Politica economica
Gli obiettivi della politica economica
La politica economica è un insieme di regole e di azioni grazie alle quali il governo di un Paese fa in modo che i suoi obiettivi in campo economico e sociale siano conseguiti.
Sono 4 i principali obiettivi di politica economica: efficienza, equità, stabilità, crescita. I primi 3 corrispondono alla ‘tripartizione di Musgrave’ (➔ Musgrave, Richard Abel) relativa alle 3 funzioni (allocativa, redistributiva e di stabilizzazione) della politica di bilancio (➔). L’obiettivo dell’efficienza mira a soddisfare le preferenze dei cittadini, facendo in modo che l’economia produca a costi minimi proprio quanto essi desiderano. L’intervento pubblico garantisce ciò sia con la regolazione (per es., al fine di garantire un’informazione ampia e uniformemente distribuita sulla qualità dei servizi offerti) sia con le politiche volte a ottenere la necessaria produzione di beni pubblici fondamentali, come sicurezza e giustizia. L’obiettivo dell’equità riguarda la distribuzione del reddito (➔) e della ricchezza desiderabile dal punto di vista sociale, anche con riferimento al futuro, poiché comprende politiche, per es. nel campo dell’educazione, volte a garantire opportunità di reddito futuro. L’obiettivo della stabilità presenta 3 dimensioni: monetaria, finanziaria e reale. La stabilità monetaria si ha quando l’inflazione (➔ p) è modesta, nell’ordine del 2-3% all’anno; si noti che questo obiettivo da qualche anno è volto sia a evitare inflazione sia a evitare deflazione (➔): per molte banche centrali l’obiettivo è, per es., un tasso di inflazione non superiore ma vicino al 2%. La stabilità finanziaria significa un ordinato funzionamento dei principali intermediari finanziari, a partire dalle banche (➔ banca p). Se si verificano fallimenti bancari, o di altri rilevanti intermediari finanziari, le conseguenze dirette e indirette sull’economia possono essere molto gravi. È sufficiente ricordare come ebbe origine la grande depressione (➔) degli anni 1930 e, ancora, la grande recessione del 2008-2010. Infine, la stabilità reale implica mantenere l’economia vicina al ‘potenziale’ rappresentato dal massimo utilizzo della capacità produttiva, data la struttura e il grado di concorrenza dei diversi mercati, evitando l’alternarsi di boom e recessioni. Il quarto obiettivo della politica economica è la crescita (➔), misurata dal tasso annuo di crescita del PIL (➔) pro capite, che dipende dall’aumentato impiego dei fattori produttivi (lavoro e capitale) e dall’aumento della loro produttività. Quest’ultimo fattore è al centro delle ‘politiche per la crescita’ (➔), che vogliono far aumentare nel tempo l’efficienza dell’economia, con stimoli all’innovazione tecnologica e organizzativa, con investimenti nel capitale umano (➔), vale a dire in educazione e ricerca, e così via.
Nella teoria della politica economica, un tema importante è quello dei trade offs tra i diversi obiettivi: quanta inflazione si è disposti ad accettare ‘in cambio’ di un più elevato livello di occupazione? Oppure, quanta minor crescita si è disposti ad accettare ‘in cambio’ di una più equa distribuzione del reddito e della ricchezza? Se il governo disponesse di un numero sufficiente di strumenti di politica economica, i cui effetti fossero davvero molto diversi sulle diverse variabili-obiettivo, e il cui utilizzo non presentasse vincoli di alcun tipo, allora ogni valore desiderato dei diversi obiettivi sarebbe, in linea di principio, conseguibile. In tal caso, il problema dei trade offs, e quindi la necessità di una scelta tra diverse alternative, neppure si porrebbe. Al di là delle differenze riferibili alle scelte politiche (che riflettono preferenze diverse presenti nella società), vi sono numerosi problemi che concorrono a definire il possibile successo della politica economica. Tra questi, un posto a sé occupa la globalizzazione (➔), ritenuta responsabile di maggiore instabilità macroeconomica e, al tempo stesso, di minore efficacia delle politiche economiche nazionali. Vi sono altri due aspetti molto discussi: il ruolo delle aspettative (➔ aspettativa) e le differenze tra ‘scuole’ di pensiero economico. In generale, l’efficacia della politica economica dipende dal modo in cui le aspettative dei soggetti interessati sono formate e riviste. Per es., in presenza di aspettative razionali è necessario tenere conto dell’‘effetto annuncio’. E, quindi, una politica monetaria (➔) espansiva annunciata e creduta può non avere alcun effetto espansivo sulle variabili reali ma solo sui prezzi, se i soggetti economici anticipano esattamente questo effetto e si comportano di conseguenza. In questo caso, solo la cosiddetta sorpresa inflazionistica produrrebbe effetti reali, poiché i soggetti economici non potrebbero anticiparla e neutralizzarne gli effetti. È evidente che una simile opportunità non può essere sfruttata tante volte: gli individui ‘imparano’ come si muove il governo e non possono essere ripetutamente ingannati. Inoltre, la sorpresa genera instabilità, accrescendo la varianza del PIL reale.
Esistono, poi, differenze tra scuole di pensiero che influenzano il modo in cui la politica economica è interpretata. La teoria keynesiana (➔ keynesiana, teoria) assume una tendenza verso il cattivo funzionamento dell’economia e quindi la necessità di un’ampia e sistematica azione di politica economica correttiva. Contrapposta a questa è la visione, detta neoclassica (➔ neoclassica, economia), di chi ritiene che il capitalismo contenga in sé i necessari rimedi alle difficoltà (shock, crisi ecc.) che possono presentarsi. Secondo quest’altra scuola (che ha fatto propria l’ipotesi di aspettative razionali), rimedi keynesiani a problemi che tendono a curarsi da soli sono più che altro dannosi.
Un tema rilevante, che mette in luce la diversità tra scuole di pensiero, è quello degli effetti eventualmente espansivi di interventi volti alla riduzione del debito pubblico. Effetti non-keynesiani sono sottolineati da quanti sostengono la possibilità di un’‘austerità espansiva’, cioè da una riduzione dello squilibrio di finanza pubblica ottenuto puntando tutto su tagli di spesa, che facciano prevedere riduzioni – e non aumenti – delle tasse e che quindi si accompagnino a crescita e non a caduta del reddito. È dimostrato che, in alcuni casi, questi effetti non-keynesiani vi sono stati, ma rappresentano pur sempre eccezioni legate a situazioni particolari in cui si sono trovati i Paesi che hanno messo in atto le politiche di austerità.