Abstract
La Politica Comune della Pesca (PCP) trova il suo fondamento giuridico negli articoli da 38 a 44 del titolo III del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Nel 1983, dopo dieci anni di intensa negoziazione, sono state gettate le basi per una Politica comune anche in questa materia, ovvero un insieme di norme e meccanismi che si applicano alle attività di sfruttamento delle risorse acquatiche vive (pesci, crostacei e molluschi) e l'acquacoltura, nonché la loro trasformazione e commercializzazione realizzate sul territorio degli Stati membri o nelle zone di pesca comunitarie (le acque sotto la sovranità o la giurisdizione degli Stati membri) o da parte di navi da pesca battenti bandiera europea nelle acque di paesi terzi o nelle acque internazionali.
Le prime normative comuni nel settore della pesca risalgono al 1970. Esse fissano le condizioni per l'accesso alle zone di pesca, introducono per la prima volta un modello per l’organizzazione comune dei mercati e definiscono un regime-quadro per la politica strutturale di settore.
La successiva adesione, avvenuta nel 1973, di paesi a forte tradizione peschereccia quali Regno Unito, Irlanda e Danimarca, ha rappresentato l’occasione per una forte spinta verso il rafforzamento del quadro giuridico della futura politica comune della pesca (all’epoca ancora embrionale); in quegli anni si cominciava infatti a parlare per la prima volta dell'opportunità/obbligo di creare una politica di conservazione delle risorse, istituendo al contempo un regime di diritti esclusivi di pesca costiera entro la fascia costiera delle 12 miglia.
Ci sono voluti poi 10 anni di intensa negoziazione prima che Bruxelles potesse porre le basi per una vera politica comune; tutto questo accadeva nel 1983. Diversi altri eventi, come l’uscita della Groenlandia dalla Comunità Economica Europea, decisa con il referendum del 1985, l’ingresso della Spagna e del Portogallo avvenuto l’1.1.1986 e la riunificazione della Germania nel 1990 (evento, quest’ultimo, che ha però condizionato in maniera ridotta l’evoluzione delle dinamiche del settore), hanno influenzato notevolmente il numero e la struttura della flotta comunitaria e, conseguentemente, la propria capacità di cattura.
Così, nel corso degli anni 90 la Politica Comune della Pesca ha vissuto una fase di grande rafforzamento, caratterizzata dall’affermarsi di un potere tendenzialmente scevro da condizionamenti politici di tipo diretto quale risulta essere quello della Commissione europea (il cosiddetto “esecutivo comunitario”) cui compete l’applicazione, la tutela e l’interpretazione delle norme comuni (direttive, regolamenti e decisioni) ma, soprattutto, l’iniziativa legislativa esercitata sulla scorta delle analisi, studi e rapporti di valutazione elaborati dalla Direzione generale della pesca e degli affari marittimi (DG MARE).
La Politica Comune della Pesca (PCP) e la Politica Agricola Comune (PAC) hanno il medesimo fondamento giuridico (cfr. artt. 38 ss., TFUE) ma finalità diverse, se non addirittura opposte: incremento della produttività nel settore agricolo e contenimento dello sforzo di pesca e della produzione nel settore ittico. I nodi che quindi la PCP deve affrontare sono di tutt'altro genere, ovvero: protezione della biomassa e attenta gestione delle modalità di prelievo al fine di assicurare la rinnovabilità delle risorse marine e la continuità dell'attività di pesca. Rispetto alla versione del Trattato 25.3.1957 in vigore fino al 30.11.2009 (dall’1.12.2009 è in vigore la versione del Trattato 25.3.1957 così come ridefinita dal trattato di Lisbona 13.12.2007), l’intero Titolo III è oggi intestato all’agricoltura e la pesca (fino all’entrata in vigore delle modifiche adottate con il trattato di Lisbona il titolo riportava il solo nome dell’agricoltura), testimoniando così una diversa attenzione riconosciuta dagli Stati membri a questo settore; gli artt. 38-44 TFUE, nel definire il nuovo fondamento giuridico della PAC e della PCP, abbracciano tutti gli aspetti della filiera. In particolare, l'art. 38 definisce il mercato interno (non più comune) come un’area economica di cui fanno parte a pieno titolo i prodotti della pesca i quali, pur continuando ad essere considerati come parte della più grande produzione agricola (cfr. art. 38, co. 1, par. 2), richiedono una trattazione propria, mediante l'elaborazione di una politica comune della pesca, «…tenendo conto delle caratteristiche specifiche di questo settore.» (cfr. art. 38, co. 1, par. 2, TFUE)
Il successivo art. 39 declina poi le finalità delle politiche comuni in materia; in particolare, incrementare la produttività (con l’avvertenza che, nel nostro caso, occorre innanzitutto evitare il sovrasfruttamento delle risorse biologiche marine), assicurare un tenore di vita equo alla popolazione del settore, stabilizzare i mercati, garantire la sicurezza degli approvvigionamenti e assicurare prezzi ragionevoli nelle consegne ai consumatori. La parte restante del titolo riguarda la creazione di un'organizzazione comune dei mercati (art. 40), un coordinamento efficace degli sforzi intrapresi nei settori della ricerca e della formazione professionale (art. 41) e la fissazione delle regole di concorrenza (art. 42). Quanto poi agli artt. 43 e 44, essi tracciano le linee direttrici di un’organizzazione comune di mercato e, in particolare, le modalità cui dar luogo ad una organizzazione comune in luogo di diverse organizzazioni nazionali e/o regolamentazioni interne (cfr. art. 43), avendo cura di assicurare i preminenti principi della concorrenza (cfr. art. 44).
Merita infine di essere segnalato il par. 3 del citato art. 43 poiché in esso trova pieno riconoscimento il principio di specificità e specialità della PCP (o di parte di essa) allorquando si prevede che il Consiglio, su proposta della Commissione (non in co-decisione con il Parlamento europeo, v. infra, § 2.2), adotta le misure relative alla fissazione dei prezzi, dei prelievi, degli aiuti e delle limitazioni quantitative, nonché alla fissazione e ripartizione delle possibilità di pesca. In queste poche righe, che rappresentano peraltro un inedito rispetto alla precedente versione del Trattato di Roma (cfr. art. 37, Trattato 25.3.1957, nella versione in vigore fino al 30.11.2009), ritroviamo le principali linee di indirizzo di tutta l’azione legislativa in materia, in coerenza con gli obbiettivi di tutela della concorrenza e di accesso controllato alle risorse biologiche marine.
Nel corso dell’evoluzione dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, il processo decisionale, da prima incentrato sulle scelte dei rappresentanti dei Governi riuniti in seno al Consiglio, ha visto assumere al Parlamento un ruolo più centrale. Si è passati, infatti, dalla semplice consultazione del Parlamento europeo (ne è un esempio il Reg. CEE n. 3760/92 che istituisce un regime comunitario della pesca e dell’acquacoltura) ad una collaborazione tra Parlamento e Consiglio, e successivamente alla co-decisione del Parlamento nel processo legislativo dell’Unione. Con il trattato di Lisbona la co-decisione è divenuta la procedura legislativa ordinaria, ossia la “regola”. Anche la PCP è ormai “gestita” secondo la «procedura legislativa ordinaria». La procedura di co-decisione consiste nell’adozione di un regolamento, una direttiva o una decisione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su proposta della Commissione. Alcuni aspetti (fissazione dei prezzi, tasse, aiuti e limitazioni di quantità, fissazione dei diritti di pesca) restano, tuttavia, soggetti ad adozione da parte del Consiglio dell’UE su proposta della Commissione europea. Mentre gli accordi internazionali sono ratificati dal Consiglio dell’UE dopo parere conforme da parte del Parlamento europeo
È riservata solo a pochi casi, espressamente disciplinati, l’adozione secondo la «procedura legislativa speciale», ovvero dal Parlamento europeo con la partecipazione del Consiglio o dal Consiglio con la partecipazione del Parlamento europeo. Questa procedura legislativa viene integrata da una «procedura di parere conforme», secondo la quale il Parlamento europeo ha l’ultima parola quanto all’entrata in vigore di un atto, e dalla «procedura semplificata», prevista per l’emanazione di atti non vincolanti o di atti provenienti da un’unica Istituzione.
La procedura viene avviata di regola dalla Commissione, la quale elabora una proposta sulla misura da adottare (diritto d’iniziativa). Questa procedura viene avviata sotto la responsabilità del servizio della Commissione competente per il settore economico interessato (nel nostro caso, quasi sempre la DG MARE), che spesso si avvale della consulenza di esperti nazionali. La consultazione di tali esperti avviene nel quadro di comitati istituiti allo scopo specifico o sotto forma di una procedura di consultazione ad hoc adottata dai servizi della Commissione. Nell’elaborare la proposta, la Commissione non è tuttavia tenuta a conformarsi ai pareri degli esperti nazionali. Il progetto elaborato dalla Commissione, che stabilisce nei particolari il contenuto e la forma della misura da adottare, è discusso dai membri della Commissione (Collegio dei Commissari) e infine approvato a maggioranza semplice. La proposta della Commissione, corredata da una dettagliata relazione introduttiva, viene quindi presentata contemporaneamente al Consiglio, al Parlamento europeo ed eventualmente, con funzioni consultive, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni.
Il presidente del Parlamento europeo affida l’elaborazione della proposta alla commissione parlamentare competente. I risultati delle consultazioni in sede di commissione parlamentare vengono discussi dall’assemblea plenaria ed esposti in un parere, che contiene l’espressa approvazione o il rigetto della proposta, oltre agli eventuali emendamenti proposti. Il Parlamento trasmette la sua posizione al Consiglio. Il Consiglio può procedere in prima lettura in due modi:
a) se il Consiglio approva la posizione del Parlamento, l’atto in questione e adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Parlamento europeo; la procedura legislativa è cosi conclusa;
b) se il Consiglio non approva la posizione del Parlamento europeo, esso adotta la sua posizione in prima lettura e la trasmette al Parlamento europeo. Il Consiglio informa il Parlamento europeo dei motivi che l’hanno indotto ad adottare la sua posizione. La Commissione illustra nel dettaglio la sua posizione al Parlamento europeo.
Il Parlamento europeo può, in seconda lettura ed entro un termine di tre mesi dalla comunicazione della posizione del Consiglio, agire in tre modi:
a) approvare la posizione del Consiglio o non pronunciarsi: l’atto in questione si considera adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Consiglio;
b) respingere la posizione del Consiglio a maggioranza dei membri che lo compongono: l’atto proposto si considera non adottato e la procedura legislativa si conclude;
c) proporre emendamenti alla posizione del Consiglio deliberando a maggioranza dei membri che lo compongono: il testo cosi emendato è inoltrato al Consiglio e alla Commissione che formula un parere su tali emendamenti.
Il Consiglio valuta la posizione emendata del Parlamento e, entro tre mesi dalla sua comunicazione, può agire in due modi:
a) il Consiglio approva tutti gli emendamenti del Parlamento; in tal caso l’atto in questione si considera adottato. A tal fine, se la Commissione ha espresso parere favorevole sugli emendamenti, è sufficiente la maggioranza qualificata; in caso contrario il Consiglio può approvare gli emendamenti solo all’unanimità;
b) il Consiglio non approva tutti gli emendamenti o non viene raggiunta la maggioranza a tal fine necessaria: viene introdotta la procedura di conciliazione.
La procedura di conciliazione (trilogo) viene attivata dal presidente del Consiglio d’intesa con il presidente del Parlamento europeo. A questo scopo viene convocato il comitato di conciliazione. Il comitato di conciliazione ha il compito di pervenire, a maggioranza qualificata dei suoi membri ed entro un termine di sei settimane dalla convocazione, ad un accordo su un progetto comune, basandosi sulle posizioni del Parlamento europeo e del Consiglio in seconda lettura. La Commissione partecipa ai lavori del comitato di conciliazione e prende le iniziative necessarie per favorire il ravvicinamento fra la posizione del Parlamento europeo e quella del Consiglio. Se, entro un termine di sei settimane dalla convocazione, il comitato di conciliazione non approva un progetto comune, l’atto in questione è ritenuto non adottato.
Se, entro il termine di sei settimane, il comitato di conciliazione approva un progetto comune, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno a disposizione un ulteriore termine di sei settimane a decorrere da questa approvazione per adottare l’atto in questione (il Parlamento europeo delibera a maggioranza dei voti espressi e il Consiglio a maggioranza qualificata). In caso contrario, l’atto in questione si considera non adottato e la procedura legislativa si conclude.
L’atto adottato, nella sua versione definitiva, viene elaborato nelle attuali 24 lingue ufficiali dell’Unione (bulgaro, ceco, croato, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, olandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco, sloveno, spagnolo, svedese, tedesco e ungherese), sottoscritto dai presidenti del Parlamento europeo e del Consiglio e, infine, pubblicato nella “Gazzetta ufficiale dell’Unione europea” o, se l’atto e rivolto a destinatari specifici, comunicato a quest’ultimi.
La politica comune della pesca comprende un insieme di norme e meccanismi che si applicano alle attività di sfruttamento delle risorse acquatiche vive (pesci, crostacei e molluschi) e all’acquacoltura, nonché alla loro trasformazione e commercializzazione realizzate sul territorio degli Stati membri o nelle zone di pesca comunitarie (le acque sotto la sovranità o la giurisdizione degli Stati membri) o da parte di navi da pesca battenti bandiera europea nelle acque di paesi terzi o nelle acque internazionali. Le azioni intraprese riguardano quattro settori principali:
- conservazione e gestione sostenibile delle risorse alieutiche;
- organizzazione comune dei mercati;
- politica strutturale;
- relazioni con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali.
La conservazione e la gestione sostenibile delle risorse alieutiche sono la base stessa della politica della pesca in un periodo in cui l'efficienza tecnica e tecnologica delle attività di prelievo è tale da mettere a rischio di esaurimento gli stock ittici, in assenza di una rigorosa disciplina. La PCP ha quindi istituito misure tecniche intese a proteggere le risorse. In questo contesto, la riforma del 2002 ha scelto, per così dire, un approccio a lungo termine basato sullo stato degli stock ittici rispetto ai totali ammissibili di catture (TAC) fissati annualmente, accompagnato da misure di conservazione. Per esempio, per gli stock che rischiano di scendere al di sotto dei limiti biologici di sicurezza (sovrasfruttati), vengono adottati piani di ricostituzione intesi ad accrescere la probabilità di incremento annuo della popolazione di pesci adulti. Questi piani consistono in un insieme di misure tese a conseguire nel medio termine l’obbiettivo di ricostituzione della biomassa sufficiente per garantire il ripopolamento dello stock in questione. Si tratta, a seconda dei casi, di una riduzione della quantità di pesce che può essere prelevata, o di misure tecniche volte a garantire una migliore selettività degli attrezzi ed un’elevata protezione del novellame (stadio giovanile dei pesci), nonché di un contenimento dello sforzo di pesca (numero di pescherecci autorizzati, numero di giorni in cui si può esercitare l'attività di pesca, ecc.). Ai fini di un'applicazione ottimale di tali misure, i piani di ricostituzione prevedono anche azioni specifiche in materia di controllo e d'ispezione.
Nel caso di stock che non sono in pericolo, si parla di piani di gestione pluriennali. L'approccio che la Commissione dell'Ue sta ora proponendo con la nuova riforma che dovrebbe entrare in vigore dal prossimo 1.1.2014 conferma queste linee di indirizzo.
L'accordo di conciliazione (i.e. trilogo) raggiunto all'alba del 30.5.2013 chiude un lungo negoziato, iniziato a metà del 2011, e ripropone i temi della sempre più forte tutela degli stock, della lotta alla pesca illegale e della difesa del mercato e dei consumatori. Verrà introdotta, sia pur con gradualità, una ferrea disciplina contro la pratica dei rigetti in mare (per i piccoli pelagici – acciughe e sardine rappresentano circa il 30% delle catture complessive della flotta italiana –, il divieto scatterà dall’1.1.2015, mentre per gli altri stock nel Mar Mediterraneo la scadenza risulta fissata all’1.1.2019).Il divieto dei rigetti in mare riguarderà, oltre al tonno rosso, solo gli stock per i quali è prevista una taglia minima di cattura di cui all’art. 15, reg. CE n. 1967/2006 (e Allegato III), con l'obbligo pressoché generalizzato di sbarcare tutto ciò che viene catturato in mare: la gestione degli stock dovrà tendere verso il «massimo rendimento sostenibile», attraverso la elaborazione di piani di gestione pluriennali, per una o più specie ittiche, sulla base di sempre più precise informazioni biologiche che gli Stati membri, in collaborazione con l'UE, dovranno procurarsi.
Inoltre, sarà rafforzato il sistema di gestione «fisica» del naviglio da pesca, il cui obiettivo principale è quello di adattare la flotta comunitaria in funzione delle possibilità di pesca per far fronte all'eccessivo sfruttamento delle risorse e garantire il futuro del settore.
L'adeguamento della flotta di pesca è così disciplinato da un sistema che permette di gestire le entrate e le uscite delle flotte (ossia l'introduzione di nuove capacità in una flotta o, viceversa, il disarmo di pescherecci) in modo che la capacità globale della flotta comunitaria ne risulti comunque ridotta. Le sovvenzioni pubbliche per il rinnovo delle navi da pesca (ammodernamento di imbarcazioni esistenti e costruzione di nuove navi da pesca) sono state rigorosamente regolamentate; in particolare, dal 2005 sono stati aboliti tutti i finanziamenti pubblici (a qualunque livello, comunitario e nazionale) per le nuove costruzioni (in precedenza era previsto un contributo pubblico a fondo perduto nella misura massima del 40% della spesa ammissibile). La ristrutturazione (o ammodernamento della flotta peschereccia) è, invece, ancora possibile sia pur nel quadro di rigorose norme che fissano limiti molto stringenti al fine di non consentire in alcun modo l’incremento della produttività delle navi, favorendo quasi esclusivamente misure volte a migliorare le condizioni di lavoro a bordo e di igiene e salubrità del prodotto. Questo continua ad essere però uno dei fronti sui quali più si è registrato, a detta degli ambienti professionali europei, il fallimento delle politiche comunitarie varate in questi anni di contenimento dello sforzo di pesca. Oltre infatti a rappresentare un caso di non immediata conformità con i principi e le finalità di promozione della produttività (cfr. art. 39, par. 1, lett. a), TFUE), questo ha favorito indubitabilmente il sensibile aumento del tasso di vetustà delle imbarcazioni da pesca (l'età media del naviglio da pesca comunitario è poco al di sotto dei 30 anni) ed ha contribuito a far perdere porzioni di competitività alle imprese ittiche nei riguardi di una concorrenza extra-comunitaria sempre più agguerrita (oggi oltre il 60% del pesce consumato nell’Unione proviene da altri continenti).
L'organizzazione comune dei mercati per i prodotti della pesca (Reg. CE n. 104/00) ha come scopo quello di cercare di adeguare l'offerta e la domanda in funzione del reddito dei produttori e dei consumatori e si articola intorno ai seguenti quattro elementi chiave:
le norme comuni di commercializzazione;
le organizzazioni dei produttori;
il regime di stabilizzazione dei prezzi con dei meccanismi d'intervento finanziario;
le norme che regolano gli scambi con i paesi terzi.
Merita attenzione, poi, la parte relativa alle informazioni al consumatore: le norme in vigore prevedono che siano venduti ai consumatori finali solo i prodotti vivi, freschi e surgelati le cui etichette mostrino:
il nome commerciale e scientifico delle specie;
il metodo di produzione (acqua dolce, pescato in mare o allevato);
l’area di cattura, indicata secondo le classificazioni adottate dalla FAO (il Mediterraneo è indicato con il numero 37).
Da ricordare, infine, che la Commissione europea ha presentato nel luglio 2011 anche una proposta di regolamento per la riforma della organizzazione comune di mercato per i prodotti della pesca con l’obbiettivo di migliorare il rapporto delle imprese di pesca con il mercato, grazie all'azione delle OP (organizzazioni di produttori), modello ampiamente diffuso soprattutto nel mercato agricolo, e di valorizzare il prodotto pescato nelle acque comunitarie rispetto alle importazioni.
Può essere interessante ricordare che più del 60 per cento dei consumi ittici della UE sono coperti dalle importazioni da Paesi terzi.
La politica strutturale della pesca aiuta i settori «pesca» ed «acquacoltura» ad adattare le attrezzature e ad organizzare la produzione tenendo conto delle risorse disponibili e delle esigenze del mercato. Nata nel 1970 con il finanziamento delle prime misure strutturali da parte del Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e di Garanzia (FEAOG), la politica strutturale della pesca si è molto sviluppata, soprattutto dal 1993, anno in cui vide la nascita il primo regolamento finanziario dedicato esclusivamente alla pesca (Reg. CEE n. 2080/93). Lo Strumento Finanziario di Orientamento della Pesca (SFOP) ha introdotto la pesca a pieno titolo nella politica strutturale dell’Unione europea, favorendo la ristrutturazione della flotta comunitaria mediante aiuti alla demolizione, all'esportazione o alla riconversione delle navi da pesca, nonché aiuti a favore della modernizzazione. Altri settori, quali l'acquacoltura, la trasformazione dei prodotti ittici nonché la loro promozione e commercializzazione potevano anch'essi beneficiare di aiuti strutturali comunitari. Erano altresì previsti aiuti alla formazione e alla riconversione dei pescatori, nonché regimi agevolati di prepensionamento (misura mai adottata dall’Italia). La riforma del 2002 ha poi modificato i regimi di aiuto alla flotta, limitando la concessione di sovvenzioni pubbliche per il rinnovo della flotta peschereccia ad imbarcazioni di meno di 400 GT (Gross Tonnage, sistema di misurazione della dimensione delle imbarcazioni) per tutto il 2003 e il 2004. Dopodiché, come ricordavamo poc’anzi, gli aiuti in questione sono stati aboliti, a qualunque livello, a partire dal 2005. Per l'ammodernamento, a partire dall’1.1.2005 sono ammissibili aiuti comunitari essenzialmente per il miglioramento delle condizioni di sicurezza, di vita e di lavoro a bordo, nonché per l’igiene e la sicurezza dei prodotti della pesca. Sono stati inoltre rafforzati gli strumenti e le dotazioni finanziarie per il disarmo di pescherecci o la loro demolizione. Al fine di ovviare alle conseguenze sociali, economiche e regionali conseguenti alla ristrutturazione del comparto alieutico, imposta dallo stato critico in cui versano molti stock ittici, la riforma ha previsto ulteriori misure a carattere socioeconomico. Ma anche per queste, si sono confermati i limiti che hanno sempre caratterizzato questo aspetto della PCP, esponendola alle più vivaci critiche del mondo della pesca che ancora non riesce ad avere da Bruxelles programmi di sviluppo che, in tempi di crisi, sappiano stimolare di più la crescita ed il mercato piuttosto che la mera riduzione del prelievo e dello sforzo di pesca, favorendo anche il necessario ricambio generazionale in un settore dove ad aumentare sensibilmente di anno in anno non è solo l’età media delle imbarcazioni ma anche quella degli addetti. In ottemperanza con i propositi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) di attenuare il ricorso ad aiuti pubblici nei vari settori economici (al fine di ridurre il divario Nord – Sud e le alterazioni ai principi della concorrenza) capaci di influire negativamente sulla competitività, l’Unione europea sta da tempo adottando misure tese a ridurre o addirittura eliminare gli aiuti al settore.
A partire dall’1.1.2007 (e fino al 2013), lo SFOP è stato sostituito dal Fondo europeo per la pesca (FEP, reg. CE n. 1198/2006) il cui scopo è quello di sostenere la Politica comune della pesca per assicurare lo sfruttamento delle risorse acquatiche viventi e promuovere l’acquacoltura ai fini della sostenibilità ambientale, economica e sociale. Per fare questo il bilancio comunitario ha assegnato al FEP per il periodo di vigenza € 4.302.686.000 (cui deve essere aggiunta la quota di cofinanziamento da parte di ciascuno Stato membro); la quota attribuita all’Italia è pari a € 424.343.000, pari al 9,86% dell’intero plafond, dopo Spagna (26,31%) e Polonia (17,06%). Al pari del preesistente SFOP, anche il FEP deve integrare le politiche europee per lo sviluppo sostenibile così come definite in occasione dei Consigli europei di Lisbona e di Göteborg (rispettivamente, nel 2000 e nel 2001).
Per riassumere, si può affermare che gli obiettivi del FEP sono simili a quelli dello SFOP, ma l’organizzazione di assi e misure è diversa. Vediamo in rapida sequenza i singoli assi:
asse 1 (€ 1.190.789.000 – 27,68% del totale) → sostiene misure permanenti e temporanee a favore dell’adeguamento della flotta comunitaria (senza alcun contributo per le nuove costruzioni e forti limitazioni ai casi ammodernamento dei pescherecci esistenti);
asse 2 (€ 1.236.850.000 – 28,75%) → sostiene l’acquacoltura, la pesca nelle acque interne, la trasformazione e la commercializzazione dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura;
asse 3 (€ 1.159.156.000 – 26,94%) → raggruppa azioni collettive e misure di interesse comune e comprende interventi a favore delle infrastrutture per lo sbarco dei prodotti alieutici;
asse 4 (€ 555.161.000 – 12,9%) → introduce i Gruppi di Azione Costiera nel settore della pesca (GAC) quali nuovi vettori per sostenere le misure di sviluppo in zone locali;
asse 5 (€ 160.731.000 – 3,74%) → è incentrato sull’assistenza tecnica ed è studiato per sostenere attività a opera delle autorità della pesca.
Come detto, il funzionamento del FEP è stato programmato sul periodo 2007-2013, come vuole la prassi europea che utilizza periodi settennali sia per la definizione del proprio bilancio sia per la definizione degli specifici strumenti finanziari. Considerando, dunque, l’approssimarsi della fine dell’attuale periodo, la Commissione europea ha presentato una nuova proposta in materia di strumenti a diposizione della politica comune della pesca.
Il nuovo fondo assumerà il nome di Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP) e varrà per il periodo 2014-2020.
La proposta di regolamento, presentata dalla Commissione nel dicembre 2011, prevede la soppressione dall’1.1.2014 degli incentivi per gli arresti definitivo (la demolizione delle imbarcazioni) e temporaneo delle attività di pesca e per la sostituzione dei motori.
La posizione della Commissione ha trovato un forte sostegno da parte di un gruppo di Stati membri, con la Germania in prima fila, al quale si è contrapposto un altro schieramento di partner che comprendeva Italia, Francia e Spagna.
Il 24.10.2012, il Consiglio agricoltura e pesca della UE ha raggiunto una prima intesa sulla proposta di regolamento del nuovo fondo, trovando una mediazione, avanzata dalla delegazione italiana, sul tema degli aiuti per le demolizioni delle unità da pesca, confermati in regime di “phasing out” sino al 2017 in termini di impegni di spesa, ed al 2019 quanto alla possibilità di effettuare i pagamenti.
Trascorso tale periodo, tali incentivi saranno definitivamente eliminati.
Confermata anche l'estensione sino al 2020 degli incentivi finanziari per il fermo biologico delle imbarcazioni da pesca (arresto temporaneo), che continueranno così ad essere regolati nel quadro dei piani di gestioni nazionali, già in vigore per il Mar Mediterraneo.
L'ammontare degli aiuti per la flotta, compresi quelli destinati alla sostituzione dei motori, non potrà superare la soglia del 15% dell'intera dotazione del FEAMP, assegnata ai singoli Stati membri.
Previste altresì misure specifiche a favore dei pescatori più giovani, per lo sviluppo delle comunità costiere e per il rilancio dell'acquacoltura, temi al centro dell’azione dell’esecutivo comunitario e dei vari paesi membri, anche se con sensibilità differenti, come capita sempre più spesso in ambito europeo. In particolare, i giovani pescatori potranno ottenere un contributo sino ad un massimo di 50 mila euro per l'acquisto di imbarcazioni.
Elemento centrale della nuova proposta della Commissione è, di nuovo, la sostenibilità, vale a dire una pesca esercitata a livelli che non minaccino la riproduzione degli stock ma, anzi, che permettano rendimenti elevati a lungo termine. Al fine di giungere a questo obiettivo, la Commissione propone di passare dagli attuali piani di gestione pluriennali destinati a singoli stock a piani di gestione pluriennali basati sugli ecosistemi. Accanto a ciò, si aggiunge anche una più attenta gestione della pratica dei rigetti in mare che verrà gradualmente eliminata introducendo l’obbligo di sbarcare qualunque prodotto catturato, anche se privo di interesse commerciale o non commercializzabile.
Più in generale, il FEAMP garantirà una maggiore integrazione tra politica comune della pesca e la più vasta politica marittima; inoltre, essendo stato ideato in stretto coordinamento con altri fondi all’interno della cosiddetta “politica di coesione”, il Fondo contribuirà anche agli obiettivi più generali della crescita e dell’occupazione nell’Ue.
La strada che resta da fare verso la definitiva approvazione del FEAMP è, però, ancora lunga. Attualmente, sono in corso i negoziati tra le tre istituzioni dell’Unione (Commissione europea, Parlamento europeo e Consiglio dei ministri) per giungere a un testo definitivo. I negoziati relativi ai fondi si inseriscono all’interno del più ampio negoziato sul bilancio settennale dell’Unione europea per il medesimo periodo.
Le relazioni internazionali nell'ambito della pesca sono anch'esse un importante elemento della PCP e comprendono la negoziazione e conclusione di accordi di partenariato della pesca con i paesi terzi (APP) e la partecipazione dell'UE alle diverse organizzazioni regionali incaricate della gestione della pesca (ORGP) dei grandi migratori (principalmente tonno rosso e tonno tropicale) e di specie diverse dal tonno (merluzzo, pesce azzurro, salmone, ecc…). Per la sua attività a livello internazionale, l'UE è rappresentata dalla Commissione e tutta la sua azione mira ad assicurare l’accesso alle unità da pesca comunitarie in acque sottoposte alla giurisdizione di altri Stati non europei, contribuendo a garantire uno sfruttamento duraturo delle risorse della pesca, anche attraverso il versamento di risorse finanziarie ai vari paesi partner.
Le risorse ittiche gestite in collaborazione con i paesi partner, nel quadro di tali accordi di pesca, sono localizzate:
in acque sottoposte alla giurisdizione di paesi costieri più lontani (questo ha dato inizio agli accordi bilaterali);
oppure in acque internazionali.
Gli accordi di pesca bilaterali attualmente in essere si ispirano ai principi del Codice di condotta per la pesca responsabile promosso dalla FAO nel maggio del 1992. In questo modo, l’Unione europea ha accettato di cooperare con i paesi in via di sviluppo per aiutarli a gestire e conservare in modo più efficace il settore della pesca, nel quadro della sostenibilità ambientale, sociale ed economica.
Come dicevamo, gli accordi di pesca bilaterali consentono alla flotta comunitaria di accedere alle acque dei paesi partner. Le condizioni su cui si basano questi accordi comprendono, in molti casi, l’impegno dell’Europa ad intervenire nel settore della pesca dei paesi contraenti, attraverso la fornitura di assistenza tecnica, il supporto alla creazione di organizzazioni professionali ed il rafforzamento delle capacità istituzionali ed amministrative; ma anche la promozione di una pesca responsabile mediante la collaborazione nella ricerca, la valutazione degli stock, il monitoraggio e la sorveglianza. Il tutto nell’ottica di contribuire allo sviluppo sostenibile dei paesi partner, incoraggiando l’attuazione di adeguati strumenti finanziari o incoraggiando la formazione delle risorse umane locali.
Quanto invece alle organizzazioni regionali per la gestione della pesca, tra le poco meno di venti cui Bruxelles prende parte, due di esse meritano particolare attenzione: la Commissione internazionale per la conservazione dei tonnidi nell’Atlantico (CICTA) e la Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo (CGPM).
La prima (CICTA) ha assunto nel corso degli ultimi anni un’importanza sempre maggiore e, attraverso le proprie raccomandazioni, è stata profondamente rivoluzionata la pesca dei grandi pelagici, segnatamente del tonno rosso mediterraneo. Attraverso le proprie raccomandazioni, adottate dal 2006 in poi, è stata sensibilmente ridimensionata la flotta peschereccia dedita a questo tipo di catture e sono state altresì ridotte grandemente le catture consentite. Oggi lo stock di tonno rosso gode di ottima salute, ma il costo, in termini finanziari e sociali, di questa imponente operazione di contenimento dello sforzo di pesca è stato molto elevato e, probabilmente, la ricerca del difficile contemperamento dei vari interessi in gioco (biologici di tutela della specie e della biodiversità, economici e sociali per i relativi contraccolpi gestionali) è ancora lontana dall’essere terminata.
Peraltro, le gravose incombenze dettate dai programmi di controllo internazionali e comunitari richiedono ogni anno l’impiego di un ingente numero di uomini e mezzi della Guardia Costiera, per assicurare la lotta alla pesca illegale, la tutela della specie e la difesa dei consumatori.
La Commissione Generale per la pesca nel Mediterraneo (in seguito denominata CGPM o “Commissione”) è stata istituita nel 1949 con un accordo internazionale stipulato in base all’art. XIV della Costituzione della FAO. L’accordo che istituisce la CGPM risale al 1949, emendato più volte nel corso del tempo. La zona di competenza della CGPM abbraccia il mar Mediterraneo, il mar Nero e le acque adiacenti. I paesi aderenti alla CGPM sono: Albania, Algeria, Bulgaria, Cipro, Croazia, Egitto, Francia, Giappone, Grecia, Israele, Italia, Libano, Libia, Malta, Marocco, Monaco, Romania, Serbia e Montenegro, Siria, Slovenia, Spagna, Tunisia, Turchia e Unione europea. Possono far parte della CGPM i paesi che si affacciano sul Mediterraneo ed i paesi che pescano nelle sue acque.
Sue principali funzioni, ai sensi dell’art. III del Trattato istitutivo, sono:
la promozione dello sviluppo, della conservazione e della corretta gestione delle risorse biologiche marine;
la formulazione di misure di conservazione;
la promozione di progetti cooperativi di formazione.
Essa, a differenza della CICTA, ha un ambito di competenze ancora più vasto poiché ad essa è affidata la gestione della pesca nel Mediterraneo e nel Mar Nero di tutte le specie, fatta eccezione per quelle affidate alle “cure” della CICTA, appunto (essenzialmente tonno e pesce spada).
Non possiamo concludere questa sezione senza un breve commento sull’agire della Commissione europea in materia di pesca. Dopo l’entrata in vigore del nuovo TFUE, stiamo assistendo ad un sostanziale potenziamento, ad opera di Bruxelles, del ruolo strategico e regolativo di queste organizzazioni regionali di gestione.
La Commissione UE svolge all’interno delle varie ORGP funzioni fortemente propulsive, arrivando a plasmarne essa stessa l’operato che sempre più si conforma ai principi della PCP nel tentativo di perseguirne efficacemente gli obbiettivi, essenziali per la difesa della biodiversità marina, anche a costo di provocare, consapevolmente, contraccolpi sul piano economico e sociale.
Di talché, attraverso gli atti non legislativi adottati dalle suddette organizzazioni (raccomandazioni, risoluzioni o pareri) è talvolta possibile bypassare “l’ostacolo” rappresentato dalla procedura legislativa ordinaria (cfr. art. 289, par. 1, TFUE) o della più semplice procedura speciale (par. 2, art. cit.). Ostacoli procedurali, con il conseguente allungamento dei tempi di adozione, se non addirittura politici, allorquando su un dossier possono confluire visioni e sensibilità profondamente diverse da Stato a Stato, con la conseguenza di complicare notevolmente la gestione del negoziato intracomunitario.
In tali circostanze, infatti, attraverso una forzata quanto opinabile interpretazione ed applicazione delle norme del TFUE (in particolare l’art. 216), si tenta di “accelerare” il risultato di introiettare nell’acquis communautaire disposizioni non cogenti per le imprese e per i cittadini, lavoratori e/o consumatori, ma vincolanti solo per gli Stati membri; norme quindi “imperfette” sotto il profilo della loro forza di legge, per via del mancato rispetto del procedimento legislativo richiesto dal Trattato ai fini della loro adozione, recepite però in via sostanziale senza fare ricorso agli strumenti normativi del caso (in primo luogo regolamenti).
Ed ecco quindi che sempre più spesso capita di assistere ad un recepimento (non sempre regolare, non solo a detta di chi scrive) di queste norme “regionali” attraverso atti di vario genere (anche di carattere non normativo) adottati dalle pubbliche amministrazioni dei vari Stati membri; utilizzando il citato art. 216, i competenti servizi della Commissione europea in questi casi tendono a sollecitare, anche mediante semplici comunicazioni, i singoli Stati membri affinché provvedano essi stessi a conferire validità erga omnes a tali raccomandazioni, sul presupposto della loro cogenza sul piano dei rapporti inter-istituzionali.
Insomma, e per concludere, possiamo con ogni probabilità affermare che è in atto una sorta di processo di “tracimazione” delle prerogative della Commissione europea cui le Amministrazioni dei Paesi membri spesso non possono, talvolta non vogliono, altre volte malauguratamente non sanno porre un freno.
Artt. 38-44, art. 216, artt. 288-299, TFUE del 25.3.1957; Reg. CEE 20.12.1992, n. 3760; Reg. CEE 20.7.1993, n. 2080; Reg. CE 17.12.1999, n. 104; Reg. CE 20.12.2002, n. 2371; Reg. CE 27.7.2006, n. 1198; Reg. CE 21.12.2006, n. 1967; Agreement for the establishment of the General Fisheries Commission for the Mediterranean; Reg. CE n. 3760/92; Reg. CE n. 104/00.
Borchardt, K., L’ABC dell’Unione europea, Bruxelles, 2011; A.A.V.V., Codice di condotta per la pesca responsabile, Roma, 1992; A.A.V.V., Il Vademecum del produttore ittico, Roma, 2006.