Abstract
La voce esaminata ripercorre la complessa evoluzione della politica sociale nel processo d’integrazione europea fino alle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona. Viene così evidenziato il salto di qualità operato in ordine ai profili sociali dalla loro iniziale funzione meramente ancillare rispetto alle esigenze del mercato comune alla pur faticosa acquisizione di un autonomo rilievo giuridico e politico. Tale evoluzione si è compiuta sotto la spinta di un’importante giurisprudenza della Corte di giustizia e grazie al risalto assunto dai diritti fondamentali soprattutto con l’avvento della Carta di Nizza.
La dimensione sovranazionale delle relazioni sociali, conseguenza inevitabile della ben più consolidata proiezione sovranazionale dell’economia, determina la necessità di un nuovo compromesso politico per le conseguenti difficoltà dei sistemi nazionali di assicurare un’adeguata protezione del lavoro e la giustizia sociale. Dopo i primi interventi realizzati grazie alla nascita nel 1919 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nell’immediato secondo dopoguerra una specifica attività giuridica internazionale in materia si realizza, nel nostro continente, solo nel Consiglio d’Europa grazie all’adozione della Carta sociale europea (Torino, 1961). Questa, pur caratterizzata in termini di soft law, si è successivamente arricchita con un Protocollo (1995) che prevede una procedura di reclami collettivi fondata sul ricorso al Comitato europeo dei diritti sociali (a sua volta potenziato grazie alla revisione operata nel 1996 ed entrata in vigore nel 1999).
Per quanto riguarda invece le Comunità europee, politiche e diritti sociali nella prima fase sono pressoché assenti, sacrificati sull’altare del mercato comune e della concorrenza. Inizialmente i riferimenti fondamentali vanno ricercati nel principio di eguaglianza e nel divieto di discriminazioni, coniugati tuttavia in funzione della libertà di circolazione e soggiorno dei lavoratori dei Paesi membri. L’obiettivo prioritario è la creazione del mercato europeo rispetto alle cui esigenze la legislazione in tema di lavoro risulta di fatto ancillare. È vero, infatti, che il Trattato di Roma istitutivo della Comunità Economica Europea (1957) indica ab initio tra gli obiettivi «un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita» (art. 2) e l’art. 117 evidenzia l’accordo tra gli Stati membri sulla necessità di promuovere «il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della mano d’opera che consenta la loro parificazione nel progresso». Ma fra le cd. clausole sociali (artt. 117-122) solo la parità retributiva uomo-donna diviene, grazie alla Corte di giustizia, il primo “cavallo di troia” di un’effettiva tutela del lavoro. Non a caso la Corte di giustizia sancisce (sent. 8.4.1976, Defrenne c. Sabena, causa C-43/75, in Racc., 1976, 455) che «il principio della parità di retribuzione è uno dei principi fondamentali della comunità» e che «l’art. 119 può essere applicato direttamente e può quindi attribuire ai singoli dei diritti che i giudici nazionali devono tutelare».
Lo stesso Comitato economico e sociale ‒ istituito già nel 1957 e formato attualmente da 353 rappresentanti dei datori di lavoro, dei lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile ‒ nasce come mero forum di discussione delle questioni legate al mercato unico per trasmettere i propri pareri alle maggiori istituzioni. Esso è oggi, con il Comitato delle Regioni, organo consultivo dell’Unione ma può formulare pareri anche di propria iniziativa (artt. 301-304 TFUE).
Effetti socialmente benefici si producono soprattutto in via “preterintenzionale” e sempre per opera della Corte di giustizia. In tal senso va letta la vasta giurisprudenza che attribuisce valenza sociale al principio di non discriminazione a motivo della nazionalità, nell’ambito della libera circolazione dei lavoratori, al fine di consentire il pieno inserimento degli stranieri comunitari e delle loro famiglie nel nuovo contesto territoriale di immigrazione.
La politica sociale comunitaria comincia quindi ad acquisire maggiore significato soprattutto dietro l’impulso di una trasformazione del processo d’integrazione verso la costruzione progressiva di un’identità svincolata dalla semplice, per quanto fondamentale, integrazione economica per evolversi nella direzione di una società democratica di tipo nuovo. Ne sono testimonianza i primi interventi normativi proprio in tema di parità fra uomo e donna (a partire dalla direttiva 76/207/CEE del 9.2.1976).
Lo stesso Fondo Sociale Europeo, sorto già con il Trattato di Roma per favorire la migrazione dei lavoratori entro i confini europei, è stato progressivamente e decisamente orientato verso la lotta alla disoccupazione giovanile ed allo sviluppo delle risorse umane (artt. 162-164 TFUE).
Il tentativo di elaborare un vero e proprio modello sociale europeo si delinea con i primi tentativi di dialogo sociale a livello comunitario con gli incontri che si svolgono, a partire dal gennaio 1985, presso la residenza di Val Duchesse tra la Confederazione europea dei sindacati (CES), nata nel 1973, e le organizzazioni europee degli imprenditori sia privati (UNICE) che pubblici (CEEP). Nello stesso anno Jacques Delors promuove il Libro bianco sul completamento del mercato interno (1985), successivamente ripreso nel Libro bianco su crescita, competitività, occupazione: le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo (1993).
Un inatteso impulso verso il maggiore rilievo dei profili sociali nell’ordinamento comunitario è dato da un aspetto puramente procedurale eppure di notevole significato non solo simbolico. Infatti, con l’Atto Unico del 17.2.1986 è introdotto il voto a maggioranza qualificata per l’approvazione delle norme dirette a migliorare l’ambiente di lavoro e a tutelare salute e sicurezza dei lavoratori (art. 118 A) così rendendo finalmente possibile l’adozione di numerosi atti a partire dalla direttiva quadro 89/391/CEE del 12.6.1989, riguardante l’applicazione di provvedimenti volti a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro.
Un’ulteriore novità, di rilevanti conseguenze, è data dall’introduzione del concetto di coesione economica e sociale comportante l’impegno degli Stati membri verso la riduzione del divario fra le diverse regioni e del ritardo di quelle meno favorite. Il Titolo V dell’Atto Unico istituisce le prime competenze comunitarie in materia di politica sociale, di ricerca e sviluppo tecnologico, di politica ambientale. Nel nuovo clima, giuridico e politico, si giunge così all’approvazione, nel 1989, della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori (9.12.1989) la quale, per quanto qualificabile in termini di soft law, diviene base per sviluppi importanti cominciando a disegnare uno “spazio sociale europeo”.
Il TUE di Maastricht (7.2.1992) rappresenta una vera svolta per l’ampliamento della dimensione sociale dell’azione comunitaria grazie allo stratagemma, necessario per superare l’opposizione britannica, di inserire un Protocollo addizionale sottoscritto inizialmente solo da undici dei dodici Stati membri. L’Accordo sulla politica sociale, allegato al Protocollo, estende gli obiettivi dell’intervento comunitario in materia inserendo l’informazione e la consultazione dei lavoratori, la parità uomo-donna, l’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro. Esso istituzionalizza il dialogo fra le parti sociali a livello comunitario ed adotta il metodo di incorporare gli accordi quadro ed i contratti collettivi delle parti sociali in direttive. Di gran rilievo sono infine il rinvio ai diritti sanciti dalla CEDU ed alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri nonché la nascita della cittadinanza europea, che esalta indubbiamente i diritti riferibili alla persona. La descritta clausola derogatoria a favore del Regno Unito è comunque superata con il Trattato di Amsterdam (2.10.1997) grazie al nuovo atteggiamento politico britannico. Il contenuto dell’Accordo sulla politica sociale, con la contestuale abrogazione del Protocollo n. 14 allegato al Trattato sull’Unione contenente le disposizioni adottate a Maastricht, è così trasposto nei nuovi artt. da 136 a 145 con un preciso riferimento ai “diritti sociali fondamentali” (art. 136).
La politica sociale assume ormai un rilievo centrale costruendosi attorno al tema dell’occupazione inteso quale fattore indispensabile nel processo d’integrazione. Il mutato quadro normativo offre, quindi, maggiori possibilità interpretative alla Corte di giustizia ed i nuovi equilibri politici raggiunti sono da essa assunti nella sentenza Albany (sent. 21.9.1999, Albany International B. c. Stichting Bedrijfspensioenfonds Textielindustrie, causa C-67/96, in Racc., 1999, I-5751 ss.); con essa vengono posti i primi limiti alla libertà di concorrenza in ordine agli accordi collettivi stipulati tra organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori.
I passi avanti così registrati restano tuttavia ancorati al conseguimento di “obiettivi sociali” ma non al soddisfacimento di veri e propri “diritti sociali” e pur sempre nel quadro del mantenimento della “competitività dell’economia” comunitaria. Eppure la stessa Corte, subito dopo, apre primi spiragli nel caso Arblade (sentenze 23.11.1999, Arblade e Arblade & Fils SARL e Bernard Leloup, Serge Leloup e Sofrage SARL, cause riunite C-369/96 e C-376/96, in Racc.,1999, I-8453 ss.) con cui afferma che una restrizione alla libera prestazione dei servizi ai sensi dell’art. 59 del Trattato può essere giustificata soltanto qualora sia necessaria per tutelare effettivamente e con i mezzi appropriati la ragione imperativa d’interesse generale costituita dalla tutela sociale dei lavoratori.
Le revisioni del Trattato avvenute negli anni novanta consentono l’adozione di numerose direttive in materia. Si ricordano la n. 91/533 sulle informazioni al lavoratore delle condizioni di lavoro, le nn. 97/81 sul lavoro a tempo parziale, 93/104 ‒ poi divenuta 2003/88 ‒ sull’orario di lavoro e 96/24 sui congedi parentali. Da segnalare, in particolare, è la direttiva n. 99/70 sul lavoro a tempo determinato (come la n. 97/81 frutto diretto del dialogo sociale in quanto recepisce un accordo quadro in ambito europeo) per l’ovvia ragione che, con la crisi economica, si amplia il ricorso al contratto a termine quale formula contrattuale “preferita” per le nuove assunzioni e quindi per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.
Provvedimenti di grande rilevanza, costruiti con struttura e contenuti quasi identici salvo che per la specifica tipologia dei motivi discriminatori sanzionati, sono inoltre le direttive 2002/73 e 2006/54 sulle pari opportunità nonché la 2000/43/CE del Consiglio del 29.6.2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. Nel 2000 è anche adottata la direttiva 2000/78 del 27 novembre, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro ma che viene interpretata dalla Corte (sent. 22.11.2005, Werner Mangold c. Rüdiger Helm, causa C-144/04, in Racc., 2005, I-9981) nel senso di non sancire essa stessa il relativo principio. La non discriminazione in ragione dell’età deve pertanto essere considerata un principio generale del diritto comunitario secondo quanto ribadito con maggiore chiarezza nel caso Kücükdeveci del 2010 (sent. 19.1.2010, Seda Kücükdeveci c. Swedex GmbH & Co. KG, causa C-555/07, in Racc. I-365, punti 22-26).
Nel più significativo quadro giuridico realizzato si delinea progressivamente un atteggiamento della Corte di giustizia in cui la tutela dei diritti non è più garantita solo in quanto funzionale agli interessi e agli obiettivi della Comunità ma si lega progressivamente al raggiungimento dei valori e degli obiettivi più generali perseguiti dal Trattato. Tale evoluzione riceve un impulso determinante dal Consiglio europeo di Nizza (dicembre 2000) che adotta l’Agenda sociale europea, tappa fondamentale per rafforzare e modernizzare il modello sociale europeo attraverso un legame indissociabile tra prestazione economica e progresso sociale. Ma, soprattutto, viene approvata la Carta dei diritti fondamentali (d’ora in poi la Carta); in essa indivisibilità, interdipendenza e complementarietà dei diritti sono unificati attorno ai valori fondamentali della dignità della persona, della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà, della cittadinanza e della giustizia. I diritti sociali sono, quindi, collocati in posizione di equipollenza con gli altri diritti culturali, civili e politici e la concreta garanzia di questi ultimi è legata alla contestuale tutela di quelli sociali.
Ma la maggior parte dei diritti sociali è contenuta nel Titolo IV dedicato alla Solidarietà che, accanto al lavoro, si qualifica come diritto fondamentale dell’Unione. Questo insieme di disposizioni si muove pertanto nella medesima logica del perseguimento delle finalità di progresso e coesione sociali sulle quali afferma di fondarsi l’intero processo d’integrazione europea pur nei limiti, sanciti all’art. 51, par. 2, di non introdurre «competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione» e di non modificare «le competenze e i compiti definiti nei trattati».
Con la Carta si concretizza il passaggio da un’Unione europea solo economica ad un’Unione politica e di diritti, con il conseguenziale consolidamento del sistema giuridico comunitario. Essa si accolla l’altissimo compito di codificare il modello sociale europeo, frutto di un lento cammino pluridecennale, innescando un circuito virtuoso tra le politiche economica, sociale e dell’occupazione.
Le speranze da molti riposte in una sorta di “capovolgimento” dei rapporti tra diritti economici e diritti sociali grazie alla giurisprudenza innovativa della Corte di giustizia sono però deluse dalle celeberrime sentenze del 2007 Viking (sent. 11.12.2007, International Transport Workers’ Federation e Finnish Seamen’s Union c. Viking Line ABP e OÜ Viking Line Eesti, causa C-438/05, in Racc., 2007, I-10779) e Laval (sent. 18.12.2007, Laval un Partneri Ltd c. Svenska Byggnadsarbetareförbundet e altri, causa C-341/05, in Racc., I-11767). In esse la Corte di giustizia, pur riconoscendo per la prima volta il diritto dei sindacati di intraprendere un’azione collettiva come un diritto fondamentale, tuttavia ne limita l’utilizzazione nel senso che essa deve avvenire in modo proporzionato. I diritti sociali sono inseriti in un circuito di bilanciamento con le libertà economiche fondamentali tale da nuocere alla loro affermazione come diritti dotati di piena effettività. Nella sentenza Viking la Corte sancisce l’intangibilità del diritto di sciopero a fini contrattuali nei confronti della libertà di concorrenza (nei limiti indicati dalla sentenza Albany), ma ne esclude esplicitamente l’applicabilità anche alle libertà economiche di circolazione.
La scelta della Corte di fissare un’equivalenza gerarchica tra diritti fondamentali e libertà fondamentali avrebbe potuto forse porsi in termini più equilibrati, dando maggiore rilievo al diritto fondamentale di sciopero e valutando fino a che punto quest’ultimo potesse essere condizionato dalle libertà economiche. Analoghe critiche possono essere svolte a proposito della successiva sentenza Commissione c. Germania in cui la Corte assegna una sostanziale prevalenza alla puntuale disciplina della libertà economica in tema di appalti rispetto al diritto di negoziazione collettiva (sent. 15.7.2010, Commissione c. Germania, causa C-271/08, in Racc., I-7091).
Lo scarso “coraggio” che la Corte di giustizia continua a mostrare in questa circostanza va comunque letto alla luce della collocazione dei diritti in questione in un ambito sovranazionale ancora a dimensione prevalentemente economica.
In coerenza con la descritta evoluzione avvengono la firma (13.12.2007) e poi l’entrata in vigore (1°.12.2009) del Trattato di Lisbona, anche se la riforma si colloca temporalmente in uno dei momenti più difficili delle vicende economico-finanziarie internazionali e, di riflesso, più delicati per le sorti dello stesso processo d’integrazione europea. Ad ogni modo, è cresciuto il ruolo di tematiche quali le politiche antidiscriminatorie non solo rispetto alla nazionalità ma anche nei confronti di inclusione sociale, riorganizzazione del welfare, immigrazione da Paesi terzi, politica demografica, occupazione giovanile.
La politica sociale fa parte delle competenze concorrenti tra l'Unione e gli Stati membri (art. 4, par. 2, lett b), TFUE), considerata la sua più efficace applicazione a livello degli stessi; pertanto, in conformità al principio di sussidiarietà, il ruolo dell'Unione si limita, nei settori descritti all’art. 153 TFUE, a sostenere ed integrare l'azione nazionale, soprattutto attraverso l’uso di direttive, svolgendo un ruolo di regolatore e di coordinamento delle politiche nazionali. Inoltre, l'adozione delle norme avviene, per la maggior parte delle misure in materia, secondo la procedura legislativa ordinaria (e cioè, ai sensi degli artt. 289 e 294 TFUE, con l’adozione congiunta dell’atto da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su proposta della Commissione). Per alcune, invece, permane il voto all'unanimità del Consiglio, previa consultazione del Parlamento europeo, riprendendo peraltro la specifica clausola passerella, introdotta dal Trattato di Nizza; con essa il Consiglio è autorizzato, decidendo all'unanimità, ad applicare anche in questi casi la procedura legislativa ordinaria.
Con il nuovo Trattato s’introducono interessanti novità sotto il profilo della valorizzazione degli aspetti sociali dell’integrazione. In via generale l’art. 6 TUE, oltre a riproporre il richiamo alla Convenzione europea e alle tradizioni costituzionali comuni, codifica la possibilità di adesione dell’Unione alla CEDU e soprattutto, per quanto qui rileva, accorda alla Carta lo stesso valore giuridico vincolante dei Trattati; con ciò si prefigura la determinazione di un concorso di fonti, la cui applicazione difficilmente potrà essere sottratta al principio dello standard massimo di protezione.
In termini più specifici, l’art. 2 TUE sui valori dell’Unione sancisce quello della solidarietà, caratterizzando in tal modo la disposizione successiva sugli obiettivi. Nel successivo art. 3, par. 3, infatti, gli obiettivi dell’Unione sono ridefiniti facendo esplicito riferimento alla “piena occupazione” (non più, come nei precedenti artt. 2 TUE e TCE, ad un “elevato livello di occupazione”), alla lotta all’esclusione sociale e alle discriminazioni, alla parità tra donne e uomini, alla solidarietà e alla coesione. Si introduce così l’obiettivo di un’economia sociale di mercato fortemente competitiva (art. 3, par. 3, TUE) con l’assunzione in proprio, e non soltanto attraverso gli Stati, di qualificanti obiettivi sociali, per quanto nel rispetto del principio di sussidiarietà (art. 5, par. 3, TUE). Per di più, grazie al successivo art. 9 gli obiettivi sociali vengono “proiettati” all’interno di tutte le politiche ed azioni del sistema, configurando una vera e propria “clausola sociale orizzontale”.
L’importanza della norme appena descritte acquisisce maggiore rilievo grazie alla valorizzazione dei diritti fondamentali della persona nell’Unione europea grazie non solo alla portata vincolante della Carta ma anche all’esplicito richiamo, operato dall’art. 151 TFUE, alle precedentemente citate Carta sociale europea del 1961 e Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989.
È ovvio che un processo fondato sulla “solidarietà coniugata a più livelli” non possa che costruirsi dal basso, partendo anche dai soggetti collettivi in grado di rappresentare gli interessi dei cittadini europei attori nel mercato del lavoro. In tal senso va letto l’art. 152 TFUE contenente l’implicito riconoscimento giuridico delle diverse forme nelle quali si esprime il diritto sindacale. Esso contribuisce in termini significativi a valorizzare gli istituti del pluralismo sociale a livello dell’Unione, rafforzando la concertazione e la contrattazione collettiva come metodo di regolazione sopranazionale (art. 155 TFUE).
Certo, tale sistema non può recepire pedissequamente nozioni nate e radicate nel diritto interno quali l’autonomia collettiva che, una volta trasposte nell’ordinamento sovranazionale, assumono inevitabilmente caratteristiche almeno parzialmente diverse in quanto “relativizzate” al contesto giuridico in cui si collocano. Vanno in proposito segnalate quelle sentenze della Corte del Lussemburgo che, dal leading case Martínez Sala (sent. 12.5.1998, Maria Martínez Sala c. Freistaat Bayern, causa C-85/96, in Racc. 1998, I-2691) sino alle recenti Zambrano (sent. 8.3.2011, Ruiz Zambrano c. Office national de l’emploi (ONEm), causa C-34/09, in Racc. 2011, I-1177), Dereci (sent. 15.11.2011, Murat Dereci e altri c. Bundesministerium für Inneres, causa C-256/11, in Racc. 2011, I-11315) e Kamberaj (sent. 24.4.2012, Servet Kamberaj c. Istituto per l'Edilizia Sociale della Provincia autonoma di Bolzano, causa C-571/10, non ancora pubblicata), hanno decisamente ampliato la sfera dei diritti di accesso transnazionale ad un’ampia gamma di prestazioni assistenziali e previdenziali degli Stati membri, includendovi anche i cittadini europei economicamente non attivi che versino in condizioni di bisogno, in tal modo dischiudendo anche ad essi le porte di una forma di “solidarietà sociale europea”. Questa giurisprudenza segna un chiaro momento di affrancamento dalla logica del mercato ed il superamento della concezione rigidamente funzionalizzata legata ai soggetti economicamente attivi nella veste di lavoratori subordinati o autonomi.
Il grado d’incidenza della politica sociale nel processo d’integrazione è comunque fortemente legato alla sua capacità di successo sul piano dell’occupazione. La Strategia europea per l'occupazione (SEO), attivata nel 1997 al fine di coordinare le diverse politiche nazionali, istituisce un quadro di sorveglianza multilaterale con cui si esortano gli Stati membri ad attuare delle politiche più efficaci in questo settore. Essa si fonda sul metodo aperto di coordinamento, definito dagli artt. 145-150 TFUE, con cui, per quanto con i limiti della sua natura di soft law, vengono garantiti la definizione degli obiettivi globali per l’Unione, la realizzazione di indicatori e di statistiche, il follow-up periodico e la valutazione dei progressi fatti, nonché lo scambio di buone pratiche tra Stati membri. A base della SEO sono gli orientamenti per l’occupazione i quali vengono proposti dalla Commissione in base alle priorità comuni concordate dagli Stati membri per le politiche in materia; essi sono quindi adottati dal Consiglio, previa consultazione del Parlamento europeo e degli altri organismi consultivi. Nel 2010 gli orientamenti sono diventati dieci e finalizzati a creare più posti di lavoro nonché impieghi più qualificati in tutta l'Unione. Appare in proposito evidente l’influenza sugli stessi operata da Europa 2020 ‒ peraltro sorta sulle ceneri della precedente Strategia di Lisbona del primo decennio ‒ la quale delinea gli obiettivi e gli strumenti dell’Unione e degli Stati membri per la crescita e l’occupazione nel decennio 2011-2020 attraverso lo sviluppo di un'economia intelligente, sostenibile e solidale (Comunicazione della Commissione COM (2010) 2020 del 3.3.2010).
Questo processo viene sostenuto dal lavoro del Comitato per l’occupazione, creato nel 2000 a seguito di una decisione del Consiglio del 24 gennaio (GUUE L 29 del 4.2.2000). Il Comitato si compone di due rappresentanti per Stato membro e di due rappresentanti della Commissione e svolge una funzione consultiva su molteplici tematiche sociali (art. 150 TFUE).
La politica sociale, in conclusione, sembra assumere un nuovo ruolo a livello europeo, sottolineando la necessità per l'Unione di puntare su una crescita che non sia solo economica con l’obiettivo di costruire il “mercato unico sociale”. Ma la grave crisi economico-finanziaria in atto sta seriamente legando il destino dello sviluppo di centinaia di milioni di persone a speculazioni finanziarie prive di regole ed indifferenti alle gravi conseguenze sociali che ne derivano. Diventa allora necessaria la nascita di un nuovo assetto normativo in grado di delineare una vera e propria politica economica e sociale europea ed evitare un trascinamento in basso degli standard minimi con il conseguente rafforzamento del dumping sociale. Questo finirebbe per soffocare progressivamente tutele frutto di decenni di conquiste sociali rinnegando quegli obiettivi espressamente sanciti dal Trattato come «la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione» (art. 151, par. 1, TFUE).
Art. 6 TUE; Artt. 9, 145-166 TFUE; Artt. 12, 21, 23-35 della Carta dei diritti fondamentali. Per le fonti di diritto derivato, v. www.eur-lex.europa.eu.
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