politica
Attività pratica relativa all’organizzazione e amministrazione della vita pubblica; arte del governo. Dai diversi ambiti nei quali la vita pubblica si sviluppa derivano le specifiche determinazioni che la p. acquista (internazionale, economica, finanziaria, ecc.).
L’etimo della parola, e la sua stessa struttura, racchiudono il significato della p. e mostrano il segno dell’ambito cui essa specificamente afferisce: la sfera pubblica e comune. P. deriva dall’aggettivo greco πολιτικός, a sua volta derivato da πόλις, città. Era il termine in uso per designare ciò che appartiene alla dimensione della vita comune, dunque allo Stato (πόλις) e al cittadino (πολίτης). Centro e insieme oggetto della p. è la πόλις, la vita nella città e della città; τά πολιτικά è l’espressione che indica, in generale, le questioni politiche. Quasi tutte le espressioni in uso per designare le questioni pubbliche, il governo, l’amministrazione, il sistema politico sono derivate da πόλις. La città è il luogo dei «molti» (οἵ πολλοί), è anche il luogo che fa di tali molti un insieme, una «comunità» (κοινωνία). Non stupisce allora che la parola πολιτικός («politico») e la parola πόλις («città») condividano la medesima radice πολ- della parola che dice «i molti» (οἵ πολλοί).
Il problema politico del mondo greco, nella sua fase arcaica, è l’organizzazione della πόλις: il suo assetto politico, le lotte tra fazioni, le guerre tra le πόλεις. Già nel 7° sec. la πόλις è il cuore pulsante della vita greca, e la p. è tema ricorrente nella forma espressiva tipica del tempo: la poesia. La poesia racconta di una p. pensata e vissuta come dimensione indissolubilmente legata alla religione; racconta gli ideali, i problemi, i valori politici del tempo. I poeti (Callino, Tirteo, Alceo) cantano la guerra in difesa della città, la vita donata per il bene della comunità, e l’onore della città, il valore dell’identità cittadina. La poesia testimonia come la visione della p. si innestasse su un ideale di ordine e di giustizia per la città, di cui è riflesso un sentimento radicato e diffuso: l’orrore per la tirannide. Le due cose procedono insieme: l’orrore per la tirannide è parte di un ideale di giustizia (➔) che trae alimento dalla dimensione politica. La visione arcaica lega indissolubilmente la p. alla religione e all’etica: giustizia e p. procedono insieme, e insieme dicono il «buon ordine» della città. Non c’è ordine politico senza giustizia, né giustizia senza ordine politico; e l’ordine politico, come la giustizia, è essenzialmente un fatto di misura. Ecco allora il senso profondo di quella avversione alla tirannide che è tratto peculiare della cultura politica greca: la tirannia è il dominio di uno sui molti, il regime fuor di misura. Il punto più alto di questa visione della p. centrata sulla «misura» è rappresentato dall’opera costituzionale di Solone (6° sec): la promulgazione di leggi ispirate a principi di equità sociale e politica, destinate ai cittadini di Atene, in realtà pensate non per i singoli ma per la salvezza e la dignità della città, per sottrarla alla guerra civile (στάσις), per tenerla lontana dalla tirannide. Sono leggi ispirate dall’ideale del «buon governo» (εὐνομια), ossia dell’ordine conforme a giustizia. Contengono, non detto ma implicito, quel principio del governo delle leggi sul quale, secoli dopo, si sarebbe soffermato Aristotele; pure contengono le premesse per quel principio dell’uguaglianza davanti alla legge (ἰσονομία) che si sarebbe compiutamente affermato nell’Atene di Pericle. Θεσμοί: così Solone chiama le sue leggi. La parola è carica di significato. Ha la radice ϑε- delle parole che dicono la sfera del divino (ϑεῖος). Il vincolo di religione e p. comincia a incrinarsi con Senofane e con Eraclito; il 5° sec. segna il compiersi della svolta. Si consuma ora il distacco della p. dalla religione, anche il suo legame con l’etica diventa problematico. Ma il passaggio da una visione religiosa a una visione laica della p. non è univoco, e non è indolore. Nasce nel 5° sec. la democrazia, si afferma un nuovo indirizzo filosofico, di grande impatto politico: la sofistica (➔). In quello stesso secolo, alla sofistica si contrappone Socrate. Socrate, che parla per bocca di Platone, rivela la distanza che ormai separa una p. pensata come servizio alla città da una p. pensata e vissuta nell’ottica del principio di utilità. La p. ora si misura sull’utile dei governanti (Trasimaco), le leggi sono solo convenzioni, artificiosa invenzione dei deboli per impedire ai forti di dispiegare il loro dominio (Callicle). Le leggi di Atene non sono più ϑεσμοί, ora sono νόμοι. Il passaggio dall’un termine all’altro ben rappresenta il mutamento politico dell’Atene del 5° sec., la sua distanza dall’Atene di Solone. In questo mutamento si ravvisa il segno di un nuovo modo di intendere la p.: attività umana, espressione di partecipazione. La p. è «arte del persuadere» (Protagora): vero e falso perdono di significato. L’idea dell’uomo «misura di tutte le cose» (Protagora) prende il posto un tempo occupato dalla parola oracolare. Strappata ai canoni del passato, la p. vive una stagione nuova; non più ancorata all’etica e alla religione, diventa precaria, contingente. Nel 4° sec. Platone disegna nella Repubblica (➔) il suo ideale politico: lo Stato strutturato in tre grandi categorie, corrispondenti alle fasi della sua genesi e del suo sviluppo come struttura politica. Sono la categoria degli agricoltori e degli artigiani, cui spetta il compito di provvedere alla sussistenza dei cittadini; la categoria dei militari o custodi, preposti alla difesa dello Stato e al suo ampliamento territoriale; la categoria dei governanti (i filosofi), cui spetta il compito di governare lo Stato. A ciascuna categoria corrisponde una specifica virtù, che ne costituisce l’elemento guida e la regola: rispettivamente, la temperanza (σωφροσύνη), il coraggio (ἀνδρεία), la sapienza (σοφία). Ciascuna di queste virtù corrisponde a una parte dell’anima: anche nell’individuo infatti sono presenti tre virtù o principi: il principio appetitivo (ἐπιϑυμητικόν), sede dei sensi; il principio impulsivo (ϑυμοειδής), che presiede agli impulsi e alle passioni; il principio razionale (λογιστικόν), che guida alla sapienza. L’equilibrio dell’anima dipende dall’armonia di tali elementi; anche l’armonia dello Stato dipende dall’armonia delle parti di cui è composto, e tale armonia si raggiunge quando ciascuna categoria assolve al compito cui è preposta. A tal fine, se le leggi sono importanti, l’educazione dei cittadini è fondamentale, e spetta allo Stato stesso. La p. è essenzialmente educazione all’ordine, l’ordine politico è riflesso dell’ordine etico. Assai diversa la visione aristotelica della p.: è ora l’elemento schiettamente politico a venire in primo piano, assieme alla assoluta centralità delle leggi, garanzia di una giustizia pensata come uguaglianza giuridica e politica dei cittadini. La p. è gestione della cosa pubblica, e tale gestione può strutturarsi secondo tre forme o «costituzioni» da Aristotele (nella Politica) definite «rette»: monarchia, aristocrazia, politeia (πολιτεία). Accanto a queste, e in esse rispettivamente contenute in nuce, tre forme «degenerate»: tirannia, oligarchia, democrazia (δημοκρατία). La linea di discrimine passa per la finalità cui si indirizza l’azione di governo e la gestione del potere: l’interesse di tutti o l’interesse di una parte. La monarchia è il governo di uno solo nell’interesse di tutti i cittadini, l’aristocrazia è il governo dei migliori nell’interesse di tutti, la politeia è il governo della massa (πλῆϑος) nell’interesse di tutti. Per contro, la tirannia è governo di uno nel suo proprio interesse, l’oligarchia è governo di pochi nel loro proprio interesse, la democrazia è governo dei poveri (ἄποροι) nel loro proprio interesse. Le forme degenerate sono dette tali perché dispotiche: governano la città secondo un modello privatistico, per un fine di interesse particolare: come appunto il δεσπότης, parola che nel suo significato originario designa la posizione del padrone rispetto allo schiavo. Ma la città, scrive Aristotele, è una comunità di liberi, cui non si addice essere trattati come cosa privata. Il fine della p. rettamente intesa non può dunque essere che il bene comune.
Poco inclini all’astrazione filosofica, i Romani non elaborano una teoria politica provvista di una sua propria specificità e autonomia. Come nel modello platonico, anche i Romani connettono saldamente la p. all’etica; come nel modello aristotelico, legano la p. al mondo del diritto; ma né Platone né Aristotele costituiscono validi termini di riferimento per intendere la visione romana della politica. Sia Platone sia Aristotele muovevano dal particolare all’universale, alla ricerca dell’ottimo politico: lo Stato migliore, la migliore costituzione. I Romani piuttosto riflettono sul loro proprio Stato, in una prospettiva nella quale particolare e universale finiscono per convergere, e la res publica romana diviene l’espressione stessa dell’‘ottimo Stato’. La p. coincide con la grandezza di Roma. La storia di Roma testimonia il fondamento di tale grandezza: i mores. Ai mores si richiamano Fabio Pittore, Ennio, Catone, Posidonio. Concetto insieme etico e giuridico, i mores sono l’insieme dei costumi aventi forza di legge nei quali, sin dalle più remote origini, si esprime l’ethos romano. Ne costituiscono parte integrante altri due concetti cardine della visione romana della p.: la fides e la virtus. La fides è il vincolo di amicizia e alleanza che lega i Romani alle popolazioni amiche, e che impone l’obbligo di aiuto bellico in caso di aggressione. Sulla base di questo concetto Fabio Pittore può sostenere che tutte le guerre romane sono in realtà guerre di difesa, e come tali giustificate e giuste (bellum iustum). La virtus è la valentia (in gr. ἀρετή), ma anche la saggezza e la temperanza (σωφροσύνη). È il valore più grande, investe i singoli nella loro dimensione interiore e nel loro rapportarsi esterno. Alla virtus si richiama Sallustio per spiegare la grandezza di Roma. La recezione della cultura greca attraverso la mediazione stoica si riflette sulla visione della p.; si fa strada il concetto aristotelico di λόγος ὀρϑός, la retta ragione come guida della p., e il principio aristotelico del «governo delle leggi» incontrando la sensibilità giuridica romana si rafforza. Cicerone nel De officiis insiste sulla natura giuridica dello Stato, secondo una visione che risente del concetto aristotelico di comunità (κοινωνία): lo Stato è la struttura giuridica di una comunità legata da comuni interessi (communio utilitatis) e da un comune sentire giuridico (iuris consensus). Nel De republica Cicerone lega p. e giustizia, sostenendo che sulla giustizia deve essere fondato lo Stato, e che le leggi dello Stato non possono infrangere quella legge vera, conforme alla natura, universalmente valida ed eterna, che si trova inscritta nella ragione umana. Anche Seneca lega la p. alle leggi, a esse assegnando un compito fondamentale e, ora, schiettamente politico: compito delle leggi è di costituire un argine al potere dei governanti (De clementia). Ma i giuristi dell’età imperiale (Ulpiano, Gaio) non confermano: la legge è quod principi placuit.
L’idea medievale della p. è dominata dal principio veritas facit legem. La p. poggia dunque sulle basi salde della verità: non capriccio dei potenti, ma espressione terrena della volontà divina. Ogni potere viene da Dio, aveva asserito Paolo di Tarso, e chi disobbedisce al potere disobbedisce a Dio (Lettera ai Romani). L’immagine si presta a una doppia lettura: vale a garantire l’ordine sociale e politico, stigmatizzando la disobbedienza al potere come insubordinazione alla parola divina; vale pure a sancire la subordinazione del potere politico all’autorità religiosa: anche il potere dell’imperatore viene da Dio. Agostino riprende e rafforza l’insegnamento paolino: la legittimità del potere dipende dalla sua conformità alla giustizia comandata da Dio (De civitate Dei). La visione agostiniana è il riflesso di una metafisica teologica che ancora risente della impostazione propria del cristianesimo delle origini, del suo rifiuto della p. come cosa terrena. In quella impostazione trova posto il contrasto di fede e ragione, grazia e natura; il volto politico di questo contrasto è la distanza che separa la città degli uomini e la città di Dio. La città degli uomini è marchiata dal peccato, la sua subordinazione alla città divina è il solo modo per evitare che essa sia ciò che, diversamente, intrinsecamente, è: una associazione delinquenziale (magnum latrocinium). L’inasprirsi del conflitto tra pontefice e imperatore in seguito alla vicenda dell’investitura dei vescovi-conti, per un verso, e, per altro verso, la recezione della filosofia aristotelica avviata da Alberto Magno aprono la strada a una nuova visione della p., di cui è compiuta espressione la Summa theologiae di Tommaso d’Aquino. Tommaso riprende alcuni concetti centrali della visione aristotelica (la ragione come λόγος ὀρϑός, la natura sociale dell’uomo, il bene comune come destinazione della p. rettamente intesa). Elaborati alla luce della dottrina cattolica, tali concetti sono la base sulla quale Tommaso edifica la visione di una p. che, pur subordinata ancora alla religione, tuttavia acquista una sua qualche specificità. La p. attiene alle cose mondane, la religione alle cose divine; e però le disposizioni che dall’una e dall’altra promanano sono dirette al medesimo fine: il bene comune. Il ‘bene comune’ è il concetto che consente la saldatura tra religione e p., tra potere spirituale e potere temporale. La città degli uomini e la città di Dio non sono più mondi lontani. La partizione delle leggi (divina, eterna, naturale, umana) testimonia questa svolta. Muovendo dal concetto generale di legge come ordinatio rationis, Tommaso considera la ragione, non la verità, come fondamento della legge umana; anche se, in base al rapporto di connessione e di derivazione che tra loro lega i diversi tipi di legge, la legge umana risulta parte di una legge naturale, e la legge naturale parte della legge eterna. Ma la legge naturale non è la legge di Dio, nella visione di Tommaso essa è inscritta nella ragione stessa dell’uomo, e comanda il perseguimento del bene comune. La legge positiva per essere legge e non arbitrio deve essere conforme al concetto generale di legge (come ordinatio rationis), dunque deve contenere in sé il fine del bene comune. È una visione carica di potenzialità politiche, non ultima la legittimazione della disobbedienza al potere politico. Il distacco della p. dalla religione si avvia nel 14° sec. con Marsilio da Padova. Nel Defensor pacis Marsilio nettamente distingue, per struttura, fondamento e finalità la p. dalla religione, le leggi umane dalle leggi divine, sulla base di un criterio nuovo, la distinzione tra «dimostrabile» e «indimostrabile». La p. si basa sulla dimostrabilità dei suoi contenuti, dei suoi strumenti in relazione agli scopi perseguiti; la religione, al contrario, ha come suo dominio l’indimostrabile. L’una si avvale della ragione, l’altra della fede. L’uso della ragione diviene il criterio guida della p.; non per questo si spezza il vincolo che univa la p. all’etica e al diritto: la destinazione della p. è sempre il bene comune, il diritto è sempre argine al dilagare della politica.
È con Machiavelli che tali vincoli si spezzano e la p. comincia a conoscere una stagione davvero nuova. Si afferma ora con pienezza non solo l’indipendenza della p. dalla religione, ma anche la sua assoluta e piena autonomia rispetto alle altre due sfere alle quali la tradizione medievale l’aveva ancorata, l’etica e il diritto. La p. diviene autoreferenziale. Non più guidata dalla certezza del giusto e dell’ingiusto, diviene, essa, misura del giusto e dell’ingiusto; i «vizi» si tramutano in «virtù», bene e male mutano di significazione. Il fine della p. non è più il bene comune, piuttosto coincide con la potenza del principe; e tale potenza coincide con la potenza dello Stato (Il Principe, 1513). Tuttavia, qualcosa dell’antica visione perdura in Machiavelli: perdura l’idea di una struttura partecipativa del potere, perdurano anche quelle idee di bene comune e di vivere libero che avevano caratterizzato l’organizzazione della p. nel Medioevo (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1517). Nel 16° sec. la Riforma protestante avvia un processo destinato a modificare profondamente la visione della p.: la Riforma spezza l’unità di fede cattolica, origina nuove confessioni; la p. si trova di fronte a un problema nuovo, le guerre di religione. L’orizzonte veritativo nel quale trovava posto la visione medievale della p. viene definitivamente meno, per la difficoltà di raccordare le diverse confessioni sotto l’egida di una sola autorità religiosa. Il principio veritas facit legem non regge più, la p. deve trovare un fondamento diverso, lo sguardo si sposta dal ‘divino’ all’‘umano’. Umano è il fondamento del potere politico e dell’obbedienza cui i sudditi sono obbligati (il consenso che gli individui accordano per uscire da quello stato naturale (➔ natura, stato di) che precede la costituzione dello stato civile o politico). Umana è la ragione dello Stato (il consenso all’istituzione dello stato civile o politico è dovuto alla precarietà e insicurezza della condizione naturale); umano anche il fondamento delle leggi: non la verità ma l’autorità. Il principio veritas facit legem si capovolge nel suo contrario: auctoritas, non veritas, facit legem. La p. che si definisce intorno all’auctoritas trova nella volontà del sovrano il suo esclusivo fondamento, e con essa interamente si identifica: nasce l’assolutismo. Il processo storico di costituzione dello Stato nazionale su base territoriale, definitivamente sancito dalla Pace di Westfalia (1648) favorisce e riflette il nuovo percorso teorico. L’assolutismo esprime una visione della p. interamente centrata sulla volontà del sovrano. Preparata da Bodin (I sei libri dello Stato, 1576), la teoria dell’assolutismo politico è portata a compimento da Hobbes (Leviatano, 1651). Nella visione hobbesiana, fondamento sia del potere sia dell’obbedienza è il pactum unionis et subiectionis con il quale gli individui abbandonano la condizione naturale segnata dalla guerra e si sottomettono incondizionatamente all’autorità del sovrano, trasferendo su di lui tutti i loro originari diritti e poteri. Priva di limiti e di vincoli, la p. si assolutizza nella forma dello Stato e si personalizza nella figura del sovrano. La sua finalità è sempre il bene comune, ma il bene comune ora è la sicurezza: per i sudditi, sicurezza della loro persona fisica; per lo Stato, sicurezza dei suoi confini; entro quei confini, la pace, al di là di essi la guerra. Alla guerra Grozio aveva dato veste giuridica; aveva, infatti, indicato i principi fondamentali del diritto delle genti, e il suo fondamento: il rispetto dei patti (De iure belli ac pacis, 1625). La visione hobbesiana della p. non lascia spazio ad alcun vincolo giuridico, la guerra e la pace dipendono dalla esclusiva volontà del sovrano. In quello stesso 17° sec., Locke traccia le linee di una teoria diversa, che, muovendo dal contratto istitutivo della società politica, conduce a esiti opposti rispetto a quelli hobbesiani. Il vincolo che lega il potere politico ai sudditi è ora di natura bilaterale, il sovrano istituito per volontà degli individui è giuridicamente tenuto a non violare quei diritti che per legge di natura gli individui possiedono: la vita, la libertà, la proprietà. Poiché la protezione dei diritti naturali è la ragione della istituzione del sovrano, la violazione di tali diritti da parte del sovrano autorizza nei sudditi il diritto di resistenza (Due trattati sul governo, 1690). Muovendosi lungo le linee della tradizione aristotelico-tomista Locke riporta in primo piano il concetto di bene comune, ora identificato con la sfera dei diritti privati dei sudditi; riporta in primo piano anche l’idea della legge come limite al potere politico. Questo limite si snoda lungo due principi: la separazione dei poteri e l’inviolabilità dei diritti individuali. Se per Hobbes la p. è risposta alla guerra della condizione naturale e alla paura, per Locke essa è risposta a un’esigenza di certezza dei diritti individuali. Nasce il costituzionalismo moderno. Nel 18° sec. Montesquieu riprende i principi del costituzionalismo lockiano, ma con una differenza fondamentale: nella visione lockiana la p. ha il compito di tutelare i diritti degli individui secondo un modello di tipo giusprivatistico, nella visione di Montesquieu ha piuttosto il compito di garantire i diritti individuali in un sistema di diritto pubblico (Lo spirito delle leggi, 1748). Ancora nel 18° sec. Rousseau guarda alla p. come realizzazione di un bene comune che non si identifica più con i diritti individuali, bensì con gli intenti della «volontà generale». Al centro di questa visione non sono gli individui ma il corpo politico. Nasce il pensiero politico democratico. A fondamento e legittimazione del potere si pone ancora il contratto e il consenso, ma è un consenso spogliato di ogni tratto individualistico. Il contratto, nell’atto stesso della sua formulazione, immediatamente produce il subentrare, al posto delle persone private dei singoli, di un corpo morale e collettivo, provvisto di un’unica volontà (la «volontà generale»). Si tratta di una volontà comune, che non nasce per aggregazione di singole volontà particolari ma si autocostituisce come comune nel momento stesso della costituzione del corpo politico; e che, proprio perché tale, è priva di qualsiasi limite e di qualsiasi vincolo (Il contratto sociale, 1762). Un orizzonte etico, e non solo politico, ospita la volontà generale. A essa Rousseau assegna il compito di definire le regole di quella «educazione pubblica» che ha il compito di modellare l’individualità dei cittadini in relazione al corpo dello Stato, e di condurre lo Stato stesso verso la realizzazione di un bene comune pensato come sintesi di libertà e uguaglianza. La p. diviene strumento dell’etica. Il secolo si chiude con Kant, il quale assai bene ne esprime tutti i bagliori. Fonte di legittimità del potere politico è ancora il consenso, ma il contratto originario è considerato come una semplice «idea della ragione», a marcare la necessità razionale, e non utilitaristica, dello Stato, la sua ragione giuridica e non etica (La metafisica dei costumi, 1797). Nella visione kantiana, non l’etica è strumento della p., ma la p., sorretta dal diritto, è strumento di realizzazione di una finalità etica non racchiusa nei confini dello Stato, ma universale per fondamento e destinazione: la pace perpetua (Sulla pace perpetua, 1795). Per Kant lo Stato razionale deve essere fondato su tre principi a priori: libertà, eguaglianza (giuridica) e indipendenza (economica). La libertà è una libertà negativa di stampo liberale: ogni cittadino deve godere di una sfera di azione al riparo dalle intrusioni e dalle pretese dello Stato, al quale non spetta indicare le finalità da raggiungere ma semplicemente stabilire (tramite il diritto) le condizioni affinché ciascuno possa realizzare sé stesso ed essere felice a modo proprio. L’eguaglianza è un’uguaglianza formale (tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, senza privilegi di nascita), che coesiste perfettamente con la disuguaglianza sociale ed economica, a condizione tuttavia che a ciascuno sia consentito di innalzarsi nella scala sociale. L’indipendenza, infine, significa che solo chi è padrone di sé e ha una qualche proprietà o attività professionale che gli procuri i mezzi per vivere può essere cittadino pleno iure e godere dei diritti civili (può eleggere ed essere eletto), mentre coloro che sono costretti a cedere l’uso delle proprie forze in cambio di un salario sono solo dei consociati, senza diritto al voto. L’idea kantiana di pace perpetua è, agli occhi di Hegel, una fuorviante illusione, contraria all’ethos che anima i popoli e ne impedisce l’infiacchimento. Così pure la visione kantiana del contratto come idea della ragione e del consenso come fondamento del potere politico si rivela non idonea a cogliere la verace essenza dello Stato. Lo Stato è il luogo del superamento degli interessi individuali; è l’ente supremo, il solo autentico soggetto della Storia; è la struttura giuridico-politica nella quale si sostanzia lo «spirito di popolo». Lo Stato è eticità (➔) ed è potenza: sulla eticità e sulla potenza dello Stato si incardina la visione hegeliana della politica. La p. diviene così politica di potenza, mentre il bene comune si identifica con il bene dello Stato.
Il 19° sec. è dominato da due visioni della politica tra loro radicalmente diverse: la visione liberale e quella socialista di Marx ed Engels. Visioni diverse, e tuttavia accomunate dall’idea della p. come riflesso dell’economia. La visione liberale identifica la p. con il libero mercato e con la protezione degli interessi economici privati, in una prospettiva teorica le cui radici affondano nell’antitesi hobbesiana di libertà e legge e nell’idea lockiana dei diritti individuali come essenza della p. e limite all’azione di governo. Coniugate con il principio della libera iniziativa economica, e in partic. con la teoria della «mano invisibile» elaborata da A. Smith (Ricchezza delle nazioni, 1776), le idee politiche di Hobbes e di Locke guidano verso un’immagine della p. di impianto privatistico ed economicistico centrata sulla identità di libertà politica e libertà economica. Oggetto e destinazione della p. è un bene comune identificato con il bene individuale e privato; l’interesse pubblico coincide con la salvaguardia degli interessi privati. Priva di specificità, la p. perde il suo tratto essenziale, decade a mera gestione di un ordine pubblico pensato come ordinata convivenza degli interessi individuali (Spencer, L’individuo e lo Stato, 1884). Questa immagine della politica domina incontrastata lungo tutto l’arco dell’Ottocento, nonostante già intorno alla metà del secolo si registrino i primi tentativi di restituire alla p. una sua specificità e una sua autonomia rispetto alla sfera economica (J. Stuart Mill, Saggio sulla libertà, 1859; Principi di economia politica, 1848). È solo sul finire del secolo, attraverso il recupero della tradizione aristotelico-tomista, che la visione liberale riuscirà a riscoprire la specificità della p., e con essa il senso di un ‘bene comune’ sganciato dagli interessi economici privati (Green, Lectures on the principles of political obligation,1878-82; Liberal legislation and freedom of contract, 1881). Marx ed Engels guardano alla p. come sovrastruttura dei rapporti economici. Preparata dalle idee ugualitarie e antindividualiste dei primi anni del secolo (Saint-Simon, Fourier, Owen) la visione marxiana della p. si struttura intorno al concetto di opposizione (degli interessi, delle classi, dei modelli di produzione). Dalla centralità di questo concetto, chiave di lettura della storia, deriva il fondamentale elemento della lotta come modalità di estrinsecazione della p. (L’ideologia tedesca, 1845-46; Manifesto del partito comunista, 1848; Critica al programma di Gotha, 1875). La p. è lotta di classe, la classe è il soggetto della p., il motore della storia. In quella fase storica il motore è la classe operaia; è il soggetto destinato ad attuare, con una rivoluzione mondiale, il rovesciamento del potere economico basato sulla proprietà privata e a instaurare un nuovo ordine politico, incardinato sulla collettivizzazione dei mezzi di produzione. L’essenzialità della rivoluzione esclude dall’orizzonte della p. ogni tratto di mediazione e di scambio, dando corpo a una visione palingenetica: destinazione della p. è un ‘bene comune’ identificato con il riscatto sociale ed economico di una parte. In termini aristotelici, la visione marxiana della p. è la compiuta espressione della δημοκρατία. Nella sua analisi Marx prospetta l’estinzione dello Stato e della p. nella vera comunità che nascerà dalla rivoluzione comunista. Il proletariato, una volta conquistato il potere politico, non si impossesserà della macchina statale borghese, ma la distruggerà, restituendo alla società una serie di funzioni. La vittoria della classe operaia porterà quindi alla soppressione dello Stato inteso come strumento al servizio dei proprietari dei mezzi di produzione, e alla estinzione della p., sostituita dalla semplice amministrazione delle cose.
Il 20° sec. inaugura una visione della p. segnata dal nazionalismo e dagli ideali di potenza. Il suo soggetto politico è un ente collettivo che prende di volta in volta il nome di Volk, di nazione, di Stato. Un ente che comunque si salda intorno a un vincolo di sangue, di lingua, di storia, di memoria comune. Questo vincolo ha le fattezze di un mito di fondazione, e come tale, in quanto tale, sostiene e orienta la visione novecentesca della politica. Etnia e nazione si saldano nel quadro di visioni naturalistiche e organicistiche al cui interno si insinua, con prepotenza, l’ideologia razzista. Il pensiero politico recupera Gobineau (Saggio sulla ineguaglianza delle razze umane, 1816-82) e Darwin (L’origine della specie per la selezione naturale, 1859), Schlegel (Sulla lingua e sulla sapienza degli indiani, 1808) e G.V. Lapounge (L’arien, son sole social, 1899). Si fa strada l’idea della p. come esclusione e sopraffazione; la p. si volge in ideologia della guerra. Il pensiero politico (Spengler, E. Junger, Ch. Maurras, M. Barrès, E. Corradini, R. Maeztu, Unamuno) eleva la guerra a valore, e guarda a essa come elemento palingenetico in grado di produrre un’altra storia, un nuovo ordine, una nuova civiltà. La p. abbandona ogni idea di bene comune; il λόγος ὀρϑός come guida della p. si disperde, travolto dagli ideali di potenza, e con essi da una ‘ragione’ che non è più comune norma e misura. La ragione si è fatta particolare, e guida verso la realizzazione degli interessi particolari di ciascuna particolare nazione. Neppure la nazione però è in grado di contenere questa spinta verso la particolarità. Negli anni tra le due guerre Carl Schmitt elabora una visione della p. che fa leva sul concetto di «forma esistenziale», e a esso riconduce l’immagine di una p. centrata sulla distinzione, assoluta e irriducibile, tra amicus e hostis (Sul concetto di politica, 1927). La fine del secondo conflitto mondiale rivoluziona la percezione della p., che torna a essere mediazione e confronto, ricerca di un bene comune che ormai chiede di essere definito a livello globale. All’indomani della Seconda guerra mondiale la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) sancisce la inviolabilità di un corpus di diritti di valore ed estensione universale; la p. cessa di avere dei confini. Il problema dei diritti umani, della loro realizzazione e della loro tutela, diviene il problema fondamentale con il quale la p. si trova a doversi misurare. Problema di diritto interno, ma soprattutto di diritto internazionale; questione spinosa, per la diversità delle culture nazionali, per la diversità della storia che ha accompagnato il formarsi e il consolidarsi delle compagini nazionali, per la diversità degli ordinamenti giuridici e delle strutture statuali. Il mondo ‘globale’ non ha dietro di sé, come sua misura, una cultura altrettanto globale. L’universalismo giuridico stenta a decollare e sulla sua opportunità i dissensi sono forti. Priva di un comune referente giuridico, la p. fatica a realizzare un bene comune ‘mondiale’.
L’inizio del 21° sec. porta in primo piano la questione del rapporto tra religione e p.: complice la globalizzazione, e la povertà che spinge una parte del mondo a riversarsi nell’altra, religioni e culture diverse si trovano a dover convivere in spazi ristretti. La p. si trova di fronte a una nuova sfida, e risponde secondo due modalità. Per un verso, insistendo sulla natura privata delle credenze religiose rispetto alle quali la sfera pubblica deve porsi come terreno neutrale e lo Stato come interlocutore asettico. Per altro verso, coniugando invece religione e p. in una prospettiva segnata dal concetto di civiltà. Si tratta di una prospettiva insidiosa, per la valenza escludente che incorpora, per il messaggio conflittuale che, sottotono, veicola, complice la effettiva distanza che separa le diverse religioni e i diversi modi con cui, nei diversi paesi, la p. si atteggia nei confronti della religione. Sulla scia di interpretazioni già compiutamente avviate nel 20° sec. (S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e la nuova costruzione dell’ordine mondiale, 1996), si assiste in questi ultimi anni a un ritorno della contrapposizione come essenza della p., e della sicurezza come sua destinazione. Ma la sicurezza non è più pensata solo nei termini tradizionali di sicurezza degli individui e di sicurezza dello Stato: in questo generale, e schiettamente politico, concetto di sicurezza si insinua un elemento culturale, e la sicurezza è pensata, appunto, in termini di civiltà. Anche il tradizionale compagno del concetto di sicurezza, a esso legato da vincolo di opposizione, perde in valenza politica: l’aggressione acquista anch’essa valenza culturale, e la valenza culturale è tradotta in valenza politica. Nel quadro di queste complesse problematiche, e come tentativo di superamento di una contrapposizione che non riguarda soltanto le diverse religioni ma anche il rapporto tra religione e laicità, si stagliano richiami alla interlocuzione tra religione e sfera pubblica, gli appelli a un’etica pubblica che non espunga dal suo orizzonte la religione (Habermas, Tra scienza e fede, 2006). Si tratta di prospettive teoriche che, se per un verso possono favorire lo scambio interculturale sul terreno neutrale di una razionalità che ha le fattezze dell’agire discorsivo, per altro verso rischiano di incanalare la p. verso una dimensione prescrittiva i cui esiti non è detto si accordino con il pluralismo etico e con la libertà religiosa.