loro decisioni riguardo alle pene. Di regola il maggior consiglio, in quanto fonte di ogni autorità legale, poteva riesaminare qualsiasi processo; ma i dieci dichiaravano di agire in nome proprio del maggior consiglio, dunque il ricorso in appello sarebbe stato pleonastico, e lesivo dei pieni poteri che il consiglio si arrogava.
Nonostante i grandi poteri potenziali, all'inizio i dieci non erano che un elemento della già descritta burocrazia rivolta al controllo della criminalità e all'organizzazione di un ambiente urbano ordinato. Quando però si dotarono di servizi di polizia e spionaggio propri, i dieci fecero un decisivo passo avanti verso la realizzazione dei loro poteri potenziali, essendo a quel punto in grado di scavalcare completamente l'antico sistema dominato dagli avogadori e dai signori di notte. Disponendo direttamente dei poteri di polizia, il consiglio poteva procedere contro qualsiasi "reato" considerasse degno della propria attenzione, dall'arresto alla punizione, senza alcuna forma di controllo esterno. Il 10 agosto 1319 i dieci approvarono la creazione di un servizio di sicurezza proprio, i capi di sestiere, costituito da un capo nobile per ciascuno dei sei sestieri della città, sostenuto da un numero variabile di "custodi" non nobili. In realtà un servizio di pattugliamento con quello stesso nome era già stato sperimentato prima della creazione dei dieci, ma non era durato a lungo. Dopo qualche iniziale difficoltà nell'individuare nobili disponibili ad assumersi il difficile e relativamente poco redditizio compito del pattugliamento, negli anni Trenta l'organismo assunse caratteristiche permanenti. I dieci posero poi alle dipendenze dei capi di sestiere i capi di contrada (guardie di vicinato), e sempre a livello di vicinato le duodenas, unità di milizia locale costituite da dodici uomini. Non si sa bene quanto queste unità locali fossero organizzate ed efficaci, ma almeno in teoria i dieci si erano dotati di una forza di polizia che copriva l'intera città, penetrando a fondo nelle diverse realtà locali (25).
È probabile che questo apparato non fosse diffuso come sembrerebbe, ma rimane il fatto che l'estrema potenza dei dieci veniva esercitata in tanti modi che minavano sostanzialmente il vecchio modo di fare giustizia: il consiglio dei dieci si affermò quindi rapidamente come il singolo organismo che dava il tono all'intero sistema. Esisteva indubbiamente un terreno predisposto alla competizione tra le forme più antiche e le nuove, e in diverse occasioni la competizione si verificò, ma in tempi normali i dieci si potevano porre al vertice di un sistema di giustizia penale raffinatamente diversificato, che anche in assenza di un codice aggiornato o di una precisa consapevolezza delle esigenze della legislazione penale era in grado di rispondere ai singoli casi con una sensibilità sociale, politica e personale affatto unica. La prima ragione di tanto prestigio era data ancora una volta dalla qualità degli uomini che sedevano nel consiglio, sia come membri elettivi che d'ufficio. Fin dal primo momento furono esponenti delle migliori famiglie veneziane e già dalla fine del secolo è evidente la rotazione di un ristretto numero di grandi personaggi - provenienti da una ventina circa tra le più potenti famiglie patrizie della città - nelle cariche di consigliere ducale, avogadore di comun, capo di quarantia e membro dei dieci, che davano accesso automatico al consiglio (26). La presenza di quegli uomini di potere rendeva i dieci ancor più autorevoli di quanto non indicherebbero le loro pattuglie di polizia e l'efficienza e la relativa arbitrarietà delle loro procedure. La polizia e le procedure fornivano al consiglio gli strumenti del potere; ma il potere stesso gli derivava dagli uomini che lo componevano. La rivoluzione dei dieci nel primo rinascimento fu dunque silenziosa, e la loro evoluzione nel corso del Trecento fu in buona parte ignorata dai cronisti contemporanei. Ma i dieci avevano offerto alla spada della giustizia ben altra efficienza e precisione di taglio, soprattutto nei casi ritenuti lesivi della recente ridefinizione della nobiltà dominante.
Per tutto il Trecento risulta evidente che l'apparato della giustizia penale badava assai più alla tutela di un ambiente urbano ordinato e stabile attraverso un investimento moderato nelle sanzioni, che non alla creazione di un clima di terrore repressivo. Esistevano pene e procedure chiaramente mirate a incutere terrore, ma a conti fatti parrebbe che persino queste venissero usate con moderazione. Nella gestione quotidiana le punizioni comminate per i reati penali erano meno gravi di quelle richieste dalla legge, molto meno gravi di quanto noi moderni potremmo supporre e meno gravi persino di quanto sarebbero state più avanti, nel rinascimento e agli inizi dell'evo moderno.
La moderazione dell'investimento nelle sanzioni non risulterà strana in una società dominata da mercanti e investitori. Questi uomini erano capaci di controllare con successo il loro mondo grazie al calcolo razionale degli investimenti; era logico che trasferissero quelle tecniche a tutti i settori che richiedevano un controllo oculato. Come avrebbe osservato a suo tempo Machiavelli, chi ha ottenuto il successo agendo in un determinato modo fatica ad adattarsi al mutare dei tempi perché tende ad essere incapace di modificare la sua impostazione - per buona sorte della nobiltà veneziana, comunque, l'investimento moderato nelle sanzioni risultò abbastanza adeguato ai tempi e Venezia si conquistò una reputazione di città relativamente pacifica e stabile. La moderazione delle sanzioni, ovviamente, non escludeva del tutto certe pene di estrema violenza, ma di norma anche in questi casi la pena veniva accuratamente commisurata al reato, alla posizione del reo e della vittima e persino alla potenziale reazione della folla alla violenza esercitata dallo Stato nel momento particolare.
Nel Trecento, quindi, la punizione dei reati descriveva una curva discendente che da una miriade di multe e condanne "leggere" al carcere, passando per le punizioni corporali "leggere" come la fustigazione, arrivava alle mutilazioni, alle esecuzioni semplici, a quelle rituali più complesse. A queste pene si affiancava un diffuso ricorso al bando, in genere per un certo numero di anni stabilito dalla corte sulla base della gravità del reato. Il bando veniva utilizzato in due modi: in primo luogo per chi era fuggito prima del processo, e veniva bandito in absentia (di solito veniva prevista un'altra forma di pena in caso di cattura); in secondo luogo, come elemento di una sanzione più ampia che comprendeva una multa o una condanna al carcere. L'aspetto più interessante del sistema delle pene nel Trecento è l'apparente sostituzione del carcere e delle multe alla punizione corporale come forme principali di sanzione per i reati. Sembrerebbe per di più che in questo periodo le condanne al carcere tendessero a sostituire anche le pene pecuniarie; potremmo forse asserire perfino che per molti reati il Duecento vide sostituire le pene corporali con le multe, mentre il Trecento rimpiazzò le multe con il carcere. La grande incidenza delle condanne al carcere nella punizione dei reati del tardo medioevo è stata in buona parte trascurata dagli storici della criminalità e del diritto penale, convinti come sono che il ricorso al carcere come punizione sia un prodotto del mondo moderno. Risulta invece che nel primo rinascimento le condanne al carcere fossero molto diffuse (a Venezia forse più che in altre città), per poi cadere in disuso a favore della condanna al remo in galera, del bando o del ripristino delle punizioni corporali nel tardo rinascimento (27).
A prima vista quello che fu forse uno dei principali motivi per il passaggio alle condanne al carcere nella Venezia del Trecento potrebbe apparire paradossale: la loro maggiore frequenza era mirata a ridurre la popolazione carceraria. Di fatto, però, la sua logica era stringente: le sanzioni pecuniarie tendevano a sovraffollare le carceri perché chi non aveva denaro veniva incarcerato fino all'avvenuto pagamento. Di conseguenza le carceri erano stracolme di prigionieri di ceto inferiore che non riuscivano a raccogliere il necessario per pagare le sanzioni. Nella tradizione il problema era stato tenuto sotto controllo attraverso il meccanismo della grazia, che consentiva la rettifica dei decreti governativi o delle decisioni dei tribunali con la concessione di privilegi speciali o riduzioni di pena. Ma la procedura della grazia era complessa e oberata da vincoli legali e, almeno in teoria, aveva tempi troppo lunghi (28). Il sovraffollamento delle carceri costrinse comunque il governo veneziano a farne ampio uso, sostituendo alle sanzioni pecuniarie delle condanne alla reclusione pari a quelle di fatto già scontate. Nel corso del Trecento la procedura della grazia sfornò più di 18.000 rettifiche di condanne penali (un'ulteriore attestazione dello scarso apporto del diritto penale alla definizione delle pene), in buona parte dirette a liberare gente incarcerata per non aver pagato le multe imposte dai tribunali. Poiché le cose stavano in questi termini, divenne evidente che era più semplice infliggere ai rei meno abbienti condanne alla reclusione per qualche mese, invece di tenerli in carcere a tempo indefinito in attesa della procedura di grazia. In una certa misura, quindi, la scelta tra l'incarcerazione e la sanzione pecuniaria veniva imposta da considerazioni sociali ed economiche, in quanto dipendeva dalla solvibilità del reo; le statistiche dimostrano dunque che nel Trecento le classi superiori venivano in genere multate, mentre quelle inferiori venivano condannate più frequentemente al carcere. Questa sensibilità sociale della giustizia la rendeva ben più redditizia, in quanto il costo della reclusione prolungata di un poveraccio superava di gran lunga il potenziale profitto che poteva venire dalla riscossione della multa in un futuro indefinito, e inoltre il peso della giustizia diveniva assai meno oneroso per il ceto sociale più potente. Non esisteva livello, nel Trecento, in cui la giustizia penale accettasse la benda sugli occhi.
Per i reati più gravi, soprattutto l'omicidio e il furto, ma anche la sodomia e il falso monetario, le pene erano assai più severe. Per i 427 casi di omicidio dei quali conserviamo una documentazione processuale nel periodo 1324-1406, ad esempio, si registrano 319 condanne così ripartite: 42 condanne al carcere; 18 sanzioni pecuniarie; 39 condanne al bando (ma i banditi furono di più, contando coloro che erano fuggiti dalla città per evitare la pena cui temevano di essere condannati); 220 pene corporali o capitali. Va rilevato che la somma delle condanne non corrisponde al totale dei casi, in quanto in qualche caso fu comminata più di una forma di pena - una sanzione pecuniaria insieme con una condanna al carcere o una pena corporale, ad esempio. Com'è prevedibile, le punizioni corporali per l'omicidio erano in genere severe: 72 mutilazioni, 75 esecuzioni semplici e 70 esecuzioni rituali complesse.
Il furto seguiva più o meno lo schema dell'omicidio, mentre i reati meno perseguiti (nel Trecento, quantomeno) di sodomia e falso monetario venivano puniti rispettivamente col rogo e la decapitazione. La pena capitale, distinta com'era in esecuzione semplice e esecuzione rituale, ci riporta però alla "spada della giustizia ornata, per una Chiesa militante"; insistendo troppo sulla razionalità e sul senso della misura nella punizione dei reati nel Trecento si rischia infatti di dimenticare che la giustizia penale aveva anche un'altra dimensione di grande rilievo. Non era mai mera punizione. Per molti versi si era evoluta partendo da un sistema personalistico e semifeudale basato sull'onore e sulla vendetta, facendo contemporaneamente riferimento a un ideale morale e religioso della società organizzata. Doveva esserci vendetta pubblica, quindi, se si voleva evitare quella privata, e spesso lo Stato doveva amministrare la giustizia proponendosi come una Chiesa militante. L'esempio più efficace di queste "valenze ulteriori" (nella prospettiva moderna) della giustizia è forse dato dalle esecuzioni rituali.
Erano questi momenti gravidi del simbolismo di uno Stato che in larga misura giustificava la propria esistenza nel presupposto di saper offrire un riparo pacifico e sicuro dalla violenza del mondo, costruito com'era - come aveva sottolineato il doge Andrea Dandolo nella sua cronaca - sulle spoglie di san Marco. A questi era stato promesso che nella futura grande città di Venezia le sue spoglie avrebbero trovato la pace, "Pax tibi Marce", e quella promessa imponeva a Venezia un ideale fondato su una sorta di moralità civile costruita e difesa dallo Stato in parte attraverso la legge, in parte attraverso la giustizia e in parte attraverso le consuetudini e le tradizioni della città. Jacopo Bertaldo, cancelliere veneziano, sul finire del Trecento forniva una sottile descrizione dell'armonica fusione di questi diversi aspetti della giustizia veneziana nel suo peana sulla liturgia civile dello Stato, Splendor venetorum civitatis consuetudinum (29). Il doge, capo simbolico e reale dello Stato, doveva presentarsi nel cerimoniale pubblico come incarnazione del costume e della consuetudine, "ut doceantur boni" al popolo. Per questo doveva sfoggiare davanti al popolo "mayestas glorie ducalis in apparatu et ornamento precioso et splendido sue persone" (30).
Ma per manifestare lo splendore della consuetudine veneziana non bastava lo splendore del doge. Alla sua destra, dunque, doveva stare sempre uno dei giudici del proprio, rappresentante di quel giudizio che il governo prometteva al popolo, e "ipsi doceantur declinare a malo et sibi cavere de faciendo malum, terrori iudicii spaventati" (31). Secondo Bertaldo, quindi, il giudice comunicava un insegnamento di moralità militante: la moralità richiesta a tutti per poter vivere in pace come membri del popolo di Venezia; la moralità civile, fondata su san Marco e su una sorta di destino teologico della città, che forniva allo Stato la logica portante della sua stessa esistenza, e dell'uso del potere nella giustizia penale e più in generale. E naturalmente, subito dietro al giudice si ergeva la spada della giustizia del doge, "ensis sive spata domini ducis [...> ut doceantur de vindictia potencia et fortitudinis ducalis ad penas iudicantes incisione membrorum graviter infligendas" (32). La spada della giustizia era il degno coronamento della lezione cerimoniale di Bertaldo sullo splendore della consuetudine veneziana, in quanto era essa la garanzia ultima non soltanto della giustizia, ma della moralità civile - i "membra" dei rei sarebbero stati letteralmente amputati "ad penas iudicantes", consentendo sia a san Marco che al suo popolo eletto di godere della "Pax" promessa. Questo insegnava la spada ornata per una Chiesa militante, e questo, se necessario, era capace di realizzare.
Le esecuzioni rituali aggiungevano alla lezione cerimoniale di Bertaldo una certa dose di violenza, ma forse anche per questo le attribuivano ben altro peso. In un certo senso potremmo dire che erano la dimostrazione pratica della lezione che il normale cerimoniale pubblico del doge accompagnato dal giudice e dalla spada della giustizia si limitava ad enunciare. Una tipica esecuzione rituale concluse il processo per l'omicidio di Richa da Treviso per mano del marito Giovanni. Quest'ultimo aveva ucciso la moglie non in un momento di ira per qualche lite in famiglia, come spesso si dava invece in questi casi. Il suo delitto era stato un gesto pianificato a sangue freddo per sbarazzarsi della moglie: una notte, mentre tutti dormivano, l'aveva strappata dal letto e l'aveva gettata in un canale, rimanendo a guardare impassibile mentre lei implorava pietà.
La quarantia decise una pena capace di esprimere tutta la disapprovazione dello Stato e, dobbiamo presumere, della comunità. Ammazzare un familiare in un impeto di passione era un conto, ma uccidere la moglie a sangue freddo, a quanto pare per poter fuggire con un'altra donna, pareva un'aggressione alla base stessa della società, la famiglia. La morte di Giovanni aveva tutto il potenziale per costituire più che un atto di repressione, più che una mera punizione: poteva diventare una lezione sullo scopo stesso dello Stato. La quarantia ordinò quindi che il condannato venisse portato in barca lungo il Canal Grande, e ancora più in là, fino agli estremi limiti di Venezia, mentre un araldo del comune proclamava il suo delitto e la pena decisa per punirlo. Poi sarebbe stato riportato sulla scena del delitto, alla Giudecca, mentre l'araldo continuava il suo canto di delitto e castigo. Qui la spada della giustizia avrebbe amputato la sua mano destra, il membro reo, che gli sarebbe stata appesa al collo con una catena; inutile dire che l'araldo del comune avrebbe continuato a snocciolare la sua litania della colpa anche durante l'amputazione, un po' come il coro di una tragedia greca, per sottolineare il significato delle azioni cui assisteva il pubblico accorso a vedere la processione di Giovanni attraverso i canali e le vie della città. Infine Giovanni sarebbe ritornato nel cuore stesso di Venezia, nella piazzetta San Marco, dove la terra incontrava il mare, dove il palazzo del doge e la chiesa di San Marco, adornati con le spoglie di tante guerre e spedizioni commerciali, regnavano insieme sulla città; qui, tra le due colonne della giustizia, l'avrebbero impiccato con la catena cui era stata appesa la mano amputata, mentre l'araldo continuava a recitare la sua colpa. Un'esecuzione rituale gravida di promesse: liberare la società dai membri che l'offendevano; fare vendetta pubblica, non privata; riaffermare uno dei più fondamentali valori comuni dello Stato, l'idea di Venezia come riparo e rifugio dalla violenza del mondo. Giovanni, con la sua morte, fu un esempio perfetto della natura della giustizia penale nel Trecento veneziano. Il diritto formale ebbe ben poco a che fare con la sua sorte; quella violenta esecuzione rituale fu invece un momento programmato di vendetta pubblica, fondato sulla valutazione che i giudici avevano dato di un particolare delitto. E anche Giovanni, come coloro che assistevano alla sua esecuzione, ebbe modo alla fine di constatare che nel Trecento la giustizia penale veneziana era davvero "una spada ornata, per una Chiesa militante".
Traduzione di Ernesto Garino
1. "[...> Papa ensem splendide ornatum tanquam ecclesie pugili dedit, quem Venecie duces secum portari de cetero faciant". Andrea Dandolo; Chronica per extensum descripta a. 46-1280 d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, p. 263. Ringrazio Allen Ward, che mi ha aiutato a comprendere il significato più profondo di questo testo.
2. Jacopo Bertaldo, Splendor venetorum civitatis consuetudinum, a cura di Francesco Schupfer, in Bibliotheca Juridica Medii Aevii, III, Bononiae 1901, p. 105. "Tercio, ostenditur ensis sive spata domini ducis, que post eum aportatur, ut doceantur de vindicta potencie et fortitudinis ducalis ad penas iudicantis incisione membrorum graviter infligendus". Un'analisi della storia e del simbolismo della spada della giustizia è in Edward Muir, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton 1981 (trad. it. Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984, pp. 113-114; sulla forma successivamente assunta dalle processioni ducali, ibid., pp. 189-211).
3. Gaetano Cozzi, riprendendo e approfondendo il lavoro di Enrico Besta, osserva che il diritto romano, sebbene formalmente rifiutato dalle autorità veneziane, aveva comunque un certo rilievo nella procedura legale. A questo proposito cf. Gaetano Cozzi, Il diritto nella politica del Comune Veneciarum, in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta, a cura di Id., Roma 1980, p. 23 e soprattutto n. 12 (pp. 21-30). V. anche Guido Ruggiero, Excuseable Murder: Insanity, Reason and Community in Renaissance Venice, "Journal of Social History", 16, 1982, pp. 109-119. Un inquadramento generale di questi problemi è in Lamberto Pansolli, La gerarchia delle fonti di diritto nella legislazione medievale veneziana, Milano 1970.
4. La Promissio fu posta in appendice al codice legale generale attribuito al doge Tiepolo. Quest'ultimo è stato pubblicato a cura di Roberto Cessi, Gli statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242 e le loro glosse, "Memorie del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 30, 1938, nr. 2, pp. XVI-232, escludendo però la Promissio. Nonostante esistesse un'edizione settecentesca, ho fatto riferimento a una versione manoscritta conservata presso Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. cl. V. 137 (= 10453). Un esame della pratica in epoca successiva è in Lorenzo Priori, Pratica criminale secondo le leggi della Serenissima Repubblica di Venezia, Venezia 1738.
5. Nel numero dei consigli più autorevoli, l'avogaria era anche tra quelli dal funzionamento più complesso, e tra i più potenti in materia penale nella Venezia del primo rinascimento. Molto in sintesi, diversamente da altri consigli non disponeva di poteri giudiziari o legislativi, ma nella vicenda evolutiva del governo veneziano questa apparente incapacità fu compensata da un inconsueto accumulo di autorità nel campo dell'interpretazione e dell'applicazione del diritto. Come si è già detto, momento centrale di questo potere era che agli avogadori fossero affidate la raccolta e l'edizione in una serie di registri della più importante legislazione del comune. Al consiglio spettava inoltre il compito di garantire che la legislazione venisse di fatto seguita e applicata, col potere di sottoporre a inchiesta e multare chi non vi si conformava. Gli avogadori presenziavano poi alle assemblee di tutti i maggiori consigli di governo, per garantire il rispetto delle regole e delle procedure previste dalla legislazione esistente, registrata, appunto, a cura degli avogadori stessi. Questi poteri, insieme con la funzione di pubblici accusatori, davano loro grande autorità, perché in un certo senso l'avogaria controllava e applicava la memoria legale collettiva della città. Di fatto, comunque, tendevano ad autolimitarsi nell'uso dei loro vasti poteri, adattandoli in genere alla situazione politica del particolare momento. Un'analisi più dettagliata è in Guido Ruggiero, Patrizi e malfattori. La violenza a Venezia nel primo Rinascimento, Bologna 1982, pp. 51-66.
6. Le sezioni più antiche del capitolare giudiziario sono state pubblicate da Melchiorre Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane e i loro capitolari fino al 1300, I-III, Padova - Venezia 1906-1911 (Monumenti Storici pubblicati dalla R. Deputazione Veneta di Storia Patria, ser. II, Statuti).
7. Un'ampia discussione statistica di questo problema è in G. Ruggiero, Patrizi, pp. 100-119.
8. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. cl. V. 137 (= 10453), c. 78v.
9. Ibid., cc. 78v-79v.
10. Ibid., c. 79v.
11. Ibid., c. 80.
12. Ibid., c. 82.
13. A questo proposito, cf. Guido Ruggiero, The Boundaries of Eros: Sex Crime and Sexuality in Renaissance Venice, New York 1985, pp. 89- 108 (trad. it. I confini dell'Eros, Venezia 1988).
14. "Quod puniatur per ipsa consilia vel maiorem partem eorum in persona et in havere tam in satisfaciendo mulieri quam comuni quam etiam quibuscumque iniuria pertinebitis" (Venezia, Biblioteca Nazionale Marcianti, ms. lat. cl. V. 137 [= 10453>, c. 83v). Un esempio della tradizione che attribuisce questa correzione ad Andrea Dandolo è in un manoscritto conservato in Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, cl. IV, cod. 2H.7, c. 11.
15. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. cl. V. 137 (= 10453), c. 82.
16. Sulla rappresentazione della giustizia a Venezia, cf. Michelangelo Muraro, Venezia: interpretazione del Palazzo Ducale, "Studi Urbinati di Storia, Filosofia e Letteratura", 45, 1971, pp. 1160-1175.
17. È stato rilevato, in particolare da Frederic C. Lane riprendendo Roberto Cessi, che, di fatto, all'epoca ben poco cambiò: prima della Serrata la città era retta a tutti gli effetti da un'élite di mercanti investitori, e l'élite politica ereditaria che avrebbe poi costituito il maggior consiglio corrispondeva in buona misura al gruppo precendente. Dal punto di vista della prosopografia questo può essere vero, ma è importante sottolineare che una classe dominante chiusa è altra cosa da una teoricamente aperta, anche quando gli individui, o più precisamente le famiglie, che le compongono sono gli stessi. Sul piano più generale, cambia radicalmente la percezione di problemi più vasti come il modo di governare e il modo di legittimare e tutelare quel governo. Ma la questione essenziale fu la drastica trasformazione delle dinamiche di potere visibili del governo, cui corrispose una reazione marcatamente diversa. Il radicale cambiamento della procedura penale che ci accingiamo a descrivere non è che un aspetto di quella trasformazione. Per la posizione di Lane, v. The Enlargement of the Great Council of Venice, in Florilegium Historiale: Essays Presented to Wallace K. Ferguson, a cura di John G. Rowe-W.H. Stockdale, Toronto 1971, P. 237 (pp. 236-274).
18. A.S.V., Maggior Consiglio, Presbyter, c. 20v (17 giugno 1310). Nel bandire i cospiratori il maggior consiglio indicava chiaramente quale fosse la distinzione legale che separava la nobiltà dal resto della società veneziana. "Primo quod ipsi Baiamonte [Tiepolo> et predicti sui seguaces et participes debeant de presenti exire Veneciis et districtum [...>. Reliqui vero nobiles, qui erant de maiori consilio vel esse poterant, debeant ire et stare ad confines [...>. Ceteri vero, qui non erant de maiori consilio nec esse poterant, si venerint ad mercedem dominis ducis [...>". Un'analisi più dettagliata del dibattito intorno alla Serrata è in Guido Ruggiero, Modernization and the Mythic State in Early Renaissance Venice: the Serrata Revisited, "Viator, Medieval and Renaissance Studies", 10, 1979, pp. 245-256.
19. Purtroppo non ci sono conservati archivi dei cinque relativi a questo periodo; è comunque evidente che lavoravano sodo, poiché i registri delle Grazie, le rettifiche alle pene concesse dal maggior consiglio e a volte anche da altre magistrature, documentano migliaia di riduzioni di multe da essi inflitte. A.S.V., Cassiere della Bolla Ducale, Grazie del Maggior Consiglio, regg. 3-18 per il secolo XIV.
20. Il continuo rimaneggiamento dei premi concessi ai custodi indica peraltro che il governo sentiva l'esigenza di incentivarli a compiere il loro dovere. D'altra parte i gravi casi di violenza di cui di tanto in tanto essi cadono vittime dimostrano che pattugliavano davvero le strade, e che a volte venivano aggrediti per aver tentato di imporre la legge. A questo proposito, v. G. Ruggiero, Patrizi, pp. 290-294.
21. Sulla distinzione tra le forme di omicidio, ibid., pp. 345-367.
22. Una ripartizione statistica delle pene da cui risulta quanto fossero determinate dalla posizione sociale, e alcuni casi distinti in cui parrebbe che gli interessi politici avessero un ruolo rilevante, sono ibid., pp. 147-251.
23. Un'analisi più dettagliata della procedura giudiziaria degli avogadori è ibid., pp. 53-66.
24. Ibid., pp. 30-35.
25. Ibid., pp. 79-82 e 35-39.
26. A questo proposito, cf. Guido Ruggiero, The Ten: Control of Violence and Social Disorder in Early Renaissance Venice, tesi di Ph.D., University of California, Los Angeles, 1972, pp. 247-252. Nel periodo 1310-1407, il 43% dei membri conosciuti dei dieci provenivano da sole quindici famiglie, e le dieci famiglie dominanti occupavano più di un terzo di tutte le cariche.
27. A questo proposito, e su quanto segue, si veda l'analisi più dettagliata in Guido Ruggiero, Law and Punishment in Early Renaissance Venice, "The Journal of Criminal Law and Criminology", 69, 1978, pp. 243-256.
28. Id., Patrizi, p. 104 n. 19. Sulla questione della grazia, si veda anche Dennis Romano, "Quod sibi fiat gratia": Adjustment of Penalties and the Exercise of Influence in Early Renaissance Venice, "The Journal of Medieval and Renaissance Studies", 13, 1983, nr. 2, pp. 251-268.
29. J. Bertaldo, Splendor. È degno di nota che quest'opera sulla giustizia veneziana non guardi tanto al diritto quanto alla consuetudine. Di fatto, come la Promissio di Tiepolo, ribadisce che la punizione del reato rimane in larga misura alla discrezione del giudice.
30. J. Bertaldo, Splendor, p. 104.
31. Ibid., pp. 104-105.
32. Ibid., p. 105.