Politica e società negli Stati Uniti
Quando il Novecento, spesso detto il ‘secolo americano’, si è chiuso, gli Stati Uniti, rimasti l’unica superpotenza dopo la vittoria nella guerra fredda, possedevano un’incontrastata superiorità economica, politica, militare e culturale e godevano di una prosperità diffusa grazie a quasi un decennio di rapida crescita. Il Paese, tuttavia, era spaccato dalle cosiddette guerre culturali scatenate fin dagli anni Ottanta dai conservatori laici e religiosi per riportare la società americana ai valori della tradizione. Ciò si era riflesso in campo politico nel fatto che, per gran parte dei suoi due mandati (1993-2001), il presidente democratico Bill Clinton aveva dovuto coabitare con un Congresso a maggioranza repubblicana dominata dai cosiddetti neoconservatori e dalla destra cristiana (religious right). Ciononostante egli era stato un presidente molto popolare, che aveva annullato il deficit di bilancio e lasciava in eredità una nazione in piena salute economica.
Il censimento del 2000 forniva, a sua volta, il quadro di un Paese in cui non rallentavano i processi che avevano portato gli Stati Uniti a essere dagli anni Ottanta una società postindustriale. Nel 2000 erano il terzo Paese più popoloso al mondo con 281.421.906 abitanti, aumentati di quasi 33.000.000 rispetto al 1990. Il trend di crescita derivava in buona misura dall’immigrazione, anche se il mutamento dell’origine dei flussi migratori faceva sì che la popolazione bianca di origine europea e quella nera perdessero terreno a fronte di quelle latino-americana e asiatica; un dato considerato preoccupante dai difensori della tradizione culturale americana. Il censimento sottolineava anche l’avvenuta alterazione del rapporto fra la popolazione delle diverse aree del Paese, con il Sud e l’Ovest dove, contrariamente a quanto era accaduto per il passato, abitava ormai il 60% degli americani. Esso, inoltre, mostrava una società che corrispondeva sempre meno all’idea dominante secondo cui gli Stati Uniti sono una ‘società di pari opportunità’, in cui nulla è impossibile per chi si impegna e lavora duramente, perché i dati indicavano che la mobilità sociale era venuta scemando dagli anni Settanta, soprattutto per i working poors, coloro che, pur lavorando, si trovavano al livello o sotto il livello di povertà e che avevano poche possibilità di migliorare le proprie condizioni. Tuttavia la prosperità degli anni Novanta, consentendo alla grande maggioranza degli americani di migliorare il proprio reddito, rendeva più difficile percepire il fatto che le differenze sociali fossero in aumento. Nello stesso tempo la rapidità dei mutamenti socioculturali, in particolare la piena accettazione del divorzio, la crescita dei single, con uno stile di vita lontano dalla tradizione, e la crescente visibilità degli omosessuali, nonché la larga libertà sessuale e la costante accelerazione dei consumi, aumentava il divario fra chi si sentiva respinto ai margini di una cultura che ormai veniva definita postmoderna e chi invece vi era pienamente integrato. Questa divaricazione non corrispondeva del tutto a differenze di reddito e di occupazione, ma sottolineava il divario fra chi accettava i mutamenti in corso e chi li rifiutava ponendosi nella scia della crescita della fede religiosa. Una fede vissuta sempre più all’interno delle chiese protestanti fondamentaliste e pentecostali, fra i cui aderenti la ricerca di certezza si manifestava politicamente con un forte tradizionalismo e un profondo nazionalismo, radicato nell’idea che l’America è il Paese prediletto da Dio e che in esso si incontrano e si sommano a pieno la libertà politica e quella spirituale. Se, quindi, nel 2000 gli Stati Uniti si sentivano al centro del mondo e gran parte degli americani riteneva che il proprio Paese rappresentasse la pietra di paragone con cui tutte le altre nazioni dovevano misurare il proprio grado di libertà e di civiltà, ciò non evitava la presenza di fortissime tensioni che la stessa velocità del mutamento rendeva più aspre e profonde.
La sfida tra Al Gore e George W. Bush
Alla vigilia delle presidenziali del 2000, sebbene l’ombra dello scandalo sessuale Lewinski, che aveva portato al tentativo di impeachment del presidente, pesasse sui democratici, la popolarità di Clinton era assai vasta e ciò, assieme all’ottimismo economico che regnava nel Paese, favoriva il vicepresidente Al Gore, che vinse con facilità la nomination del Partito democratico. Per il Partito repubblicano, invece, la candidatura dovette emergere dalle primarie, in cui la lotta si restrinse a due personaggi, il popolare senatore dell’Arizona John McCain, eroe della guerra in Vietnam, un uomo politico notoriamente indipendente dalla linea di partito, e il governatore del Texas George W. Bush, figlio dell’ex presidente George H. Bush, molto noto per il suo esplicito conservatorismo. Dopo un’aspra serie di confronti alle primarie, McCain si ritirò e Bush ottenne la nomination. La campagna elettorale fu priva di emozioni, perché nessuno dei due candidati possedeva carisma, anche se il vicepresidente appariva più preparato. Bush, un born again secondo l’impostazione evangelica, apparteneva alla tradizione conservatrice di matrice reaganiana e come governatore si era rifiutato di accettare le domande di grazia dei condannati a morte, si era opposto all’aborto e aveva fatto proprio il compassionate conservatism («conservatorismo compassionevole») delle chiese evangeliche tradizionaliste texane. La frattura fra conservatori e liberal che spaccava a metà il Paese garantiva a Bush una solida base elettorale, che il suo consigliere elettorale Karl Rove decise di ampliare con una strategia basata sulla mobilitazione dell’elettorato legato alla destra cristiana, poco abituato a votare. In un Paese in cui la partecipazione al voto arrivava al 50% lo spazio di manovra per una simile operazione appariva evidente. Gore riuscì nel corso della campagna elettorale a rimontare un iniziale svantaggio insistendo sui temi dell’ambiente e del welfare state; tuttavia non giunse in ogni caso a staccare l’avversario, anche a causa della presenza del popolarissimo leader del movimento dei consumatori, Ralph Nader, candidato con una lista indipendente.
Alle elezioni di novembre Gore ottenne una lieve maggioranza nel voto popolare, 50.996.582 voti, contro 50.456.062 voti per George Bush e 2.858.843 per Nader. L’elezione del presidente, tuttavia, per la Costituzione non dipende dalla maggioranza del voto popolare, ma da quella nel Collegio elettorale, in cui ogni Stato ha un numero di voti elettorali pari al numero di deputati che elegge alla Camera dei rappresentanti più due, e il candidato vincente nello Stato li conquista tutti. Alla fine dello scrutinio Gore si era assicurato 266 dei 538 voti elettorali e Bush 246; ma restava da assegnare lo Stato della Florida (25 voti elettorali) per disservizi nel funzionamento delle macchine per il voto. Dopo una serie di riconteggi negli uffici elettorali della Florida questi ultimi assegnarono la vittoria a Bush; un verdetto impugnato dai democratici davanti ai tribunali statali e federali. La questione venne infine portata davanti alla Corte suprema, che di stretta misura (5 a 4) e con uno schieramento corrispondente alle inclinazioni politiche dei giudici, si pronunciò a favore di Bush. La conseguente confusione nell’opinione pubblica sembrò portare il Paese sull’orlo di una crisi istituzionale, che Gore evitò concedendo il 13 dicembre la vittoria all’avversario.
Il conservatorismo compassionevole
Gli analisti politici ritenevano che il nuovo presidente si sarebbe mosso in modo pragmatico, sia perché così aveva fatto il suo modello politico, Ronald Reagan, sia perché Bush non era ricorso a toni da crociata durante la campagna elettorale, anche per prudenza, in quanto il risultato elettorale non poteva essere interpretato come un mandato popolare a compiere grandi riforme. Il fulcro del suo pensiero era tuttavia chiaro e si riassumeva nella formula, già ricordata, del conservatorismo compassionevole, dove si combinavano gli insegnamenti del neoconservatorismo laico e quelli della destra cristiana. Ciò significava abbracciare il timore di un declino morale della nazione dovuto all’indebolirsi del principio di responsabilità personale; riportare i cittadini all’idea che ognuno deve essere in grado di autogestirsi, che un eccesso di welfare distrugge l’autonomia individuale, che una tassazione alta per finanziare il welfare limita gli investimenti e la crescita economica e che i poveri, ai quali non spetta un diritto a essere soccorsi dallo Stato, vadano aiutati innanzi tutto dai privati.
La composizione del nuovo gabinetto rifletteva queste idee; ma soprattutto rifletteva la volontà di Bush di avere ministri di lunga esperienza, sicura fede conservatrice e, soprattutto, assoluta lealtà al presidente. Parecchi erano già stati nel governo di suo padre, come, per es., il vicepresidente Dick Cheney. Il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, anch’egli con una lunga carriera alle spalle accanto ai presidenti Richard Nixon e Gerald Ford, rappresentava l’ala dura dei neoconservatori, presenti con uno dei loro principali teorici, Paul Wolfowitz, sottosegretario alla Difesa. Il ministro della Giustizia John Ashcroft apparteneva alla destra religiosa. Al posto di Consigliere per la sicurezza nazionale Bush chiamò Condoleezza Rice, la prima donna nera a ricoprire una posizione centrale nel governo. Nero era anche il segretario di Stato Colin Powell, una presenza che stonava in quanto Powell, già comandante in capo delle Forze armate americane, era un moderato.
Contrariamente alle attese, Bush si mosse in modo rapido e abile nell’attuazione dei tre pilastri che gli analisti identificano come fulcro del suo programma: il riorientamento di aspetti fondamentali della politica interna, la costruzione di una maggioranza repubblicana di lunga durata e il capovolgimento del tradizionale internazionalismo dei democratici in politica estera. Nei mesi fino all’11 settembre 2001, il giorno dell’attacco terroristico alle Twin Towers, Bush ottenne una serie di vittorie, fra cui quella a cui, sulle orme di Reagan, più teneva: la maggiore riduzione fiscale della storia americana, 1.300.000.000 di dollari distribuiti in dieci anni. Questa misura, a cui ne seguirono altre due rispettivamente nel 2002 e nel 2003, avrebbe trasformato il surplus di bilancio ereditato da Clinton in un deficit; ma Bush non se ne preoccupava, perché maggiormente interessato all’effetto di stimolo economico che pensava ne derivasse. Allo stesso modo non si interessò delle accuse di favorire gli strati più ricchi della popolazione, che ottennero molti vantaggi, perché i ricchi, nella filosofia neoconservatrice, sono coloro che possono investire nell’economia e che quindi, se poco tassati, favoriscono la crescita del Paese. A questa vittoria il presidente fece seguire la creazione dell’Office of faith-based and community initiative (Ufficio per le iniziative a base religiosa e comunitarie) che, concedendo fondi pubblici alle istituzioni religiose, intendeva realizzare il conservatorismo compassionevole spostando al settore privato molte iniziative di aiuto a poveri ed emarginati. Una misura che diede vita a un intenso dibattito in quanto, finanziando anche istituzioni che non tenevano separate le attività di beneficenza da quelle religiose, molti ritenevano potesse intaccare il principio di separazione Stato-chiesa. L’ultima, importante iniziativa di questi mesi riguardò l’istruzione pubblica, unanimemente ritenuta incapace di fornire un’istruzione adeguata. Appoggiato anche da membri democratici del Congresso, Bush presentò una misura, il No child left behind act, approvata nel 2002, che poneva in atto un nuovo sistema di valutazione delle scuole pubbliche, tagliava i fondi a quelle risultate insufficienti e incentivava economicamente i genitori a trasferire i propri figli in scuole private. La legge ottenne risultati positivi, ma finì con il punire le scuole pubbliche suscitando una violenta opposizione.
In campo internazionale il presidente intese capovolgere la linea di Clinton seguendo quella espressa in campagna elettorale dalla Rice, per la quale il compito degli Stati Uniti, come unica superpotenza e prima nazione democratica, era di fungere da garante ultimo dell’equilibrio e della pace internazionali. Occorreva, quindi, evitare onerose e lunghe operazioni di peacekeeping e di nation building, come quelle di Clinton nella ex Iugoslavia, e si doveva, invece, intervenire anche militarmente in modo autonomo e rapido là dove si verificavano situazioni, imputabili soprattutto agli Stati ‘canaglia’, che mettevano in pericolo la pace internazionale. Gli Stati Uniti, quindi, per la loro superiorità politica, militare e morale finivano con il collocarsi sopra, piuttosto che all’interno, del sistema internazionale. Una posizione che l’amministrazione ribadì sia sottolineando apertamente la sua sfiducia nelle Nazioni Unite, sia chiamandosi fuori da una serie di trattati internazionali quali quelli che vietavano l’uso delle mine antiuomo e rafforzavano il divieto delle armi chimiche, in quanto avrebbero messo in serio pericolo la sicurezza delle truppe americane all’estero. Allo stesso modo il presidente rifiutò l’adesione al trattato per l’istituzione della Corte penale internazionale, che avrebbe sottratto i militari americani accusati di crimini di guerra ai tribunali nazionali, mettendoli nelle mani di corti ritenute non del tutto affidabili. Tali mosse vennero interpretate da alcuni analisti come l’inizio di un neoisolazionismo americano; ma non si trattava di questo. Bush e il suo gabinetto, infatti, avevano piena coscienza che nessuno Stato poteva sottrarsi all’intreccio di rapporti che li coinvolgeva tutti; ma questa era la ragione per cui la prima potenza democratica doveva mantenere le mani libere e avere, in un certo senso, una funzione sostitutiva delle inutili organizzazioni internazionali. Nella stessa chiave si deve leggere anche il ripudio dei trattati per la limitazione degli armamenti nucleari firmati a suo tempo con la ex Unione Sovietica e il rilancio dell’idea reaganiana dello scudo antimissile. Tali mosse andavano di pari passo con le aperture alla Cina, dettate non da timore nei confronti di una potenza emergente, bensì dal nazionalismo economico dell’amministrazione. La Cina, infatti, con le sue massicce esportazioni di merci a poco prezzo negli Stati Uniti e l’altrettanto cospicuo acquisto di titoli del debito pubblico americano era diventata un partner indispensabile che il presidente intendeva coinvolgere sempre di più in un sistema economico internazionale dominato dalla finanza e dalla tecnologia americane. Nello stesso spirito egli rifiutò di aderire al protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni dei gas serra, che avrebbe posto gravosi limiti alle industrie americane, e si impegnò a migliorare la situazione di dipendenza energetica degli Stati Uniti proponendo trivellazioni in alcune aree dell’Alaska ricche di idrocarburi, ma protette da vincoli ambientali.
I primi mesi della nuova presidenza sono importanti per capire il neoconservatorismo dell’amministrazione, che rappresenta un’evoluzione di quello del presidente Reagan e dei leader repubblicani degli anni Novanta. Bush, infatti, non sposò le tesi conservatrici sull’importanza del pareggio di bilancio e con l’enorme riduzione fiscale scelse la strada del deficit pur di ottenere una crescita dei consumi e, conseguentemente, dell’economia. Allo stesso modo non credeva fino in fondo nello small government, vale a dire nella diminuzione delle funzioni regolatrici e delle dimensioni del governo federale. Il fulcro del suo pensiero era quello di ampliare al massimo le possibilità di scelta individuale rendendo i singoli autonomi dal settore pubblico. Se lo small government serviva a questo, egli lo favoriva; ma era altrettanto deciso ad accrescere i poteri di regolamentazione del governo federale per imporre valori conservatori, come avvenne per la faith-based initiative e la legislazione scolastica. Il presidente si dimostrò altrettanto favorevole a un ampliamento senza restrizioni delle spese in campo militare, dove accettò le tesi del segretario Rumsfeld sulla necessità di accrescere la superiorità tecnologica americana in vista di interventi militari che, con l’utilizzo di sofisticate tecnologie di controllo elettronico del campo di battaglia e la diffusione di armi di nuova concezione, dalle bombe intelligenti agli aerei invisibili, dovevano essere veloci e risolutivi.
Il suo neoconservatorismo era quindi molto articolato e aveva alle spalle i tanti studi dei centri di ricerca conservatori presenti nel Paese. Si trattava di un pensiero politico radicale che però, per quanto ben organizzato a livello teorico, non era altrettanto compatto in pratica. Una delle sue idee centrali, che Bush usò nella campagna elettorale del 2004, era quella di creare una nazione di autonomi ‘cittadini proprietari’, in grado di gestire nel mercato averi e capacità personali; un’idea tanto attraente quanto irrealistica nella pratica. Secondo buona parte degli analisti, quindi, la nuova amministrazione, abile nel far approvare le proprie proposte legislative, non aveva un progetto del tutto attuabile. Il che era particolarmente vero in politica estera, in cui le sue azioni davano la falsa impressione di un neoisolazionismo americano, senza contare che l’individuazione degli Stati ‘canaglia’ – tutti di scarsa caratura politica – come fonte primaria di caos non sembrava un’idea molto solida.
La guerra al terrore
L’11 settembre 2001 un gruppo di diciannove terroristi arabi suicidi si impadronì di quattro aerei di linea per farli schiantare contro altrettanti obiettivi sul suolo americano. Due colpirono le Twin Towers di New York, i due grattacieli simbolo del potere economico americano, uno si schiantò a Washington contro il Pentagono, mentre il quarto, i cui passeggeri si erano ribellati cercando di sopraffare i terroristi, precipitò nella campagna della Pennsylvania. L’attentato provocò la morte di circa 3000 persone, la maggior parte delle quali perirono nel crollo delle Twin Towers, e un immenso shock negli Stati Uniti e nel resto del mondo; shock che immediatamente si tramutò in timore dato che l’azione venne facilmente attribuita e poi rivendicata da al-Qā῾ida, l’organizzazione gihadista sunnita guidata da Osama bin Laden (Usāma ibn Lādin), che aveva già condotto sanguinosi attacchi contro obiettivi americani in Asia e in Africa. Quando si venne a sapere che i terroristi avevano potuto entrare con estrema facilità negli Stati Uniti, prendere lezioni di volo e salire sugli aerei come normali passeggeri, allo shock si aggiunsero incredulità e rabbia per l’inefficienza dell’intelligence e dei poteri pubblici.
In realtà l’amministrazione, pur avvisata dai servizi segreti che al-Qā῾ida stava progettando qualche azione terroristica, aveva posto gli Stati ‘canaglia’, e non il terrorismo, al centro della sua attenzione e aveva tenuto la prima riunione ad alto livello sui pericoli di quest’ultimo solo in agosto. La sua reazione agli eventi fu, tuttavia, molto rapida; ma, quel che più conta, l’11settembre le fornì l’unità di visione, la missione che le era in precedenza mancata. Bush affermò subito che ci si trovava di fronte non a un atto terroristico, ma a un atto di guerra e dichiarò una war on terror che, disse, aveva natura ideologica e sarebbe stata di lunga durata come la guerra fredda. Il termine guerra, che denota un conflitto fra Stati che evidentemente non c’era, non veniva usato a caso, ma serviva a chiarire teoricamente il senso delle future azioni americane. Fondamentale nel fissare il pensiero del presidente sembra essere stato proprio D. Cheney, considerato il più influente vicepresidente che gli Stati Uniti abbiano avuto, il quale, a sua volta, fece propria la visione delle cose di un ristretto gruppo di neoconservatori nell’amministrazione, i cosiddetti Vulcans, per i quali un ordine internazionale stabile garantito dagli organismi internazionali era decisamente impossibile e gli Stati Uniti, per la sicurezza propria e degli alleati, dovevano mantenere a lungo la supremazia negli affari mondiali di cui godevano sin dalla fine della guerra fredda.
L’attentato dell’11 settembre portò agli Stati Uniti la solidarietà di quasi tutto il mondo e gli alleati della NATO si dichiararono pronti a intervenire al loro fianco invocando i termini del trattato istitutivo dell’alleanza; ma Bush, con una mossa indicativa dei suoi intendimenti politici, rifiutò e rivolse un ultimatum al regime dei Ṭālibān, i radicali islamici al governo in Afghānistān, invisi alla comunità internazionale per il loro rigido fondamentalismo, chiedendo la consegna di Bin Laden che in Afghānistān aveva il suo quartier generale. Di fronte al rifiuto di questi ultimi gli Stati Uniti decisero in modo autonomo l’operazione Enduring freedom, che iniziò il 7 ottobre con l’appoggio delle forze inglesi e degli storici nemici afghani dei Ṭālibān, la cosiddetta Alleanza del Nord. La guerra terminò con successo in poco più di un mese e a Kābul si installò un governo filoamericano guidato da Hamid Karzai. Enduring freedom spinse la popolarità del presidente a livelli mai visti, che sfioravano il 90%, e venne salutata con soddisfazione ovunque; ma nessuno si nascondeva che si trattava soltanto di una prima mossa, per di più riuscita solo in parte, perché Bin Laden sfuggì alla cattura rifugiandosi nelle cosiddette zone tribali al confine con il Pakistan. L’attesa per capire le intenzioni successive del governo americano non fu lunga, perché il presidente nell’annuale messaggio sullo Stato dell’Unione del gennaio del 2002 individuò in quello che chiamò l’asse del male, composto da Irān, ῾Irāq e Corea del Nord, l’origine dei problemi internazionali e impegnò gli Stati Uniti a combatterlo. Il senso dell’espressione guerra al terrorismo appariva adesso chiaro e stava a significare che gli Stati Uniti, per colpire il terrorismo, avrebbero colpito militarmente gli Stati che lo appoggiavano anche se questi non li minacciavano direttamente. Essa trovò infine il suo punto di arrivo nel documento sulla National security strategy approvato dal National security council nel settembre 2002, che, ampliando dal caso di pericolo immediato a quello di pericolo potenziale il diritto di una nazione a colpire per prima, affermava il diritto degli Stati Uniti alla guerra preventiva contro chi aiutava o dava asilo ai terroristi.
Prese così forma la ‘dottrina Bush’ che capovolgeva gli assunti della politica estera statunitense del dopoguerra, costruita sull’internazionalismo liberale, vale a dire un ordine fra le democrazie occidentali basato sulla cooperazione intergovernativa e su strutture di sicurezza comuni in cui gli Stati Uniti, pur da una posizione egemonica, erano legati ai loro alleati e ne ricercavano il consenso. Il nuovo realismo di Bush si fondava, invece, sulla necessità e il diritto per gli Stati Uniti di determinare in modo autonomo quali fossero le minacce alla loro sicurezza e all’ordine internazionale e di agire in conseguenza anche da soli.
La guerra al terrorismo ebbe ripercussioni importanti anche sulla scena interna, dove l’amministrazione fece fronte con molta rapidità alla paura della popolazione con lo USA Patriot act dell’ottobre 2001 – riapprovato nel 2005 – che ampliò i poteri di sorveglianza e di intervento delle agenzie per la sicurezza autorizzando perquisizioni senza previa autorizzazione giudiziaria, il controllo di telefoni, e-mail, cartelle mediche e posizioni bancarie di sospettati di terrorismo o di complicità con i terroristi negli Stati Uniti, nonché rafforzando i controlli sull’immigrazione e dando potere agli uffici di detenere o espellere immigrati sospetti. Nel 2002 a questa legge fece seguito il riordino di una ventina di agenzie di sicurezza che vennero sottoposte all’autorità comune del Department of homeland security, entrato in funzione ai primi del 2003. Il giro di vite venne accolto con soddisfazione dalla maggioranza della popolazione; ma non mancò di sollevare critiche, in quanto diverse misure adottate parevano violare le libertà civili degli americani. Il Patriot act fu anche indicativo di un più vasto disegno di ampliamento dei poteri dell’esecutivo a spese del legislativo, cosa che a poco a poco suscitò ulteriori timori di violazione del principio della divisione dei poteri che regge l’architettura della Costituzione americana. Lo stato di guerra e di emergenza a cui Bush si appellava gli consentì – facendo leva sui ‘poteri impliciti’ dell’esecutivo – di ampliare i propri poteri di decretazione d’urgenza (executive order) per evitare la presentazione di progetti di legge e il dibattito pubblico in Congresso.
Il presidente si mosse, quindi, lungo la linea dello stato di necessità per combattere il terrorismo e mise così in atto alcune delle misure che nel tempo si sarebbero dimostrate più controverse e più avrebbero nuociuto alla sua presidenza. Fra queste la detenzione nel carcere di Guantanamo, nell’omonima base americana a Cuba, di varie centinaia di Ṭālibān catturati in Afghānistān e di altre persone accusate di terrorismo che vi vennero detenute, in condizioni giudicate deumanizzanti, a tempo indeterminato e senza accuse specifiche per essere sottoposte agli interrogatori dei servizi segreti. L’amministrazione americana, definiti i detenuti unlawful enemy combatant («combattenti nemici illegali»), dichiarò che essi non godevano della protezione della Convenzione di Ginevra in quanto non si trattava di soldati, il che permetteva interrogatori duri che per molti erano paragonabili a forme di tortura. Per processare questi detenuti furono istituite speciali commissioni militari la cui procedura limitava in modo drastico i diritti di difesa. Bush si servì dei decreti d’urgenza anche per consentire l’intercettazione delle comunicazioni di cittadini americani e non, senza autorizzazione dei tribunali, e per attuare un programma segreto che autorizzò i servizi di intelligence a rapire su suolo straniero i sospetti di terrorismo e a consegnarli a governi amici per gli interrogatori, anche quando era noto che questi governi si servivano della tortura per ottenere informazioni. Stando alle informazioni venute alla luce, in base a questo programma, centinaia sono state infatti le extraordinary renditions, ossia le azioni di cattura ‘extralegali’ effettuate dalla CIA in diversi Paesi.
La crescente opposizione sia al metodo sia al contenuto di tutte queste misure non ha impedito all’amministrazione di difenderle, adducendo a riprova della loro efficacia il fatto che gli Stati Uniti dopo l’11 settembre non hanno più subito attacchi terroristici.
L’attacco all’Irāq
Parte integrante della ‘dottrina Bush’ era l’idea che la guerra al terrorismo e lo scontro con il radicalismo islamico potevano essere vinti esportando la democrazia in Medio Oriente, perché gli Stati democratici sono per natura pacifici. Per metterla in pratica si doveva ricorrere anche al regime change, la sostituzione forzosa dei governi nemici, in particolare quelli degli Stati ‘canaglia’; un atteggiamento che capovolgeva la politica di Clinton nell’area, centrata sulla soluzione del conflitto israelo-palestinese (anche se, sia pur di poco, egli aveva fallito). Bush, invece, nonostante lo scoppio della seconda Intifāḍa, declassò tale conflitto, convinto dagli argomenti dei neoconservatori per i quali la via per la pace a Gerusalemme passava per Baġdād. Secondo i neoconservatori il dittatore iracheno era la prima fonte di instabilità nell’area e Bush senior aveva sbagliato a lasciarlo al potere alla fine della guerra del Golfo. Nel corso del 2002 l’amministrazione fece montare la pressione contro l’Irāq, accusandolo di non essersi mai disfatto, come avrebbe dovuto, delle armi di distruzione di massa, soprattutto chimiche, che aveva a suo tempo usato contro i ribelli curdi. Il segretario di Stato Powell, contrario a mosse unilaterali, ottenne dall’ONU l’invio di ispettori in ῾Irāq per controllare l’esistenza di armi chimiche e biologiche. Ebbe così inizio una prolungata schermaglia, caratterizzata dalle fortissime resistenze di Saddam Hussein (Ṣaddām Ḥusayn) ai controlli. Il risultato finale fu che di tali armi non si trovò traccia; ma l’amministrazione americana affermò che gli ispettori non erano stati in grado di trovarle, accusò S. Hussein di connivenza con al-Qā῾ida e si preparò all’uso della forza. Powell cercò allora di ottenere un mandato del Consiglio di sicurezza per usare la forza contro l’Irāq; ma non riuscì a ottenerlo e il presidente Bush decise che gli Stati Uniti dovevano muoversi da soli, con l’appoggio di quegli alleati che volevano seguirli, la cosiddetta coalizione dei volonterosi (Coalition of the willing). La mossa, che cortocircuitava le alleanze e le loro procedure, spiazzò gli europei e li divise fra chi era disposto a seguire l’iniziativa unilaterale degli Stati Uniti, come la Gran Bretagna, l’Italia e la Spagna, e chi non lo era, come la Francia e la Germania. Una spaccatura che mise in crisi il principale sistema di alleanze americane senza che l’amministrazione se ne curasse più di tanto, dimostrando una volta di più la svolta strategica intervenuta, in base alla quale gli Stati Uniti abbandonavano il multilateralismo e agli alleati chiedevano innanzi tutto fedeltà.
L’attacco all’Irāq ebbe inizio il 20 marzo 2003 con 250.000 soldati americani, 45.000 inglesi e contingenti minori di altri Paesi. L’armata di invasione era molto più piccola di quella usata nella guerra del Golfo, in quanto il ministro Rumsfeld sosteneva una strategia basata sull’uso di armi estremamente sofisticate che necessitavano di un sostegno tecnologico enorme, ma di poche truppe sul terreno. La guerra parve dargli ragione, perché Baġdād venne conquistata con grande facilità e le operazioni furono chiuse il 1° maggio. L’amministrazione non aveva, però, pianificato il dopoguerra, nella certezza che la popolazione avrebbe accolto gli americani da liberatori e si sarebbe subito data un governo democratico. Le cose andarono diversamente, perché gli uomini imposti dagli statunitensi al governo di Baġdād furono male accetti, lo smantellamento dell’esercito, della polizia e della burocrazia lasciò il Paese privo di ogni ordine e l’ostilità fra le tre componenti etnico-religiose del Paese, i curdi, gli arabi sciiti e quelli sunniti, portò a scontri di potere che ben presto si rivolsero contro gli occupanti americani dando luogo a una sanguinosa guerriglia che non cessò neppure quando, in dicembre, S. Hussein venne catturato. Senza contare che non si trovò traccia delle armi di distruzione di massa, né della presenza di al-Qā῾ida. Nonostante nel 2005 si tenessero elezioni che consentirono la nascita di un governo iracheno e l’approvazione di una nuova costituzione, la situazione fra il 2003 e il 2007 non fece che deteriorare, giungendo al limite di una guerra civile fra iracheni e di una insurrezione contro gli americani, le cui perdite crebbero fino ad arrivare, a fine 2008, a 4200 morti e 40.000 feriti. In questo contesto, nel novembre 2003 il contingente militare di circa 2500 uomini inviato dall’Italia subì un attentato a Nassiryiah in cui rimasero uccisi 19 italiani, militari e civili. Le truppe italiane vennero ritirate nel dicembre 2006.
Gli Stati Uniti, convinti di doversi concentrare sull’Irāq, sottovalutarono due altri punti caldi in Medio Oriente: l’Afghānistān, dove i Ṭālibān si riorganizzarono e passarono al contrattacco nel 2004, e il conflitto israelo-palestinese. Sugli altri scacchieri l’amministrazione ordinò interventi militari minori in Liberia (2003) e ad Haiti (2004) in difesa di interessi americani; ma soprattutto si preoccupò di salvaguardare i buoni rapporti con la Cina, entrata a fine 2001 nella WTO (World Trade Organization), e di mantenere quelli con la Russia, nonostante il forte contrasto di interessi nei Balcani a proposito della Serbia e la strenua opposizione russa al costante allargamento della NATO a est.
Nel corso del 2004 l’opinione pubblica americana cominciò a nutrire dubbi sull’agire dell’amministrazione, in particolare dopo che iniziarono ad affiorare notizie sugli abusi commessi da soldati americani su prigionieri iracheni nel carcere di Abū Ghrayb. Lo scandalo assunse dimensioni sempre più grandi, a livello sia interno, sia internazionale, anche dopo che alcuni soldati furono portati davanti ai tribunali e condannati, in quanto non sembrava credibile che la cosa potesse fermarsi ai livelli più bassi della gerarchia militare e malgrado Bush avesse condannato immediatamente l’accaduto per limitare l’impatto devastante che esso poteva avere proprio nell’anno in cui scadeva il suo primo mandato presidenziale.
Il secondo mandato di George W. Bush
La popolarità del presidente, che aveva raggiunto il 90% subito dopo l’11 settembre, non poteva che diminuire; ma nel corso del 2004 essa scese per la prima volta al 50%, e la sua conferma alle elezioni di quell’anno non apparve più così certa. Il Partito democratico scelse come sfidante il senatore del Massachusetts John Kerry, che attaccò il presidente per gli eccessi del Patriot act e per la guerra in ῾Irāq, proponendo al tempo stesso una più attiva politica sociale ed economica. Bush, invece, presentandosi come difensore della sicurezza nazionale, rilanciò il suo programma di politica interna facendo leva sul favore conquistato grazie al provvedimento con cui aveva inserito, seppure con restrizioni, i medicinali fra le prestazioni del sistema pubblico di assistenza sanitaria agli anziani, il Medicare. Egli propose l’idea di costruire la ‘repubblica di proprietari’, fondata sul diritto dei cittadini di gestire nel modo più autonomo possibile i loro redditi, e a questo fine lanciò una riforma della Social security, il sistema pensionistico pubblico, che avrebbe consentito ai singoli di scegliere in quali fondi privati collocare una parte delle somme destinate alla pensione. In base a ciò Rove incentrò la campagna elettorale su tre punti: l’imperativo di appoggiare il presidente in tempo di guerra, l’inaffidabilità politica e morale dell’avversario – un voltagabbana che attaccava la guerra in ῾Irāq dopo avere votato a favore della mozione per iniziarla – e un forte appello alla cosiddetta destra cristiana perché sostenesse il presidente nella sua lotta per la ricostruzione morale della nazione, per giungere alla quale Bush proponeva due emendamenti costituzionali volti a vietare l’aborto e il matrimonio fra omosessuali. Il risultato elettorale gli diede ragione, perché Bush vinse con facilità, conquistando 286 voti elettorali contro 251 e 60.693.281 voti popolari contro 57.355.978.
Dopo la vittoria il presidente rimaneggiò il gabinetto sostituendo il sempre irrequieto Powell con Rice alla segreteria di Stato, nonché il ministro della Giustizia Ashcroft, inviso a molti per il suo radicalismo religioso, con Alberto Gonzales. Nonostante una squadra ancora più compatta della precedente, il secondo mandato del presidente Bush si dimostrò subito difficile. La sua proposta di riforma della Social security lasciò scettici gli americani, timorosi che eventuali crisi finanziarie facessero loro perdere la pensione, e rimase insabbiata al Congresso. Nell’agosto del 2005 un violentissimo uragano, Katrina, colpì il Golfo del Messico e la città di New Orleans, che venne allagata a causa del cedimento di alcune dighe sul Mississippi. Le vittime furono oltre 1000 e decine di migliaia i senzatetto; ma ciò che fece infuriare l’opinione pubblica fu l’impreparazione della protezione civile e quella che apparve come una colpevole sottovalutazione dell’evento da parte del governo federale. Il colpo all’immagine di Bush fu gravissimo; mentre quella del suo partito veniva fiaccata da una serie di scandali che colpirono importanti figure fra cui il leader della maggioranza repubblicana alla Camera Tom DeLay. La popolarità del presidente crollò sotto il 40%, anche a causa dei crescenti indizi che mostravano come l’amministrazione avesse manipolato le prove contro S. Hussein per far approvare la guerra, e le previsioni per le elezioni congressuali (mid-term election) del 2006 peggiorarono rapidamente. Molto serio era anche il problema dei milioni di immigrati clandestini che in primavera, con manifestazioni di massa in molte città, chiesero di essere legalizzati. Buona parte dei repubblicani al Congresso, però, nemici dell’immigrazione selvaggia proveniente dall’America Latina per le spese che comportava e per le sue conseguenze sulle tradizioni nazionali, si dichiarò contraria, alienandosi in tal modo il voto delle minoranze etniche latino-americane e asiatiche. I risultati non fecero che confermare le previsioni e i democratici conquistarono al Senato e alla Camera seggi sufficienti per ottenere la maggioranza in entrambi, così come superarono i repubblicani nel numero dei governatori degli Stati.
Dopo la sconfitta elettorale Bush intese riprendere l’iniziativa, anche perché le conclusioni dello Iraq study group (insediato dal Congresso), rese note in dicembre, indicavano che in ῾Irāq gli Stati Uniti erano sull’orlo della sconfitta. L’architetto della guerra, il ministro della Difesa Rumsfeld – attaccato pubblicamente da alcuni generali per non aver voluto usare sufficienti truppe – fu sostituito da Robert Gates, che godeva di un appoggio politico bipartisan; mentre a capo del contingente in ῾Irāq fu nominato il generale David Petraeus, già responsabile dell’addestramento del nuovo esercito iracheno. Nel gennaio 2007 il presidente dichiarò che avrebbe inviato in ῾Irāq altri 21.500 uomini, a testimonianza di un’impennata, il cosiddetto surge, nelle forze impegnate nel conflitto. La nuova strategia comprendeva anche un mutamento di linea politica nei confronti degli iracheni, amici e nemici. Tale mutamento risultò vincente e nel corso dell’anno il surge iniziò lentamente a dare risultati, anche perché gli americani accettarono che gli sciiti imponessero il loro dominio su Baġdād contro i sunniti e questi ultimi – protagonisti della guerriglia contro le truppe statunitensi – coinvolti nel governo centrale e nell’amministrazione delle province, diminuirono la loro ostilità. Questo fece sperare che il 2007 sarebbe stato un anno migliore per gli Stati Uniti e per l’amministrazione in quanto, sebbene i redditi familiari fossero fermi, l’economia cresceva, la disoccupazione scendeva fino al 4,5% e l’indice Dow Jones continuava a salire fino a raggiungere nell’ottobre un picco massimo di 14.000 punti. Dove Bush non volle cambiare linea fu in politica interna: continuò infatti a perseguire il progetto conservatore che negli anni precedenti lo aveva, per es., portato a rafforzare il conservatorismo della Corte suprema con la nomina dei giudici John G. Roberts e Samuel A. Alito e a porre il veto a una legge per la concessione di fondi pubblici per la ricerca sulle cellule staminali. Nel 2007, quindi, pose il veto anche a una legge, voluta dal nuovo Congresso democratico, che garantiva l’assistenza sanitaria a 4.000.000 di bambini che ne erano privi. Una misura che Bush non poteva ideologicamente accettare perché, a suo avviso, apriva la strada alla socializzazione della medicina. Nell’estate egli dovette, però, subire un’ulteriore sconfitta, quando il ministro e il viceministro alla Giustizia Gonzales e Paul McNulty furono costretti alle dimissioni per il siluramento, nel 2004, di sette procuratori federali, ufficialmente per scarso rendimento, ma, si sospettava, perché non avevano seguito le direttive del ministro in alcuni casi giudiziari aventi rilevanza politica. Lo scandalo sfiorò lo stesso presidente per il suo rifiuto di far testimoniare in materia due consiglieri della Casa Bianca davanti alla Commissione giustizia della Camera. In politica interna, quindi, le speranze dell’amministrazione di riconquistare terreno non si materializzarono e il favore dell’opinione pubblica nei confronti del presidente continuò a scendere, anche per l’ulteriore scandalo, venuto alla luce in primavera, del cattivo trattamento medico dei feriti in guerra al Walter Reed hospital e per il proibitivo costo delle guerre in ῾Irāq e Afghānistān giunto a oltre 600 miliardi di dollari a fine 2008. Inoltre, il fatto che i repubblicani più conservatori bocciassero in giugno un progetto di legge bipartisan appoggiato anche da Bush per risolvere il problema degli immigrati clandestini, accrebbe l’ostilità nei confronti del Partito repubblicano e indicò che il presidente ormai non aveva più controllo sul suo partito e che la campagna elettorale per le presidenziali del 2008 era ormai iniziata.
Dove il presidente mostrò di essere disposto a mutare linea, sia pure cautamente, fu a proposito dell’unilateralismo della sua politica estera, sia in Afghānistān, in cui dal 2006 le operazioni contro i Ṭālibān non erano più sotto guida americana, ma, con mandato ONU, sotto guida NATO, sia nei confronti della Repubblica Democratica Popolare di Corea e dell’Irān, entrambi Stati del cosiddetto asse del male. Il primo aveva effettuato un test atomico nell’ottobre 2006 e aveva dato vita a un intenso programma missilistico. Per spingere i nordcoreani a interrompere i loro progetti, gli Stati Uniti, insieme alla Cina (che assunse il ruolo principale) e ad altre nazioni, riuscirono ad arrivare nel 2007 a un accordo con la Corea del Nord che si impegnò a smantellare i suoi impianti in cambio di aiuti economici. Molto più difficile la partita con l’Irān, la cui ostilità nei confronti degli Stati Uniti risaliva ai tempi della rivoluzione khomeinista e i cui leader consideravano la potenza statunitense un nemico non solo loro, ma dell’intero islam. Anche l’Irān, con mezzi e capacità di gran lunga superiori a quelle nordcoreane, aveva dato il via a un programma nucleare che l’amministrazione statunitense non credeva avesse scopi soltanto civili. Nonostante i violenti scontri verbali fra le due nazioni e i timori iraniani di un eventuale intervento militare statunitense, Bush agì con cautela, appoggiandosi sia alla Russia sia agli alleati europei fino a giungere all’invio di ispezioni ONU negli impianti iraniani. Queste, fortemente ostacolate, non diedero risultati chiari e nel dicembre 2006 il Consiglio di sicurezza approvò sanzioni economiche contro l’Irān che non convinsero, però, il governo ad abbandonare i programmi di arricchimento dell’uranio. Nel corso del 2008 la questione divenne il problema più spinoso nell’agenda di politica estera statunitense, non solo per il pericolo atomico, ma per la politica estera iraniana dichiaratamente volta, nelle parole del leader conservatore Ahmadinejad (Maḥmūd Aḥmadīnežād), alla distruzione di Israele e, a questo fine, ad appoggiare militarmente sia gli ḥezbollāh libanesi, sia il movimento Ḥamās, che dal giugno 2007 aveva instaurato con la violenza nella Striscia di Gaza un governo praticamente autonomo da quello centrale palestinese. Nel novembre 2007, per rilanciare il processo di pace israelo-palestinese, Bush convocò una conferenza ad Annapolis (Maryland), cui presero parte non solo i leader israeliani e palestinesi, ma delegazioni europee, russe, cinesi e della Lega araba per discutere della soluzione del conflitto sulla base del principio ‘due popoli, due nazioni’; ma i risultati furono assai scarsi. Il miglioramento, almeno a livello militare, della situazione irachena non trovò quindi corrispondenza in un miglioramento dell’intera situazione mediorientale che, anzi, parve peggiorare con il crescere dell’influenza iraniana nell’area e della debolezza del governo di Kābul di fronte agli attacchi dei Ṭālibān. Un’ulteriore prova, agli occhi dei più, degli errori strategici commessi dal presidente.
La vittoria di Barack Obama
Numerose personalità scesero in lizza per la candidatura di entrambi i partiti in vista delle presidenziali del 2008; ma non Bush, a cui la Costituzione proibiva un terzo mandato. Fra i repubblicani apparve presto chiaro che il candidato sarebbe stato John McCain, già avversario di Bush alle primarie del 2000. In campo democratico il candidato di punta era la senatrice dello Stato di New York ed ex first lady, Hillary Clinton, che godeva dell’appoggio di buona parte del partito e appariva molto forte fra gli operai bianchi, anche se non godeva del pieno appoggio né dell’elettorato femminile, né dei liberals delle classi medio-alte. Nella cerchia dei suoi avversari emerse a sorpresa un personaggio nuovo, il giovane senatore dell’Illinois Barack Obama, figlio di un immigrato keniano e di una statunitense bianca, che si era formato alla dura scuola della politica di Chicago ed era stato per otto anni senatore statale prima di approdare nel 2004 al Senato federale. Erano quindi i democratici a presentare candidati che rompevano clamorosamente con la tradizione: una donna e un nero. Lo scontro fra la Clinton e Obama suscitò entusiasmo e si protrasse incerto fino alla fine della stagione delle primarie. Obama, capace di creare una forte macchina elettorale composta in buona parte da giovani conquistati dal suo messaggio di cambiamento e finanziata all’inizio da un gran numero di piccoli contributi giunti via Internet, dimostrò una superiore sagacia organizzativa e un appeal in grado di conquistare anche i maggiorenti del partito e i grandi finanziatori. Nella tarda primavera la Clinton ammise la sconfitta.
Obama, primo candidato presidenziale nero in una terra marchiata dalla schiavitù e dalla segregazione, simboleggiava un cambiamento storico e accoglieva un generale bisogno di mutamento in un Paese segnato da tre decenni di durissimi scontri politici e che, a vent’anni dalla fine della guerra fredda, non pareva aver elaborato un ruolo internazionale e una identità adatte alla nuova realtà. Il suo slogan elettorale, «Yes, we can», rimandava a questo bisogno di cambiamento; ma la sua volontà di presentarsi come un candidato in grado di unire il Paese nel cambiamento avrebbe potuto facilmente scontrarsi con l’immagine quasi rivoluzionaria di candidato nero. Obama riuscì a superare questa contraddizione e, lungi dal voler essere il candidato della comunità nera, presentò i problemi di quest’ultima come problemi dell’intero Paese e dei suoi cittadini più svantaggiati e si richiamò ai principi originari – universali anche se formulati da bianchi – della nazione. Per questo egli si dichiarò americano e patriota americano, con l’intento di riportare la comunità nera nella nazione e di riunificare il Paese attorno a un pragmatico operare al fine di risolverne le necessità concrete.
La campagna elettorale fu dura, ma senza asprezze. McCain lottò fino all’ultimo sotto il doppio handicap di un Bush sempre più impopolare e della durissima crisi economica che segnò l’intera campagna. Ai primi del 2008 era infatti scoppiata la bolla dei mutui immobiliari subprime, concessi con enorme facilità e senza badare alle garanzie di solvibilità dei mutuatari da banche il cui vero guadagno consisteva nel trasformare la massa dei mutui in titoli complessi, i cosiddetti derivati, che venivano venduti in enorme quantità sul mercato interno e internazionale. Quando un numero crescente di debitori non riuscì più a pagare le rate dei mutui, l’intero meccanismo saltò dando vita a una crisi che travolse, dall’estate 2008, banche, istituti finanziari e agenzie di rating e si trasformò in crisi economica che dal settore finanziario si trasmise a fine anno a quello produttivo, soprattutto all’industria automobilistica. La crisi mise in ombra i risultati che il surge stava ottenendo in ῾Irāq, senza contare che questi ultimi parevano del tutto insufficienti all’opinione pubblica per l’incapacità dell’amministrazione di trovare rimedio ai problemi iraniano e afghano.
Il 4 novembre dello stesso anno Obama sconfisse nettamente McCain ottenendo 69.297.997 voti popolari e 365 voti elettorali contro 59.597.520 e 173 del suo avversario. Il Partito democratico, a sua volta, ottenne significative maggioranze sia al Senato sia alla Camera. La destra cristiana, non molto entusiasta di McCain, mantenne un basso profilo e in parte si astenne, anche se questo fatto da solo non basta a spiegare la sconfitta repubblicana. Il voto, nel suo complesso, può ritenersi una conseguenza dell’ostilità nei confronti di Bush, della crisi economica e dell’ulteriore accelerazione dei mutamenti sociali già evidenziati dal censimento del 2000, come si evince dal fatto che, capovolgendo una tendenza pregressa, Obama conquistò il voto dei giovani e della minoranza latina. Nel periodo antecedente l’insediamento alla Casa Bianca, il 20 gennaio 2009, il nuovo presidente formò un governo che suscitò perplessità in molti ambienti liberal, non tanto per aver scelto la sua ex avversaria Clinton come segretario di Stato, quanto per aver fatto ricorso a personalità moderate dell’entourage dell’ex presidente Bill Clinton e per l’approccio bipartisan che lo portò a riconfermare Henry Paulson nella carica di segretario al Tesoro. La mossa, che rispecchiava sia la necessità di avere un gabinetto composto da persone di vasta esperienza per affrontare la crisi economica, sia il messaggio di pragmatismo che Obama aveva mandato agli Stati Uniti, venne bilanciata dal discorso alla nazione pronunciato il giorno del giuramento e dai suoi primissimi atti da presidente, con i quali sembrò rompere definitivamente con il passato richiamandosi alla tradizione liberal in politica interna e sottolineando la necessità del multilateralismo e del dialogo in quella internazionale.
Bibliografia
I.H. Daalder, J.M. Lindsay, America unbound, Washington D.C. 2003 (trad. it. Milano 2005).
D. Frum, R. Perle, An end to evil, New York 2003 (trad. it. Estirpare il male, Torino 2004).
S. Halper, J. Clarke, America alone. The neo-conservatives and the global order, Cambridge 2004.
B. Woodward, Plan of attack, New York 2004 (trad. it. Milano 2004).
M.P. Fiorina, S.J. Abrams, J.C. Pope, Culture war? The myth of a polarized America, New York 2005.
B. Obama, The audacity of hope. Thoughts on reclaiming the American dream, New York 2006 (trad. it. Milano 2007).
K.P. Phillips, American theocracy, New York 2006 (trad. it. Milano 2007).
The polarized presidency of George W. Bush, ed. G.C. Edwards III, D.S. King, Oxford-New York 2007.
F. Zakaria, The post-American world, New York-London 2008 (trad. it. L’era post-americana, Milano 2008).
Change we can believe in. Barack Obama’s plan to renew America’s promise, New York 2008.