Politica e sviluppo in America Latina
Studiando il Sudamerica nel primo decennio del 21° sec., gli storici cercheranno un giorno di rispondere alle domande che già assillano chi lo vive. Sapranno forse dirci se hanno ragione coloro che lo ritengono un’epoca di svolta, di compiuta occidentalizzazione segnata dal consolidamento dello Stato di diritto, dall’adeguamento all’economia di mercato e dall’integrazione attiva al sistema internazionale. O, viceversa, se la ragione è di quanti vi colgono antichi e ricorrenti tratti, evidenti in un nuovo ciclo di populismo politico, nazionalismo economico e reazione antiliberale destinato ad allontanare la regione dal resto dell’Occidente e a condurla lungo una strada più adeguata alle sue caratteristiche.
Tuttavia, poiché la storia non suole dare torto né ragione, è verosimile che gli storici propenderanno anch’essi per l’una o l’altra ipotesi, oppure, più probabilmente, sosterranno che entrambe sono in parte fondate. Ciò facendo accrediteranno l’impressione, assai diffusa, che l’inizio del 21° sec. sia per il Sudamerica una delicata fase di profondi cambiamenti, ma anche che tali cambiamenti non siano univoci, né ovunque contemporanei, e che di Sudamerica ve ne siano vari e diversi tra loro. C’è un Sudamerica guidato da Cile e Uruguay, a quanto pare incamminato sulla prima via, ce n’è un altro, con Venezuela e Bolivia in testa, più orientato verso la seconda, con tutti gli altri collocati in qualche punto tra le due vie, taluni come Brasile e Perù più vicini alla prima, altri, come Argentina e Colombia, in bilico tra le due, e altri ancora, come Paraguay ed Ecuador, più attratti dalla seconda; salvo affrontare tutti sfide analoghe: il consolidamento della democrazia, il decollo economico, l’integrazione sociale, la cooperazione regionale.
Antiche piaghe e boom economico
L’ingresso del Sudamerica nel nuovo secolo non è stato trionfale, almeno in termini economici. Contagiata dagli effetti sui mercati finanziari della crisi russa, l’economia della regione è piombata, tra il 1999 e il 2002, in una fase di piatta stagnazione o addirittura, come l’Argentina nel 2001, in una crisi dai contorni drammatici. Da allora, però, e fino al 2008, la crescita economica è stata ovunque sostenuta e costante, a tassi medi di circa il 6% annuo, pari al doppio del trend storico dell’area, e dunque, nel complesso, davvero eccezionale. Non solo, ma pur essendo maggiore in alcuni Paesi, ha interessato tutti senza eccezione, a prescindere dagli orientamenti economici e ideologici dei singoli governi. Sul finire del decennio, infine, le nuove turbolenze che hanno investito l’economia mondiale a seguito della crisi finanziaria statunitense hanno messo a dura prova le economie del Sudamerica, misurando la consistenza di quanto edificato negli anni di prosperità e obbligandole a fare dei bilanci.
Gli ottimisti tendono a credere che la crescita economica sia stata robusta e sana, e non fragile e velleitaria come altre volte, che sia stata amministrata nella maggior parte dei casi con pragmatismo e razionalità e non, come in passato, subordinando le leggi dell’economia al primato della politica e dell’ideologia, che le fondamenta economiche della regione siano perciò oggi più solide, rendendo pertanto quest’area assai meno vulnerabile di un tempo alle crisi economiche internazionali (Santiso 2006). A riprova di ciò esistono numerosi indizi: la forte crescita economica è stata accompagnata quasi ovunque da un corposo incremento dell’ingresso di capitali esteri, da un vero e proprio boom del mercato azionario e dal rafforzamento delle valute locali. Anche l’inflazione, causa in passato di tremendi disastri, è stata tenuta sotto controllo. E ancora: molti Paesi, e l’area nel suo complesso, hanno bilanci in attivo, sono riusciti a ridurre il peso del debito pubblico e quello verso l’estero in particolare, hanno accumulato ingenti riserve internazionali e, a differenza che in passato, non hanno bilance dei pagamenti in passivo, bensì in attivo, cioè risparmiano e non vanno a prestito. Buona parte di essi gode ormai di un certo credito o perfino, come nel caso del Cile, di un vero e proprio prestigio presso le agenzie internazionali che studiano e valutano i rischi corsi dagli investitori.
Su un altro versante, tuttavia, non si può dire siano meno solidi gli argomenti dei pessimisti o, meglio, dei realisti (Izquierdo, Talvi 2008). Essi ritengono che la crescita economica del Sudamerica sia avvenuta più che altro grazie a particolari circostanze esterne, indipendenti dall’operato dei governi della regione: alla crescita mondiale, agli alti prezzi delle materie prime, alle condizioni finanziarie propizie sui mercati internazionali. Dati alla mano, pensano che in assenza di tali fattori le economie del Sudamerica si sarebbero incrementate a ritmi assai più normali, simili a quelli storici di lunga durata; non solo, osservano che la regione è comunque cresciuta meno e mantiene una produttività più bassa delle altre aree emergenti del globo. Anche gli altri indicatori economici, sotto la loro lente, appaiono meno rosei e fanno dubitare che le cose siano diverse rispetto al passato: le politiche fiscali sono ovunque, salvo in Cile, meno virtuose di quanto parrebbe, dal momento che la spesa pubblica è cresciuta altrettanto rapidamente dell’economia e solo una minima parte di essa, appena la metà di quella asiatica, consiste in investimenti; la bilancia dei pagamenti dell’area, qualora si sgonfiassero i prezzi delle materie prime, piomberebbe all’istante in un nuovo deficit, con relativa vulnerabilità agli shock esterni. Vista così, l’economia sudamericana appare meno florida che alla prima impressione e, benché migliorato, il suo governo tende a crogiolarsi sui successi temporanei invece di approfittare delle condizioni favorevoli per rinsaldare l’intero edificio, attuando incisive riforme fiscali, riducendo il peso del debito pubblico, contenendo la spesa corrente, incentivando innovazione e produttività. Il rischio, in tale ottica, è dunque che questo decennio sia ricordato come quello delle opportunità perdute.
Detto ciò, e nonostante una crescita economica trainata dall’economia globale, il primo decennio del 21° sec. verrà anche ricordato, in Sudamerica, per la diffusa contestazione del modello economico neoliberale (After the Washington consensus, 2003). Per gran parte degli anni Novanta del 20° sec. la sua affermazione si era basata sul declino del modello economico dirigista, prevalso per decenni, e sull’apparente trionfo dell’economia aperta, globalizzata. I suoi risultati ondivaghi e l’aggravamento delle sperequazioni sociali spesso imputategli, tuttavia, hanno con il nuovo secolo alimentato diversi tipi di reazione, perlopiù tendenti ad accrescere il ruolo dello Stato nel governo dell’economia. Sul piano economico, tali reazioni sono state di tipo riformista e pragmatico, laddove le istituzioni politiche erano più salde e stabili, la società meno divisa e l’eredità del modello neoliberale meno negativa o traumatica. Si pensi ai casi di Cile, Brasile, Perù, Uruguay e, almeno in parte, della Colombia, peraltro minata da atavici problemi; tutti Paesi dove lo Stato, pur tendendo a espandere il raggio della propria azione, s’è premurato di conservare gli equilibri macroeconomici, non ha condotto crociate contro la globalizzazione e gli organismi finanziari internazionali, né ha invocato nuovi e rivoluzionari modelli economici. In questi casi si può dire che l’economia di mercato ha allargato la propria sfera di consensi, storicamente scarsi in quest’area, grazie anche alle politiche pubbliche volte a temperarne taluni effetti sociali, pur se in maniera non omogenea all’interno della regione.
Le reazioni al modello neoliberale sono state invece molto più radicali laddove hanno coinciso con il crollo del sistema politico tradizionale, come in Venezuela, con l’esplosione di questioni etniche e politiche a lungo irrisolte, in Bolivia, Ecuador e Paraguay, oppure, nel peculiare caso dell’Argentina, per molti versi al bivio tra le due vie, con crisi sociali ed economiche particolarmente acute. In tali Paesi sia i governi sia un nutrito fronte di movimenti sociali o indianisti hanno teso ad avversare in blocco l’economia di mercato, seppur con gradi assai diversi di radicalità, e a teorizzare, e talvolta praticare, una sorta di ritorno a modelli economici dirigisti e nazionalisti, a modelli, cioè, dove lo Stato riprende il controllo delle principali risorse e delle leve economiche, dove la politica e l’ideologia aspirano a imporsi sull’economia e una sorta di autarchia regionale dovrebbe fungere da argine alla globalizzazione.
In una prospettiva storica, questo schematico panorama rivela un’evidente novità, in taluni casi più solida che in altri, e che comunque solo il tempo dirà se irreversibile o meno: il fatto che in una regione solcata da profonde divisioni etniche e sociali, pervasa di un immaginario sociale storicamente ostile all’ethos capitalista e dove l’economia di mercato è stata spesso imposta manu militari a popolazioni perlopiù attratte da politiche populiste, oltre il 70% dei sudamericani in Paesi che producono circa i tre quarti del prodotto regionale vive oggi sotto governi liberamente eletti, che praticano, con diversi gradi di coerenza e razionalità, ma senza infingimenti, politiche economiche di impronta capitalista.
Il quadro dell’economia sudamericana all’inizio del 21° sec. sarebbe però incompleto se non includesse altre valutazioni e altri fattori, alcuni dei quali suscettibili di divenire in futuro sempre più influenti nel determinarne la stabilità o la vulnerabilità. Tra di essi spicca senz’altro l’emergere di nuovi partner economici, sia sul terreno commerciale sia su quello finanziario. Gli scambi con la Cina, in particolare, partner residuale della regione appena all’inizio del secolo, si sono moltiplicati grosso modo per dieci nell’arco di pochi anni, al punto di farne, per Paesi come Argentina, Brasile, Cile e Perù, un punto di riferimento strategico e un significativo contrappeso alla tradizionale influenza statunitense. E ciò nel quadro di un vero e proprio boom del commercio estero sudamericano, sia in uscita sia in entrata, all’incirca triplicatosi nei primi otto anni del 21° secolo.
Chiarite queste tendenze generali, occorre dedicare uno sguardo più ravvicinato agli equilibri economici regionali, per evitare il rischio di un’indebita generalizzazione tra casi molto diversi tra loro. Se in termini di capacità economica il Brasile era e rimane la grande potenza sudamericana e la decima al mondo, non si può dire che le gerarchie economiche sudamericane siano rimaste immobili nel primo decennio del nuovo secolo. Per es., in termini di reddito annuo pro capite, un indicatore grezzo ma significativo, si può osservare che quattro Paesi della regione – Cile, Argentina, Venezuela e Uruguay – figurano come in passato tra quelli a reddito medio-alto del globo. Tutti, infatti, si situano tra il 57° e il 64° posto del ranking mondiale con redditi compresi tra gli 11.000 e i 14.000 dollari. Tra di essi, però, il Cile ha compiuto un balzo in avanti, riuscendo a superare al vertice della graduatoria regionale l’Argentina, la quale, insieme all’Uruguay, progredisce a ritmi assai più lenti, e distanziando il Venezuela, relativamente forte per reddito pro capite, ma decisamente più arretrato se si considerano altri indicatori socioeconomici.
Dietro questi Paesi, appagato da una crescita non troppo rapida ma solida e costante negli ultimi anni, il Brasile guida la schiera degli Stati sudamericani compresi tra il 79° e il 91° posto della graduatoria mondiale, con redditi annui pro capite tra i 7000 e i 10.000 dollari: nell’ordine, Colombia, Perù ed Ecuador, tre Repubbliche andine che anche in termini di sviluppo umano appartengono a questa fascia intermedia, a differenza del Brasile, recentemente entrato in quella superiore. Fanalini di coda, sia in termini di sviluppo umano sia di reddito pro capite – dove occupano il 111° e il 117° posto nella graduatoria mondiale, con redditi compresi tra i 4000 e i 4500 dollari annui –, continuano a essere, infine, Paraguay e Bolivia (International monetary fund 2008).
La società sudamericana in movimento
Quel che vale per l’economia vale anche, in gran parte, per i più sensibili indicatori sociali dei Paesi sudamericani, quali la povertà, la disuguaglianza e l’occupazione; indicatori stagnanti all’inizio del nuovo secolo, poi in via di progressivo e talvolta rapido miglioramento a partire dal 2002 e infine messi a dura prova dalla nuova tempesta economica sopravvenuta nel 2008. E come per l’economia, così per i trend degli indicatori sociali, sia gli organismi internazionali sia i più attenti osservatori tendono a dividersi tra coloro che ritengono solidi e di lungo periodo i miglioramenti dell’ultimo decennio e quanti, pur riconoscendone la portata e il significato, ne sottolineano l’insufficienza e talune intrinseche debolezze (Comisión económica para América Latina y el Caribe 2008).
In proposito, i dati sulla povertà sembrerebbero parlare chiaro ed essere incoraggianti: se è vero, infatti, che circa il 30% dei sudamericani, pari a circa 120 milioni di persone, risulta povero nel 2007, in realtà nei cinque anni successivi al 2002 quel tasso s’è ridotto del 10% e più o meno 25 milioni di persone sono uscite da quella condizione. E se nel 2002 circa la metà dei poveri viveva di fatto nell’indigenza, nel 2007 tale percentuale si è ridotta a un terzo. Guardando più da vicino le singole realtà nazionali, si notano naturalmente enormi differenze da uno Stato all’altro, dal momento che rispetto a Paesi come Cile, Uruguay e Argentina, dove i poveri non superano il 20% della popolazione, si collocano, all’estremo opposto, i casi di Paraguay e Bolivia, dove i poveri oltrepassano il 50%; con Brasile e Venezuela più vicini al primo blocco e Perù, Colombia ed Ecuador al secondo. In tutti, benché in taluni più che in altri, l’indice che misura il grado di povertà è sensibilmente sceso a partire dal 2002, riprendendo un trend iniziato intorno al 1990.
Ciò, tuttavia, non deve essere motivo di facili illusioni sugli sviluppi futuri. Infatti, non è detto che la percentuale e il numero dei poveri continueranno a diminuire, essendo più che mai evidente il rapporto di causa ed effetto tra questi dati e la robusta crescita economica sperimentata dal Sudamerica per buona parte del primo decennio del 21° secolo. Solo in alcuni Paesi (Bolivia, Brasile e Cile) la diminuzione del tasso di povertà degli ultimi anni è stata in maggior parte effetto di politiche ridistributive, mentre negli altri è stata perlopiù la mera ricaduta della crescita del reddito medio, specie in Colombia ed Ecuador. Quale sarà, dunque, l’impatto su tale tendenza della nuova crisi economica internazionale esplosa nel 2008? Esiste il rischio che una nuova stagnazione, o addirittura una recessione, faccia ripiombare nella miseria gran parte di coloro che ne sono appena usciti? Già negli ultimi anni, di fatto, l’aumento dei prezzi di numerosi beni alimentari ha frenato il processo in corso, bloccando l’uscita dalla povertà di alcuni milioni di individui. In futuro, pensano in molti, la chiave perché una grave crisi non divori i progressi compiuti sarà la capacità dei governi di impedire, attraverso l’adozione di politiche fiscali, occupazionali e sociali ben mirate, che il suo costo ricada principalmente sui settori più poveri e fragili della società.
Se in termini di reddito medio l’America Latina suole storicamente posizionarsi a metà strada tra il Nord industrializzato e le aree più povere del globo, in materia di sperequazioni sociali è sempre stata e continua a essere la prima della graduatoria mondiale: il reddito pro capite del 10% più ricco dei sudamericani rimane circa 15 volte quello del 40% più povero, con estremi che vanno dall’Uruguay e dal Venezuela, dove il rapporto è di 9 a 1, alla Colombia, dove è di 25 a 1. Ciò nonostante, anche in questo caso dal 2002 in poi sono avvenuti significativi cambiamenti, almeno in Argentina, Venezuela, Bolivia, Brasile, Cile e Paraguay, dove lo scarto tra i due estremi s’è ridotto, in alcuni casi in misura più consistente che in altri. In Colombia, Perù ed Ecuador, invece, non vi sono stati particolari cambiamenti in tal senso, e nemmeno in Uruguay, dove i contrasti sociali sono assai più contenuti. Da un lato, si può osservare che i livelli di disuguaglianza hanno in tal modo raggiunto il limite più basso da un ventennio a questa parte ma, dall’altro, non si può fare a meno di notare che essi tendono a scendere a ritmi estremamente lenti, nonostante la forte crescita economica degli ultimi anni. Poiché laddove vi sono stati consistenti miglioramenti su questo fronte a generarli sono state soprattutto le maggiori opportunità di un lavoro più qualificato e ben pagato, si direbbe che proprio questo sarà il terreno chiave per dare maggiore sostanza alla lotta contro la povertà e la disuguaglianza.
Il mercato del lavoro sudamericano ha perlopiù seguito, nel primo decennio del 21° sec., l’andamento del ciclo economico. Asfittico all’inizio, ha cominciato a produrre abbondanti opportunità lavorative dopo il 2002, consentendo un notevole abbassamento dei tassi di disoccupazione. Certo, nel complesso questi ultimi rimangono nel 2008 un po’ più elevati dei vent’anni precedenti, ma è altrettanto vero che, mentre i disoccupati erano aumentati durante la crescita economica degli anni Novanta del 20° sec., questa volta sono diminuiti in maniera considerevole, specie in Argentina, Colombia, Venezuela e Uruguay, dove all’inizio del secolo dilagava la disoccupazione. Se il trend è in sé incoraggiante, tuttavia non si può dire che il mercato del lavoro sudamericano si sia liberato delle pastoie strutturali che lo affliggono: il tasso di disoccupazione, per es., è sì calato anche tra giovani, donne e poveri, ma il gap tra tali settori della società e gli altri rimane troppo elevato per non far temere che il rallentamento della crescita economica tenderà nuovamente a espellerli. E non è tutto, poiché fin troppo tipico del mercato del lavoro sudamericano rimane il cosiddetto settore informale, cioè un vasto ambito di occupazioni malpagate, di bassa qualità e produttività che non garantiscono sicurezza sul lavoro, né danno accesso ai sistemi di previdenza sociale. La crescita economica ha consentito di riassorbirne una piccola parte all’interno del mercato del lavoro formale, ma risulta poco più che irrisoria se si considera che, con l’unica eccezione del Cile, in tutti i Paesi della regione il settore informale occupa oltre il 40% dei lavoratori. In proposito le differenze sono talvolta abissali: laddove in Cile, per es., la percentuale dei lavoratori che versa contributi al sistema previdenziale è circa il 70%, in Bolivia, Ecuador, Perù e Paraguay raggiunge a malapena il 30%, il che significa che in tali casi la maggior parte della popolazione è priva di alcun accesso a un sistema di protezione sociale. Tipico dell’America Meridionale, in sintesi, benché un po’ meno che in passato, rimane il fenomeno dei lavoratori poveri, cioè di individui che hanno un’occupazione ma non riescono a vivere del lavoro, il quale non garantisce loro salari sufficienti per sostenere sé stessi e le proprie famiglie. Da questa spirale è possibile uscire soltanto attraverso la creazione di un maggior numero di occupazioni a più elevato tasso di produttività e dunque meglio retribuite. Ma la produttività del lavoro è uno dei fronti in cui il Sudamerica ha compiuto meno progressi nell’ultimo ventennio, se si escludono i casi di Cile e Brasile, dove infatti la povertà è notevolmente diminuita tra i lavoratori, nella misura in cui è cresciuto il potere d’acquisto dei loro salari.
La continuità o, possibilmente, l’accelerazione delle tendenze positive affermatesi all’inizio del nuovo secolo in Sudamerica sul fronte della riduzione della povertà e della disuguaglianza dipenderà senz’altro in buona misura dal ciclo economico, a sua volta condizionato in gran parte dall’andamento dell’economia mondiale. Ma altrettanto, se non più, importante sarà la capacità dei governi locali di adottare politiche pubbliche razionali ed efficienti, cioè estranee alla fin troppo radicata logica della distribuzione indiscriminata di risorse a fini elettorali e clientelistici, e di realizzare investimenti sociali destinati a dare frutti con il tempo. A tale proposito va notato che i Paesi della regione, benché taluni più di altri, hanno cominciato o stanno continuando a usufruire in questi primi anni del 21° sec. (e così sarà ancora per qualche decennio), di quello che si suole chiamare il bonus demografico, cioè di quella peculiare fase in cui la quantità di popolazione in età produttiva cresce a ritmi più sostenuti di quella (bambini e anziani) in età non produttiva. Tale bonus, tuttavia, produrrà dividendi solo se sfruttato a dovere, se i governi della regione sapranno oppure vorranno realizzare investimenti produttivi, specie sul capitale umano, approfittando della riduzione della pressione demografica sui gradi primari dei sistemi educativi nazionali. Un obiettivo chiave, in tal senso, dovrebbe essere quello di estendere e migliorare la qualità dell’insegnamento secondario e superiore, una via su cui sono allineati i Paesi più avanzati – Argentina, Brasile, Cile e Uruguay – mentre tutti gli altri registrano ancora un forte ritardo.
Il panorama sociale sudamericano che si sta delineando apparirebbe distorto se non se ne considerassero alcune tare ataviche ed endemiche, non intaccate seriamente dal miglioramento degli indicatori sociali e insieme causa ed effetto dei gravi problemi sociali di gran parte dei Paesi della regione. Tra di esse spicca la violenza, perlopiù connessa all’azione dei grandi gruppi criminali che gestiscono il narcotraffico o a bande dal raggio d’azione più limitato che praticano l’estorsione, la rapina, i rapimenti e altre attività delittuose, su cui i dati non sono affatto rosei: non soltanto, infatti, gli episodi di violenza sono cresciuti nell’ultimo decennio, benché rimangano abissali le differenze tra gli estremi di Uruguay e Cile da un lato e le più colpite Colombia e Venezuela dall’altro, ma sono soprattutto i giovani (sia come carnefici sia come vittime) a esserne protagonisti, e tra di essi i maschi rappresentano almeno il doppio delle donne. Va da sé che i governi della regione insistano sulla necessità di espandere i piani di integrazione sociale rivolti a giovani e adolescenti, nella convinzione che l’investimento sulla prevenzione sociale della criminalità sia più adeguato e meno costoso degli effetti sociali ed economici della violenza stessa. Per il momento, tuttavia, tali strategie non hanno dato i frutti sperati e si deve registrare come in diversi Paesi dell’area la violenza sia ancora in cima ai timori dell’opinione pubblica.
Modelli di democrazia a confronto
Se si getta soltanto uno sguardo affrettato al panorama politico del Sudamerica nel primo decennio del 21° sec., si rischia di non coglierne, dandolo per scontato, l’elemento che forse più di ogni altro lo caratterizza, almeno in una prospettiva storica: il fatto che, pur se spesso tra limiti e imperfezioni, sfide e minacce, tutti i Paesi della regione vivono in democrazia, nella maggior parte dei casi da un ventennio e anche più, e la forma di tale democrazia è quella rappresentativa tipica dei regimi politici occidentali. Osservato questo fenomeno senza precedenti per durata ed estensione nella storia sudamericana, tale da indurre molti scienziati sociali a cogliervi un indicatore del cammino sudamericano verso la compiuta occidentalizzazione, rimangono però da vedere lo stato di salute di tali democrazie, le tendenze dei governi che le hanno guidate o le stanno guidando, l’impatto su di esse di vecchi o nuovi attori sociali, i problemi insoluti che ancora le affliggono e quelli che presumibilmente dovranno affrontare nel prossimo futuro.
I sondaggi d’opinione più affidabili rilevano che l’opinione pubblica sudamericana ha dato segni di crescente soddisfazione sulla propria condizione e ancor più sulle prospettive future: i sudamericani contenti e speranzosi erano circa il 40% nel 1997 e quasi il 70% un decennio dopo (Latinobarómetro 2008). Il che non toglie che abbiano continuato a manifestare scetticismo e forti critiche nei confronti delle istituzioni democratiche e della classe politica in generale; una circostanza difficile da valutare, naturalmente, dal momento che può essere interpretata sia come espressione delle aspettative crescenti di una popolazione più consapevole ed esigente, sia come il riflesso di una radicata diffidenza nei confronti della politica in senso lato e dei politici di professione, sia, infine, come l’effettiva insoddisfazione per il modo in cui la democrazia funziona.
In linea generale non v’è dubbio che la democrazia si stia lentamente consolidando e che dal 2000 in poi si sia rivelata in grado di metabolizzare o promuovere importanti forme di rinnovamento: l’alternanza pacifica di governo è divenuta la norma e non l’eccezione, le crisi politiche sono state ovunque risolte nel rispetto formale della Costituzione, i presidenti hanno solitamente terminato il loro mandato senza essere deposti, il principio elettorale come fonte di legittimazione del potere pare avere cancellato l’eco delle vecchie sirene golpiste. Anche sul piano del rinnovamento della leadership sono intervenute significative trasformazioni, di cui è emblematico il fatto che il Brasile sia governato da un sindacalista, la Bolivia da un indiano e che Cile e Argentina abbiano eletto due donne. La qualità delle istituzioni e l’ethos democratico, tuttavia, non sono ovunque uguali e al fianco di democrazie più o meno consolidate e stabili, come quelle di Uruguay e Cile, e in parte di Brasile e Argentina, se ne affiancano altre, specie nell’area andina, assai più fragili. I problemi che le affliggono sono in generale noti e antichi, a cominciare da un eccesso di concentrazione del potere nella figura presidenziale, dalla scarsa strutturazione dei sistemi e dei partiti politici, dalla limitata autonomia del potere legislativo e giudiziario e dalla loro debole funzione di contrappesi del potere esecutivo (Latin American democracy, 2008). Riflesso di tali vizi sono le ricorrenti tentazioni di questo o quel leader di sfruttare la propria popolarità per governare in forma plebiscitaria, scavalcando ogni istanza autonoma, oppure di modificare le regole costituzionali per prolungare la permanenza al potere, come avvenuto in Paesi agli antipodi politici come Venezuela e Colombia. La diffusione, ancora molto vasta in quasi tutti gli Stati dell’area, della corruzione politica e di inveterate pratiche clientelari e nepotistiche, infine, non giova in molti casi all’immagine e popolarità della classe politica, la quale è ancora spesso percepita dall’opinione pubblica come una sorta di privilegiata oligarchia, la cui funzione è essenzialmente quella di impadronirsi della cosa pubblica per distribuire prebende ai fedeli e negarle agli avversari.
Al di là dei successi e dei limiti, il problema del consolidamento della democrazia in Sudamerica rinvia anche ad altri, più annosi e profondi dilemmi di cui è intrisa la storia della regione. In primo luogo, alla difficoltà di acclimatamento della democrazia rappresentativa in un contesto sociale caratterizzato, nelle repubbliche andine più che in quelle del Cono Sud, da profonde disuguaglianze sociali, cui si sommano solitamente spessi e antichi steccati etnici. La capacità, in tali casi, delle istituzioni democratiche di soddisfare con successo e in tempi brevi le enormi aspettative di integrazione simbolica e di miglioramento materiale dei vasti settori sociali emarginati è per definizione relativa e dunque aleatorio ne è il consolidamento. In secondo luogo, l’espansione della democrazia politica in Sudamerica deve necessariamente fare i conti, oggi come in passato, con la straordinaria vitalità, nella cultura politica e nell’immaginario sociale di vasti strati della popolazione, di un concetto di democrazia alternativo a quello liberale impostosi nel resto dell’Occidente; un concetto populista di democrazia estremamente sensibile ai temi della ridistribuzione della ricchezza e dell’integrazione sociale dei settori popolari, ma refrattario al pluralismo e portato a trasporre nella sfera politica l’universo etico manicheo del pensiero religioso.
L’inizio del 21° sec. ha colpito gli osservatori e resterà verosimilmente impresso nella storia come l’epoca della svolta a sinistra (Leftovers. Tales of the Latin American left, 2008). Fatta eccezione per la Colombia, l’unico Paese della regione ancora alle prese con la lotta armata e governato per gran parte del decennio dal conservatore Álvaro Uribe, tutti gli altri hanno prima o dopo eletto presidenti, governi o coalizioni di sinistra. Tale circostanza induce naturalmente a interrogarsi sulle cause e su cosa significhi concretamente il concetto di ‘sinistra’ nel contesto sudamericano degli anni Duemila, ma anche a domandarsi in che misura sia lecito accomunare una gamma così variegata di esperienze nazionali.
Sulle cause di tale svolta esiste un generico consenso: gli esperimenti neoliberali prevalsi negli anni Novanta come riflesso locale dell’onda lunga della globalizzazione avrebbero affossato quel che restava degli antichi Stati protettori e dirigisti, creando le condizioni di una crescente anomia sociale, a sua volta frutto di sempre maggiori sperequazioni e del trionfo dell’ethos individualista su quello comunitario del passato. Ciò non solo avrebbe tradito le aspettative di miglioramento riposte nella democrazia politica da parte di vasti strati sociali, ma anche imposto una sorta di tirannia dell’economia e delle sue leggi sulla politica e sulle sue scelte sovrane. Da questo sarebbe sorta, come reazione, una crescente domanda di integrazione e protezione sociale e di ritorno al primato della politica, destinata a orientarsi naturalmente verso le idee e i partiti della sinistra. Se così, in generale, stanno le cose, occorre però distinguere diverse ‘sinistre’ e diversi ‘contesti’ e osservare che probabilmente non tutte le sinistre sudamericane negli eterogenei contesti della regione camminano nella stessa direzione né sono semplici affluenti di un unico, gigantesco fiume, e che il modello neoliberale imperante agli albori del nuovo secolo non è stato un calco applicato ovunque nella stessa maniera, né ha dato in tutte le realtà i medesimi, disastrosi risultati.
A costo di semplificare e schematizzare, cioè di ricondurre a fenomenologie affini casi diversi tra loro, si possono individuare due tendenze dominanti, peraltro familiari alla sinistra occidentale, una più moderata e riformista, un’altra radicale e massimalista, talvolta aperte alla reciproca collaborazione, tuttavia in prospettiva votate a crescenti conflitti. La prima, quella riformista, è forse il fenomeno più nuovo del panorama politico sudamericano dell’ultimo decennio, se non altro per le dimensioni e il prestigio raggiunti. Non v’è dubbio, infatti, che la storia della sinistra sudamericana sia stata storicamente dominata da correnti radicali, rivoluzionarie o populiste. A caratterizzarla sono alcuni precisi tratti: la scelta strategica, e non strumentale, della democrazia rappresentativa e l’elaborazione di una cultura politica pluralista; il perseguimento dell’equità sociale nel rispetto della disciplina macroeconomica e dei vincoli imposti dall’economia di mercato; il pragmatismo volto alla conquista dei ceti medi, perlopiù decisivi nel conferirle la vittoria elettorale; una politica internazionale improntata all’apertura e al multilateralismo, ma scevra dalla tentazione di coltivare un fronte antimperialista e antioccidentale; la consapevolezza che i miglioramenti sociali richiedono tempo e non ammettono scorciatoie e che perciò l’evoluzione è preferibile alla rivoluzione. Non è un caso che i rappresentanti di tale corrente, pur diversi tra loro – Luiz Inácio da Silva, detto Lula, in Brasile, Michelle Bachelet Jeria in Cile, Tabaré Vázquez in Uruguay e, per certi versi, Alan García Pérez in Perù –, siano divenuti più moderati al governo di quanto non fossero all’opposizione e si siano guardati dal rivoluzionare l’assetto istituzionale ereditato dai predecessori.
La seconda tendenza della sinistra sudamericana, peraltro eterogenea, è decisamente più radicale, adotta un linguaggio rivoluzionario e coltiva un afflato rigeneratore delle strutture materiali e spirituali della società e della nazione. Tende a emergere e imporsi nei Paesi in cui maggiori sono le spaccature sociali ed etniche e più fragili gli assetti istituzionali. Anch’essa ha tratti netti e definiti: pur rispettando i riti della democrazia di tipo liberale ambisce a soppiantarla con un modello partecipativo, nel quale il popolo, inteso come comunità omogenea per storia, etnia o condizione sociale, troverebbe riscatto e protezione; all’economia di mercato contrappone le bandiere classiche del nazionalismo economico e alla disciplina macroeconomica la propensione alla lievitazione della spesa pubblica in nome del primato della politica e dell’ideologia; al pragmatismo contrappone la polarizzazione, sia in termini di scontro tra classi sia, ancor più, in termini di contrapposizione etica tra popolo e oligarchia; sul piano internazionale si sforza di formare un asse, dentro e fuori la regione, ostile agli Stati Uniti in particolare e più in generale alle potenze occidentali; suole, dove trionfa, rinnegare il contesto istituzionale e legislativo ereditato e procedere, con ampio sostegno popolare ma a costo di aspri conflitti politici e istituzionali, alla sua trasformazione attraverso radicali cambiamenti costituzionali. Capofila di tale tendenza è senza dubbio il leader venezuelano Hugo Chávez Frías, ma a essa si inscrivono, con modalità peculiari dovute ai differenti contesti e ai diversi profili personali, i casi di Evo Morales Ayma e Rafael Correa Delgado in Bolivia ed Ecuador (Populism and the mirror of democracy, 2005).
A cavallo, infine, tra tali tendenze, in parte diversi da entrambe e in parte con tratti comuni e oscillanti tra l’una e l’altra, troviamo i casi di Argentina e Paraguay. La prima è uscita dal fallimentare governo riformista di inizio secolo e dal tracollo economico in cui era precipitata aggrappandosi nuovamente a una guida peronista, quella di Néstor Carlos Kirchner prima e della moglie Cristina Fernández poi: una leadership combattuta tra un’inveterata cultura politica nazionalista e populista e un contesto regionale e globale che inducono a contenerne gli aspetti più radicali. Si trova invece in piene doglie da democratizzazione il secondo, afflitto da arretratezza economica, polarizzazione sociale e disarticolazione politica e dunque portato a seguire le sirene della sinistra radicale e populista, cui il presidente Fernando Lugo, ex sacerdote eletto nel 2008, sarebbe ancor più sensibile se i vincoli economici e la collocazione geopolitica non gli imponessero grande circospezione.
Rispetto al passato si può dire che non tutte ma la maggior parte delle democrazie latino-americane sia soggetta oggi a minori pressioni e minacce e dunque rischi meno di un tempo di tornare alla tradizionale oscillazione tra ‘piazze e caserme’ (Castronovo 2007), cioè tra il polo populista e quello militare della storia regionale. Da un lato, i nuovi soggetti radicali, come taluni governi, movimenti sociali o partiti indianisti cresciuti con forza nell’ultimo decennio, raramente offrono concrete alternative alla democrazia rappresentativa e in ogni caso non teorizzano, salvo eccezioni, vie violente alla conquista del potere. Dall’altro, le forze armate, un tempo assurte a organizzazione tutelare dell’ordine politico e sociale, sono confinate nelle caserme e, pur conservando in molti casi una certa quota di influenza, non paiono potere né volere assumersi responsabilità politiche che non competono loro e che pochissimi, nelle opinioni pubbliche, avallerebbero. In quanto ai movimenti guerriglieri, anch’essi sono usciti di scena ormai da tempo, con l’unica, importante eccezione della Colombia, dove paiono però privi di sbocchi e di una plausibile strategia politica. La stessa minaccia terrorista, infine, così diffusa e radicata in varie parti del mondo, non si può dire trovi in America Latina un terreno fertile. Le maggiori sfide alle democrazie sudamericane provengono, dunque, dalle loro debolezze intrinseche.
Il Sudamerica nel mondo
Visto dal Sudamerica, il mondo di inizio 21° sec. è diverso da quello di un ventennio prima, e non solo perché la guerra fredda è ormai un lontano ricordo e dunque la regione non è più come un tempo posta e crocevia della competizione tra grandi potenze, ma anche per altri, altrettanto importanti motivi. Al di là dei flussi commerciali e finanziari, lievitati al punto da fare oggi dell’intera area uno spazio economico assai più aperto di un tempo e dunque più permeabile agli eventi esterni e più autonomo nella ricerca di partner e mercati, le novità sono essenzialmente due: la prima è la dimensione, assai più concreta che in passato, assunta nell’agenda politica sudamericana dal tema dell’integrazione regionale a tutti i livelli possibili; la seconda è l’attenuazione dell’influenza statunitense, sia in termini politici, economici o diplomatici, sia in termini di egemonia morale o ideologica (Hakim 2006). Nel complesso, in sintesi, l’intera regione manifesta sul piano delle relazioni internazionali una maggiore maturità e indipendenza rispetto al passato, di cui godono sia quanti brandiscono le bandiere del nazionalismo sia quanti, viceversa, mantengono rapporti amichevoli con il resto dell’Occidente, fatto che comporta opportunità e rischi.
Per quanto riguarda il primo aspetto, cioè il tema dell’integrazione regionale, non v’è dubbio che si trovi incoraggiato dalle sfide della globalizzazione, dalla necessità di rafforzare il potere negoziale della regione nei forum internazionali, dalla tendenza universale a creare macroaree regionali e dal consolidamento delle istituzioni e dei valori democratici quali fondamento comune di un’ipotetica comunità sudamericana. Di fatto la rete delle organizzazioni politiche ed economiche regionali, di organismi funzionali in questo o quel settore, o anche di forum permanenti di consultazione dei Paesi sudamericani con altre aree mondiali, è oggi più fitta che mai. L’idea, nuova e antica insieme, è naturalmente quella di fare progressivamente convergere le istituzioni già esistenti, in particolare il MERCOSUR (Mercado Común del Sur) e la CAN (Comunidad Andina de Naciones), in un unico organismo regionale e di passare a poco a poco dall’ambito meramente commerciale a quelli monetario, militare e politico. Tale, in fondo, è l’idea guida dell’UNASUR (Unión de Naciones Suramericanas), sorta nel 2008, la quale ha già dato segno del suo potenziale politico assumendosi la responsabilità di gestire talune delicate crisi politiche, come quella boliviana del 2008, che in passato avrebbero senz’altro dato adito a un intervento politico e diplomatico degli Stati Uniti.
Nel complesso si può, dunque, dire che passi verso una maggiore integrazione ne siano stati compiuti, benché non così rapidi ed efficaci com’era lecito aspettarsi e non tali da sgombrare il campo dagli enormi ostacoli che da sempre frenano la cooperazione regionale. Basti pensare ai frequenti contrasti tra i diversi interessi nazionali, specie tra Paesi grandi e popolosi, attenti a proteggere i propri mercati, e Paesi più piccoli e assai dinamici, proiettati verso l’esterno; o al diffuso risorgere in diversi punti della regione di ideologie nazionaliste decise a cavalcare con intransigenza il feticcio della sovranità nazionale, poco adeguato per favorire la delega di poteri a eventuali organismi sovranazionali, senza la quale sarà difficile compiere il passo da una fiacca integrazione commerciale a una più robusta integrazione politica. Ovviamente non aiutano le enormi differenze da Paese a Paese e in particolar modo l’evidente strapotere del Brasile, cui con difficoltà gli altri, timorosi che l’integrazione si tramuti in implicita annessione, riconosceranno la leadership che per territorio, popolazione e risorse pare destinato a svolgere; né giovano gli sforzi, tipici dei regimi politici più radicali, di ideologizzare il tema dell’integrazione regionale facendone lo strumento per ampliare e potenziare il fronte antiamericano, poiché, lungi dal promuovere l’unione e l’istituzionalizzazione, alimenta i contrasti e le defezioni. Di fatto il primo decennio del nuovo secolo non è stato privo di tensioni regionali, talvolta anche molto acute e persistenti, come quelle tra Argentina e Uruguay su una spinosa questione politica e ambientale alla frontiera tra i due Paesi, tra la Colombia e i vicini sui ‘santuari’ della guerriglia, sul loro territorio e sulla decisione del governo di Bogotá di bombardarli, o tra il Brasile e la Bolivia e l’Ecuador, poiché questi ultimi, nel nazionalizzare i settori estrattivi della loro economia, hanno colpito alcuni ingenti investimenti brasiliani. Specchio fedele delle difficoltà nelle quali ancora s’imbatte il processo di integrazione regionale è senza dubbio il MERCOSUR, fondato da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay nel 1991 come il più ambizioso sforzo mai tentato in Sudamerica di dare vita a un grande mercato comune. Se non v’è dubbio, infatti, ch’esso abbia stimolato gli scambi commerciali tra i membri, agevolandone il sostanzioso incremento, è altrettanto vero che il suo bilancio non è entusiasmante. Non solo perché perfino in termini economici rimane in fondo più una vaga area di libero scambio che un vero e proprio mercato comune, per di più minata dai cronici contenziosi tra i Paesi membri a causa delle enormi asimmetrie tra le loro economie, ma soprattutto perché il MERCOSUR è rimasto, in pratica e come concetto, a metà strada tra un progetto di integrazione economica e uno di integrazione politica. Ne sono riflesso la sua scarsa istituzionalizzazione e le modalità del suo funzionamento, affidato pressoché integralmente, in mancanza di solide istituzioni comunitarie, ai negoziati e agli accordi tra governi. A oggi, infatti, non si può dire che il MERCOSUR abbia compiuto seri passi in avanti verso il coinvolgimento della popolazione nei suoi processi decisionali, né abbia prodotto particolari sforzi per promuovere la formazione di una cittadinanza politica e sociale capace di trascendere i confini dei Paesi che ne fanno parte.
A eccezione del caso colombiano, che per effetto della violenza politica, del narcotraffico e del rischio che destabilizzi l’intera regione rappresenta una priorità per gli Stati Uniti (i quali hanno nella Colombia il più fido alleato di tutta l’area), non v’è dubbio che nel complesso, dalla fine della guerra fredda in poi, il Sudamerica non sia stato al vertice degli interessi e delle preoccupazioni dei presidenti passati dalla Casa Bianca, impegnati su tutt’altri scacchieri (Crandall 2008). Allo stesso modo, la crisi del cosiddetto Washington consensus alla fine del 20° sec. e le pulsioni unilaterali di George W. Bush dopo l’11 settembre 2001 hanno risvegliato l’atavico antiamericanismo della regione, dove nel primo decennio del nuovo secolo la popolarità degli Stati Uniti e del loro presidente è scesa in picchiata, benché molto più tra gli anziani e le fasce d’età intermedie che non tra i giovani, in buona parte estranei al peso della storia di ingerenze statunitensi nell’area. Perfino l’elezione di Barack Obama nel 2008, seppur genericamente gradita alle opinioni pubbliche regionali, stando ai sondaggi non ha suscitato particolari aspettative, a conferma che per la maggior parte dei sudamericani ciò che avviene a Washington non dà l’impressione di gravare come un tempo sul proprio destino (Latinobarómetro 2008). Ciò non significa che l’influenza degli Stati Uniti sia di colpo evaporata, o che essi si rassegnino a veder declinare l’egemonia sull’emisfero perseguita per due secoli e fondamentale per la loro sicurezza e prosperità: la storia e la geopolitica, oltre a enormi interessi economici, inducono a escluderlo e a prevedere un’imminente offensiva statunitense volta a riconquistare la fiducia delle opinioni pubbliche e dei governi sudamericani. Nulla, però, si può starne certi, tornerà più come un tempo, poiché proprio per effetto degli ormai vari lustri di globalizzazione i sudamericani hanno ampliato i loro orizzonti internazionali e coltivano con più intensità rispetto a un tempo i loro rapporti con altri partner, per i quali manifestano con sempre maggiore frequenza interesse e ammirazione, che si tratti dell’Unione Europea, della Russia o delle ‘tigri’ dell’Estremo Oriente, Cina compresa.
Pur avendo inaugurato inedite forme di cooperazione politica, tecnologica e culturale con numerosi Paesi un tempo estranei ai propri interessi, il Sudamerica rimane una regione periferica del nuovo ordine internazionale, di cui vive in forma più attenuata di altre aree i vorticosi cambiamenti, soffrendone tuttavia meno di altri i violenti traumi. Ancora solcato da divisioni interne, stenta a fare sentire la propria voce in modo univoco e a farsi percepire come un’area coesa nella difesa di interessi comuni. Tra i Paesi della regione, in fondo, solamente il Brasile possiede il potenziale e il prestigio necessari per essere protagonista delle relazioni internazionali, ruolo che da oltre un decennio a questa parte persegue intensificando la propria azione nei forum multilaterali, nei gruppi formati dalle medie potenze, alle Nazioni Unite nel tentativo di promuoverne una riforma che gli riconosca il ruolo implicito di portavoce regionale. Gli altri Paesi, invece, hanno prestigio ma non potenza, come il Cile, e anche molta ambizione ma troppa ideologia, come il Venezuela, o ancora tanto potenziale ma scarsa affidabilità, come l’Argentina, e dunque procedono in ordine sparso, con maggiore oppure minore successo, nell’ambito dell’attuale politica globale.
Immaginando il futuro
Il Sudamerica è entrato nel nuovo secolo al culmine di una trasformazione epocale, sua e del mondo intorno. Come sempre capita nei periodi in cui la storia pare accelerare il suo cammino è facile sia lasciarsi abbagliare dalle novità, sia restare imprigionati dallo scetticismo, dall’impressione di déjà-vu. E non v’è dubbio che tratti inediti e atavici si miscelino nel Sudamerica di questi anni: fermo restando che se per molti è bene il ‘nuovo’ e male l’‘antico’, per altri è vero l’esatto opposto. Inediti sono senz’altro l’ormai lungo connubio tra democrazia politica ed economia di mercato, i nuovi partner commerciali e la disciplina macroeconomica, la prolungata fase di forte crescita e il progressivo miglioramento degli indicatori sociali, la crescente autonomia internazionale e l’ondata di governi progressisti. Più note sono, invece, le rinascenti tendenze ad anteporre la giustizia sociale al pluralismo politico, le persistenti disuguaglianze e la violenza spesso endemica, le pratiche clientelari e le pulsioni populiste, l’antiamericanismo e le tentazioni nazionaliste. Non che gli ingredienti nuovi siano appannaggio esclusivo di taluni Paesi e quelli antichi di altri; semmai sono le dosi in cui si combinano a fare la differenza nei diversi casi. Né, d’altronde, i diversi Paesi si trovano a un eguale grado di sviluppo economico e politico e dunque in pari condizioni di scegliere ciò che giova o di scartare ciò che nuoce a prescindere dai conflitti e dalle passioni che li agitano e dagli enormi problemi che li sovrastano. L’impressione, per quel che valgono le analisi sconfinanti in avventurose profezie, è che, pur camminando insieme, il Sudamerica proceda in ordine sparso e a differenti ritmi lungo vie diverse che l’assidua invocazione a integrarsi stenta per ora a fare convergere: che i Paesi del Cono Sud, più omogenei per popolazione, cultura e civiltà e storicamente più plasmati dal legame con l’Europa, tendano grosso modo a seguire, taluni in modo più lineare altri tra mille strappi, la via percorsa in vari modi e tempi dal resto dell’Occidente (Carmagnani 2003); e che quelli invece dell’area andina, più eterogenei e solcati da antiche faglie etniche o sociali e da traumi storici mai assorbiti, vivranno ancora a lungo tra pericolose convulsioni alla ricerca di una peculiare via che forse esiste e forse no.
Bibliografia
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