politica linguistica
Per politica linguistica si intende ogni iniziativa o insieme di misure attraverso cui le istituzioni esercitano un influsso sugli equilibri linguistici esistenti in un Paese; tale etichetta ricopre in realtà diversi aspetti di un processo che implica «vari gradi di intenzionalità, dal consapevole al non consapevole» (Klein 2003: 67).
In senso stretto, sono manifestazioni di politica linguistica tutte le «azioni dirette o esplicite che servono a influenzare i comportamenti delle persone per quanto riguarda l’acquisizione, la struttura (o corpus) e la ripartizione funzionale (o status) dei loro codici linguistici» (Gazzola 2006: 23): ad es., la definizione della ➔ norma linguistica a cui fare riferimento nei differenti usi, il riconoscimento dell’ufficialità di un idioma, la gestione del ➔ repertorio linguistico in una comunità plurilingue o la risoluzione di un conflitto linguistico.
La politica linguistica si caratterizza dunque come operazione comprensiva «di tutti gli ambiti di incontro, sovrapposizione e contiguità fra pratiche linguistiche e pratiche sociali a forte rilevanza politica» (Carli 2004: 19). Essa è in ogni caso distinta dalla ➔ pianificazione linguistica, che è invece la programmazione di interventi specifici che hanno come oggetto la struttura, la fissazione di una norma, la creazione di un’ortografia, l’arricchimento lessicale capace di far fronte alle esigenze di una lingua di ampia comunicazione, ecc.
Parlare di politica linguistica italiana è improprio, perché l’Italia è stata tradizionalmente refrattaria ad assumere misure volte a un qualsiasi orientamento delle pratiche comunicative. L’assenza di un disegno in tal senso è legata alla debolezza dell’identità nazionale, alla tardiva conclusione del processo unitario e al persistere di spinte particolaristiche.
Nel corso del secolo XIX, per reazione al razionalismo illuministico e in appoggio alle istanze di popolazioni desiderose di affrancarsi dalla subalternità agli imperi sovranazionali, si diffuse in Europa la concezione, di impronta romantica, secondo cui uno Stato deve coincidere con una determinata lingua, omogenea al suo interno. Anche in Italia trovò allora terreno favorevole l’identificazione lingua-nazione. Tale concezione mantenne a lungo la sua efficacia anche tra i linguisti, creando un filtro che velava l’intrinseca diversità interna alle lingue; e una visione fondata sul monolinguismo ha continuato ad agire ancora nel XX secolo.
Dopo l’Unità d’Italia (1861), il nuovo Stato dovette fare i conti con un Paese in cui i dialetti erano il mezzo di comunicazione prevalente (➔ sociolinguistica), e «apparve impellente la necessità di disporre d’un tipo d’italiano che fosse adeguato alle più svariate esigenze della comunicazione scritta e parlata» (Raffaelli 2006: 1465). Le prime espressioni di un disegno volto a regolare le scelte linguistiche dello Stato si colgono nei programmi scolastici del ministro Coppino, del 1867; l’anno dopo Emilio Broglio, ministro della Pubblica Istruzione, varò una commissione presieduta da ➔ Alessandro Manzoni, il cui scopo era «aiutare a rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua». Dai lavori della commissione scaturì la relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868), con la quale Manzoni individuava nel fiorentino colto contemporaneo il modello linguistico di riferimento: in aderenza a tali indicazioni venne realizzato ad opera dello stesso Broglio e di Giovan Battista Giorgini un Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze (1870-1897; ➔ lessicografia; ➔ Ottocento, lingua dell’). La proposta manzoniana suscitò svariate riserve (➔ questione della lingua), tra cui quella di ➔ Graziadio Isaia Ascoli, che, nel Proemio dell’«Archivio Glottologico Italiano» (1873), osservava come, per il tradizionale policentrismo e la complessità socioculturale del Paese, non fosse realistico additare il toscano come comune denominatore linguistico. Tuttavia l’intervento ascoliano non ebbe seguito immediato, e venne contraddetto da disposizioni ministeriali ispirate a un orientamento antidialettale che avrebbe raggiunto il culmine nei programmi scolastici del 1905 (De Blasi 1993: 406-407; ➔ scuola e lingua). Un veicolo delle ideologie linguistiche erano allora le grammatiche normative (➔ grammatica): esse furono condizionate, sino alla fine del XIX secolo, dalla dialettica tra le soluzioni manzoniane e l’impostazione pluralista di Ascoli, poi dalla «negazione crociana di ogni validità filosofica della grammatica stessa», che, associandosi alla crisi dei progetti educativi e politici risorgimentali, ricondusse «il dibattito linguistico-pedagogico e gli strumenti didattici a una nuova, ma sostanzialmente impoverita, unitarietà di posizioni normative» (Catricalà 1995: 220).
Dopo che la prima guerra mondiale, avvicinando persone delle più svariate provenienze regionali, aveva segnato un importante momento di accelerazione del processo di unificazione della società italiana, con l’avvento del fascismo si inaugurò una fase di politica linguistica autoritaria e dirigista che, in nome della «tradizionale connessione fra unità della lingua e unità della nazione» (Raffaelli 2006: 1465), promosse una vera lotta contro le minoranze linguistiche, i dialetti e le parole straniere (➔ fascismo, lingua del).
Fu così avviata un’azione repressiva nei confronti degli alloglotti delle aree di confine (➔ minoranze linguistiche); particolarmente dura fu l’operazione condotta in Alto Adige (➔ tedesca, comunità), dove dal 1923 Ettore Tolomei attuò un programma di italianizzazione forzata che toccò tutti i segni esterni dell’identità locale, ivi compresi i ➔ toponimi (che vennero italianizzati con soluzioni spesso arbitrarie), estendendosi all’istruzione (l’italiano divenne la sola lingua d’insegnamento), alla stampa e all’amministrazione. La campagna antidialettale fu invece preceduta, nel primo dopoguerra, da una parentesi liberalizzatrice ispirata dal pedagogista Giuseppe Lombardo Radice che, come direttore generale dell’Istruzione primaria e popolare (1922-1924), introdusse il metodo cosiddetto «dal dialetto alla lingua» nei programmi scolastici della riforma Gentile. Col consolidarsi del regime prese corpo però una linea ostile al regionalismo, in quanto ostacolo all’ideologia nazionale del fascismo.
Un’esplicita politica antidialettale si affermò all’inizio degli anni ’30 e alla sua definizione non fu estraneo lo stesso Mussolini. Per quanto riguarda la difesa della lingua dagli ‘esotismi’, nella prima fase del regime la linea non fu sistematica: l’avversione ai forestierismi rimase per alcuni anni prerogativa del mondo intellettuale, affidata ad articoli di stampa o a repertori in grado di influenzare il gusto comune (come il Dizionario moderno di Alfredo Panzini, 1923-1935). Anche in questo caso il regime irrigidì progressivamente la propria posizione, con la graduale intensificazione delle misure dirette a limitare l’introduzione dei forestierismi in italiano (Raffaelli 1983 e 1997), mentre l’Accademia d’Italia (1926-1944) formava una speciale Commissione per l’espulsione dei barbarismi dalla lingua italiana, dal 1941 ridenominata Commissione per l’italianità della lingua (Klein 1986: 193-200; Mengaldo 1994: 15). In tale contesto si distinse per misura Bruno Migliorini, ispiratore della fortunata sostituzione di alcune voci (ad es., fr. chauffeur e régisseur con autista e regista) e propugnatore di un atteggiamento moderato che non si ostinasse a respingere le parole straniere già accolte nell’uso, ma applicasse i principi della cosiddetta glottotecnica, una prefigurazione della linguistica applicata volta a indirizzare la coniazione di ➔ neologismi ragionevoli (➔ neopurismo). Quanto alla norma d’uso, nel ventennio fu promosso un asse Roma-Firenze che, in nome della vocazione ‘imperiale’ della capitale, ne rivalutava il ruolo cercando di contemperarlo col tradizionale primato toscano.
Nell’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale una funzione di indirizzo è esercitata dalla Costituzione (1948), in cui il tema della lingua è toccato espressamente negli artt. 3 e 6 e indirettamente nell’art. 9 e nel comma 1 dell’art. 21 (➔ legislazione linguistica). Da tali enunciazioni emergono i principi dell’uguaglianza e della libertà di lingua come estensione della fondamentale libertà di espressione del pensiero (➔ diritti linguistici): si nota da una parte l’assenza di un esplicito riconoscimento dell’italiano come lingua ufficiale e dall’altra, a garanzia dei diritti delle minoranze linguistiche, la previsione (art. 6) di una tutela basata su «apposite norme».
Perché però il dettato costituzionale si traducesse in atto fu necessario attendere (se si escludono iniziative a carattere regionale) l’approvazione della legge 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), che intese armonizzare la legislazione italiana ai principi formulati da istituzioni internazionali ed europee, facendosi interprete di una sensibilità nuova verso le lingue e culture meno diffuse. Malgrado ciò, la legge 482 risente della logica che lega la tutela delle lingue minori al loro radicamento territoriale: viene così esclusa la tutela di tipi idiomatici che non soddisfino questo parametro (Orioles 2003a e 2003b).
Mentre è rimasta sempre sullo sfondo la questione del rapporto fra i dialetti e la lingua nazionale, nel primo decennio del XXI secolo è divenuto cruciale il tema dell’immigrazione esogena: i dati desunti dal XX rapporto della Caritas e di Migrantes (Immigrazione. Dossier Statistico 2010) contengono una stima di 4.919.000 immigrati (8,15% della popolazione), che impone una presa in carico dei fabbisogni linguistici, finora priva di una risposta istituzionale concreta (Vedovelli 2004; ➔ acquisizione dell’italiano come L2).
La scuola, centro di trasmissione dei saperi linguistici codificati, è anche uno snodo delle azioni di politica linguistica: grande rilievo rivestono ovviamente in tal senso gli ordinamenti e i programmi scolastici (➔ scuola e lingua). L’impianto tradizionale ereditato dalla riforma Gentile resistette fino all’introduzione della scuola media unificata (1962) che, innalzando l’obbligo scolastico ai 14 anni e abbandonando l’avviamento professionale, incise sui processi formativi favorendone la modernizzazione e contrastando la disuguaglianza sociale. Tardò invece il cambiamento nei contenuti, che continuarono a trasmettere modelli linguistici fondati sul testo letterario: solo con i nuovi programmi della scuola media (1979) e della scuola elementare (1985) si fece strada una visione attenta alle stratificazioni e alle diversità interne al sistema linguistico, più coerente col plurilinguismo del Paese. Di pari passo maturava l’insoddisfazione per i metodi tradizionali d’insegnamento e si espresse l’istanza di un’➔educazione linguistica che, superando l’attenzione per la norma prescrittiva, favorisse la costruzione di una competenza consapevole.
Quanto ai mezzi di comunicazione di massa, l’italiano della televisione delle origini (➔ lingua e media), inseparabile dal monopolio di Stato (1945-1976), controllato e quasi immutabile in rapporto al genere di trasmissione, nell’attuale sistema ‘misto’ (pubblico e privato) è sostituito da modelli fluidi, rispondenti alla varietà di programmi mandati in onda a tutte le ore (➔ televisione e lingua): sembra però mancare riguardo alle trasmissioni radiofoniche e televisive qualsiasi preoccupazione per la qualità della lingua diffusa, che pure risulta sempre più dotata di credibilità presso un ampio pubblico (Alfieri 2006: 171-172).
Il linguaggio delle istituzioni e della pubblica amministrazione (➔ giuridico-amministrativo, linguaggio; ➔ burocratese) è sempre stato caratterizzato in Italia da oscurità e riluttanza alla chiarezza, riflesso di una concezione del rapporto tra istituzioni e cittadino per cui il mezzo linguistico è un dispositivo di potere più che una facilitazione alla comprensione. Le prime iniziative volte a contrastare tale tendenza si ebbero negli anni ’90 del Novecento, come risposta a una domanda diffusa di trasparenza: seguirono dunque indicazioni, direttive e provvedimenti legislativi che influirono sugli stili comunicativi di alcune amministrazioni. In particolare, l’ENEL affidò a un gruppo di lavoro multidisciplinare il compito di ridisegnare la bolletta dell’energia elettrica (De Mauro & Vedovelli 1999), e sullo stesso terreno si pose la collaborazione tra Agenzia delle Entrate ed esperti di comunicazione dell’Università Roma Tre. Meno significativo fu l’impatto di politiche che dagli anni ’80, con la stesura delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, accompagnarono la richiesta di ‘pari opportunità’: le innovazioni, che in altre lingue hanno toccato le stesse strutture morfologiche e lessicali, per l’italiano appaiono tuttora circoscritte (➔ genere e lingua; ➔ politically correct).
L’orizzonte planetario delle dinamiche socioculturali ed economiche assegna un ruolo crescente alle cosiddette lingue di ampia comunicazione, idiomi, come l’inglese, capaci di affermarsi al di fuori del Paese d’origine non come semplici lingue straniere, ma come lingue seconde praticate nella comunicazione scritta e pubblica, negli uffici, nelle scuole, nelle attività economiche, ecc.
È inoltre noto che l’italiano non è compreso tra le lingue di lavoro degli organismi internazionali, e che resta modesto e marginale il suo profilo come lingua della diplomazia. Anche in molti organi dell’Unione Europea, in nome di ragioni operative o finanziarie (Mori 2004), si è diffusa una prassi che restringe le funzioni di «lingua di lavoro» o «procedurale» (Gualdo 2008) a un nucleo limitato di idiomi (l’inglese, affiancato dal francese e in alcuni casi dal tedesco); da questo status sono escluse lingue come l’italiano e lo spagnolo.
Altro tema cruciale è quello dell’impiego dell’italiano come lingua della scrittura scientifica (➔ scienza, lingua della): anche in questo campo l’inglese ha occupato negli ultimi anni un ruolo preponderante, assurgendo a lingua d’elezione di molti campi, inducendo a temere una «eventuale perdita di dignità dell’italiano scientifico» (Marazzini 1994: 160; Carli 2006). L’Italia è rimasta estranea a iniziative dirigistiche come quelle attuate, ad es., in Francia, deputate alla difesa e all’espansione della lingua francese e nel contempo all’elaborazione di proposte terminologiche alternative al ricorso diffuso ai prestiti.
Un’azione di controllo e informazione è svolta dall’Accademia della Crusca (Sabatini 2008), ma a tali preoccupazioni si oppongono le considerazioni di chi giudica l’influenza inglese «meno ampia e profonda di quanto indichino i toni apocalittici di chi la deplora» (Lepschy & Lepschy 1999: 180), e non vede nell’«estensione dell’uso strumentale dell’inglese in campi tecnici e commerciali [...] una sventura nazionale, ma la conseguenza di un condizionamento tecnologico che non può essere, oggi, modificato se non mediante un recesso, un autolesivo isolamento dal concerto mondiale» (Nencioni 2000: 35).
Per quanto riguarda il flusso migratorio partito dall’Italia, che fra 1876 e 1976 interessò oltre 25 milioni di persone (➔ emigrazione, italiano dell’), va notato che la stragrande maggioranza degli emigranti si è linguisticamente integrata nei Paesi d’adozione. Secondo il Ministero dell’Interno, la collettività italiana giuridicamente residente all’estero si limita oggi a poco più di quattro milioni di persone in Europa (55,3%), Americhe (39,3%), Oceania (3,2%), Africa (1,3%) e Asia (0,8%). In relazione ai gruppi di emigrati italiani, le iniziative istituzionali hanno mirato in passato principalmente a rinsaldarne i legami col Paese d’origine promuovendo lo studio della lingua nelle strutture scolastiche dei vari paesi. Più in generale, se in passato la fortuna dell’italiano era affidata ai valori della tradizione culturale, la prospettiva in cui si collocano ora la diffusione e il prestigio internazionale della lingua è radicalmente mutata, e si lega piuttosto a settori che la associano a quel complesso di prodotti ed espressioni di creatività che vanno sotto l’etichetta di Made in Italy e di ‘italicità’ (Vedovelli 2008). Tuttavia, «a questo insieme di fattori positivi ai fini dell’espansione dell’italiano nel mondo non corrisponde un’azione organica di sostegno da parte dello Stato italiano» (De Mauro & Vedovelli 1998: 585).
In Italia non esiste un organo incaricato di promuovere interventi regolativi sugli usi linguistici come, in Francia, la Délégation générale à la langue française et aux langues de France; si coglie anzi presso le istituzioni l’assenza di iniziative mirate specificamente alla valorizzazione del patrimonio linguistico del Paese, anche se ciclicamente emergono aspettative di dirigismo linguistico e istanze di difesa della lingua che si appellano a una regolamentazione pubblica.
Tale istanza fu colta, ad es., dal progetto, peraltro molto discusso e alla fine non attuato, di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana (DDL n. 993 del 21 dicembre 2001). Da parte sua, l’Accademia della Crusca dalla fine del secolo XX ha intensificato l’azione di salvaguardia e promozione delle lingue europee di cultura che necessiterebbero di supporto di fronte ai complessi fenomeni linguistici che coinvolgono il mondo intero, sia per effetto dell’affermazione dell’angloamericano, sia per la spinta delle lingue locali e regionali. In tale ottica l’Accademia ha stabilito rapporti con vari paesi dell’Unione Europea partecipando a programmi nel cui ambito assume significato simbolico la stesura di un manifesto, le Raccomandazioni di Bad Homburg per una Carta delle lingue europee di uso colto, che delinea una strategia organica di interventi basata sulla collaborazione fra accademie e istituzioni di ricerca linguistica nazionale, anche nella prospettiva di instaurare un rapporto proficuo tra le lingue di uso colto, da un lato, e le lingue regionali e minoritarie, dall’altro.
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