politica
Dal titolo dell’opera aristotelica, il sostantivo politica entra ab antiquo nel nostro vocabolario per designare un ramo della filosofia pratica, accanto all’etica e all’economica: «La terza scienza, ciò è politica, sì ’nsegna fare e mantenere e reggere le cittadi e le comunanze» (Brunetto Latini, Retorica, argom. 17). E proprio di Brunetto, Giovanni Villani (Nuova cronica, IX 10) scrive che «fue cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini, e farli scorti in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la politica» (espressione in cui il libro di Aristotele e la scienza ivi esposta si identificano). Una sintesi della politique in funzione della vita comunale si legge nel Tresor (III 73-105): a un’essenziale morfologia degli istituti di governo, Brunetto fa seguire un catalogo di virtù richieste ai governanti, e vari suggerimenti procedurali per la scelta del podestà, per il suo ingresso in signoria, per l’esercizio delle funzioni amministrative e giudiziarie. Non manca un capitolo (il 96) «sulla discordia che esiste tra coloro che vogliono essere temuti e coloro che vogliono essere amati», concluso da una massima di Seneca: «la difesa più sicura al mondo è l’amore dei cittadini» (cfr. De clementia iii 17). La qualità del discorso si dà a vedere, per es., in una proposizione introduttiva come questa: «tutte le signorie e le dignità ci sono concesse dal sovrano Padre, il quale tra i sacri ordinamenti delle cose terrene volle che il governo delle città fosse fondato su tre pilastri, cioè giustizia, reverenza e amore» (trad. di S. Vatteroni). Vivere «politicamente» significa insomma convivere in osservanza delle regole che la filosofia e la fede additano: l’Ottimo commento al poema dantesco può chiosare la gente nova di Inferno XVI 73 come gente «non regolata e non acostumata e che non vivono politicamente». Per trovare nei lessici un’attestazione sicura di p. come «insieme delle attività pratiche volte a conquistare, conservare ed esercitare il potere» (S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, 13° vol., 1986, ad vocem), considerate per sé stesse e non come attuazione virtuosa della dottrina, sembra si debba aspettare Giovanni Botero: «Ecco il frutto della moderna politica» (Ragion di stato X, 9).
L’espressione vivere politico giunge fino a M., dove è traducibile come ‘ordinamento statuale’, ‘costituzione’:
convenendo spesso insieme ne’ consigli a diliberare della città, quando parve loro [= ai veneziani] essere tanti che fossero a sufficienza a uno vivere politico, chiusono la via a tutti quelli altri che vi venissono ad abitare di nuovo, di potere convenire ne’ loro governi; e, col tempo, trovandosi in quello luogo assai abitatori fuori del governo, per dare riputazione a quelli che governavano, gli chiamarono Gentiluomini, e gli altri Popolani (Discorsi I vi 8).
Il regime aristocratico di Sparta e Venezia, continua M., sarebbe adatto a una repubblica che rifiutasse ogni conquista:
E sanza dubbio credo che, potendosi tenere la cosa bilanciata in questo modo, che e’ sarebbe il vero vivere politico e la vera quiete d’una città. Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino (§§ 33-34).
E vedesi una città o una provincia essere ordinata al vivere politico da qualche uomo eccellente, e un tempo, per la virtù di quello ordinatore, andare sempre in augumento verso il meglio (II proemio 9).
L’attributo di politico assume una più marcata coloritura positiva quando è usato in antitesi alla corruzione della città (I xviii 27: «perché il riordinare una città al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il diventare per violenza principe di una republica presuppone uno uomo cattivo; per questo si troverrà che radissime volte accaggia che uno buono, per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia diventare principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia mai nello animo usare quella autorità bene, che gli ha male acquistata»; III viii 12: «per altri modi si ha a cercare gloria in una città corrotta, che in una che ancora viva politicamente») o alla tirannide (I xxv 6: «E questo, come ho detto, debbe osservare colui che vuole ordinare uno vivere politico, o per via di republica o di regno: ma quello che vuole fare una potestà assoluta, la quale dagli autori è chiamata tirannide, debbe rinnovare ogni cosa, come nel seguente capitolo si dirà»). In senso ancora più ristretto, in Discorsi I lv sembra meritare il titolo di politico soltanto l’ordine fondato sulla «equalità», ossia l’ordine repubblicano:
quelle republiche [della Magna], dove si è mantenuto il vivere politico ed incorrotto, non sopportono che alcuno loro cittadino né sia né viva a uso di gentiluomo; anzi mantengono intra loro una pari equalità (§ 17). Di qui nasce che in quelle provincie [Napoli, Terra di Roma, Romagna e Lombardia] non è mai surta alcuna republica né alcuno vivere politico; perché tali generazioni di uomini sono al tutto inimici d’ogni civilità (§ 21).
Si aggiunga che vivere politico risulta pressoché sinonimo di vivere civile (cfr. Discorsi I iii 2: «Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempli ogni istoria, è necessario a chi dispone una republica, ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei»; II xix 7; I lv 25), tuttavia più disponibile a evidenziare uno ‘stile’ di convivenza pacifico e legalitario (I vii 12: «Francesco Valori era come principe della città, il quale sendo giudicato ambizioso da molti, e uomo che volesse con la sua audacia e animosità transcendere il vivere civile...»; cfr. la lettera a Francesco Vettori, febbr.-marzo 1514, dove si testimonia che il giovane Lorenzo «non si parte da la vita civile», Lettere, p. 317). Il gioco delle sfumature fa sì che Romolo sia definito, a I ix 3, «fondatore d’un vivere civile»; ma a I xix 3 il titolo di «ordinatore del vivere civile» tocca a Numa, in contrapposizione al fondatore «ferocissimo e bellicoso».
Nel lessico machiavelliano, il significato oggi usuale di p. è approssimato da perifrasi come quella, celeberrima, di «arte dello stato»: «quindici anni che io sono stato a studio all’arte dello stato» (lettera a Francesco Vettori, 10 dic. 1513, Lettere, p. 297). Siffatta ‘arte’ viene ironicamente (ma orgogliosamente) contrapposta ad altre, come tale da poter segnare di sé un’intera esistenza:
la fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare né dell’arte della seta e dell’arte della lana, né de’ guadagni né delle perdite, e’ mi conviene ragionare dello stato, e mi bisogna o botarmi di stare cheto o ragionare di questo (lettera a Francesco Vettori, 9 apr. 1513, Lettere, p. 241).
L’arte dello stato rivendica la sua diversità, che è superiorità, rispetto all’arte della guerra: «dicendomi el cardinale di Roano che gli italiani non si intendevano della guerra, io gli risposi che e’ franzesi non si intendevano dello stato» (Principe iii 48). Si dichiara non regolabile dalla norma etica, perché il suo orizzonte è il rischio della «ruina»:
gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni (Principe xv 5).
Si esercita nei conflitti che non possono essere risolti, in nome della legge, da un’autorità superiore alle parti in lotta: «nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare si guarda al fine» (Principe xviii 17). Dissoltisi l’ideale della ‘respublica christiana’ e «la prospettiva più o meno lontana della Città divina» (Fumagalli Beonio Brocchieri 2000, p. IX), ancora presenti nella predicazione savonaroliana, il mondo degli ‘stati’ si dà a vedere come regno della fortuna, assente qualsiasi «iudizio a chi reclamare»:
io vi ho detto che quelli signori vi fieno amici che non vi potranno offendere e di nuovo ve ’l dico: perché fra gli uomini privati, le leggi, le scritte, e’ patti fanno osservare la fede, e fra e’ signori la fanno solo osservare l’armi (Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, § 30).
Lo ‘stato’ machiavelliano è «imperio sopra gli uomini», un potere il cui ‘gesto’ originario consiste proprio nel riconoscere e fissare un confine fra lo spazio delle leggi e quello della guerra. Nel primo, il conflitto (in quanto ‘naturale’ discordia fra gli ‘umori’ del corpo civico) può e deve essere controllato, se non per sempre, per un tempo anche lungo; può formarsi e crescere un vincolo di ‘amicizia’ fra principe e popolo (Principe ix), fra cittadini e ‘patria’ (Discorsi III viii). Nel secondo, valgono soltanto le regole della potenza e della conquista; e «ogni città, ogni stato, debbe reputare inimici tutti coloro che possono sperare di poterle occupare el suo, e da chi lei non si può difendere» (Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, § 13). ‘Arte’ dello stato è dunque la cognizione di tali ‘regole’ (Principe iii 50: «una regula generale, la quale mai o raro falla, che chi è cagione che uno diventi potente, ruina: perché quella potenza è causata da colui o con industria o con forza, e l’una e l’altra di queste dua è sospetta a chi è divenuto potente»; xxiii 11: «una regula generale che non falla mai: che uno principe, il quale non sia savio per sé stesso, non può essere consigliato bene»; Discorsi I ix 5: «E debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado occorre che alcuna republica o regno sia da principio ordinato bene, o al tutto di nuovo fuora degli ordini vecchi riformato, se non è ordinato da uno»). Come ogni altra ‘arte’, quella dello stato si apprende con lo ‘studio’, ossia «con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche»; ma, come ogni altra arte, può essere «in uno piccolo volume ridotta», e allora imparata «in brevissimo tempo». Le regole machiavelliane si vogliono indirizzate a ‘nuovi’ uomini di stato, ai quali l’età (i ‘giovani’) o l’estrazione sociale non hanno concesso il tempo di maturare la sapienza e l’istinto il cui deposito leggiamo, per es., nei Ricordi guicciardiniani.
Non da una definizione dottrinaria, ma dalla viva connessione fra i pensieri dedicati alle «cose» dello stato, si ritrae la tesi della «assolutezza» (Sasso 1993) della p. in M., nozione più precisa di «autonomia», se quest’ultima postuli, come è inevitabile, un pensato sistema di relazioni (→ Croce, Benedetto). L’uomo di M., cioè l’uomo dello ‘Stato’, è invece solo con sé stesso, e con la necessità di ‘vincere’: «e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli, e da ciascuno saranno laudati» (Principe xviii 18). Con questo non si nega che, in alcune pagine dei Discorsi, all’antica Repubblica romana (o meglio: all’antico mondo del paganesimo) si riconosca un culto religioso dell’«onore del mondo» (II ii 27), e quindi una specie di conciliazione fra il «sommo bene», la «mondana gloria» e le «azioni feroci» che la procurano. Ma nell’attualità delle regole, proposte al lettore, non accade che il giudizio di valore morale, in quanto tale, sia da M. piegato all’urgenza della necessità politica:
le crudeltà bene usate o male usate. Bene usate si possono chiamare quelle – se del male è lecito dire bene – che si fanno a uno tratto per la necessità dello assicurarsi, e di poi non vi si insiste dentro (Principe viii 23-24).
Bibliografia: I. Berlin, The originality of Machiavelli, in Studies on Machiavelli, ed. M.P. Gilmore, Firenze 1972, pp. 147206; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, Bologna 1993, pp. 473-77 e passim; M. Fumagalli Beonio Brocchieri, Il pensiero politico medievale, Roma-Bari 2000; U. Dotti, Machiavelli rivoluzionario. Vita e opere, Roma 2003, pp. 270-77 e passim; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006, pp. 150-55 e passim.