Politica
sommario: 1. Che cosa è la politica. 2. Sulla storia dell'idea di politica. 3. La politica oltre lo Stato. 4. La politica come governo. 5. Fine della politica? □ Bibliografia.
1. Che cosa è la politica
È noto quanto disperante risulti sempre il tentativo di definire la politica. Secondo alcune interpretazioni, la difficoltà sarebbe ontologicamente fondata, dipenderebbe dalla natura perennemente ambigua dell'oggetto (v. Ornaghi, 1993). Secondo altre interpretazioni, invece, tale difficoltà andrebbe storicamente situata, sarebbe un elemento caratteristico della nostra epoca: venuta meno l'identificazione fra politica e Stato, che ha dominato, in Occidente, un gran tratto dell'età moderna, la politica avrebbe subito una dilatazione dei suoi confini e una perdita di specificità tali da rendere ormai vano ogni tentativo di definirla (v. Sartori, 1987).
La prudenza impone che si rinunci all'ambizione di descrivere l'oggetto nella sua interezza. Se ne possono, al massimo, enucleare un certo numero di tratti. A seconda degli scopi conoscitivi che ci si propone l'attenzione cadrà su un tratto o sull'altro. Il modo forse più conveniente di procedere è di identificare delle 'polarità', vale a dire le opposte condizioni fra le quali la politica oscillerebbe. Questa strada dovrebbe consentire, quanto meno, una parziale identificazione della politica, ancorché indiretta o indiziaria.
A un elevato livello di astrazione si situa la più classica delle alternative che il pensiero occidentale abbia elaborato: l'alternativa fra realismo e normativismo. Per un verso, la politica viene identificata con il 'dominio' e la competizione per il controllo delle posizioni di dominio. In questa prospettiva l'elemento caratterizzante della politica è l'endemicità dei conflitti, delle lotte per il potere, in un quadro di rapporti sociali ove è sempre presente la possibilità del ricorso alla violenza (v. Portinaro, 1999). Per un altro verso, la politica viene ricondotta alle imprescindibili necessità di collaborazione e di coordinamento fra gli uomini per il perseguimento di obiettivi comuni (in primis, la realizzazione di condizioni accettabili di sicurezza; v. de Jouvenel, 1955). In quest'ultima prospettiva, il problema diventa la creazione e il mantenimento di un 'ordine' realizzato mediante norme condivise o, quanto meno, accettate dai più. Anche se realismo e normativismo configurano, in Occidente, due distinte tradizioni, sembra tuttavia accettabile l'idea che si tratti di modi complementari di intendere la politica (v. Galli, 2000). Si può peraltro sostenere che, a seconda dei momenti storici, l'una o l'altra concezione acquisterà più rilievo. La visione realista godrà presumibilmente di maggior credito nelle epoche caratterizzate da turbolenza, quando l'ordine politico è minacciato o sconvolto; alla visione normativista andranno più consensi nelle fasi di maggiore tranquillità, quando l'ordine politico appare saldo e relativamente incontestato.
Si può, ispirandosi alla dottrina aristotelica, identificare la polarità della politica (e l'ambiguità che la caratterizza) distinguendo la politica come 'istituzione' dalla politica come 'intenzione' (v. Sternberger, 1983). Per un verso, la politica si sostanzia in una sfera istituzionale: assetti organizzativi, ordini giuridici, sistemi simbolici; per un altro verso, la politica prende vita nelle intenzioni che guidano le azioni 'politicamente orientate' degli uomini.
È inoltre possibile pensare la politica come oscillante fra i due poli dell'autonomia e dell'eteronomia. La politica può essere concepita come una sfera di attività guidata da una sua logica e da sue proprie regole che vanno indagate in quanto tali. Oppure, si possono mettere in evidenza i condizionamenti che su di essa esercitano la sfera etico-religiosa o quella economica. Si può assumere che, in certi momenti storici, la politica sia in grado di conquistarsi una forte autonomia, arrivando anche a imporsi sulle altre sfere di attività (definendo le loro stesse condizioni di esistenza), e che, in altri momenti, essa sperimenti una perdita di autonomia, diventando dipendente ed eterodiretta (v. Ornaghi, 1993). In ogni caso, tenere conto della polarità possibile fra autonomia ed eteronomia obbliga, da un lato, a indagare la logica intrinseca al funzionamento della politica e, dall'altro, a considerare i suoi rapporti con l'etica, l'economia, il diritto, ecc. È naturalmente materia di ricerca empirica stabilire il quantum di autonomia o, all'opposto, di eteronomia della politica nei diversi gruppi umani e nelle loro diverse fasi storiche.
La politica può anche essere pensata come oscillante fra il polo della 'assolutezza' e il polo della 'limitazione' (v. Pizzorno, 1993). Nel primo caso, quello della politica assoluta, ideologie contrapposte definiscono le identità collettive e predomina la convinzione che la politica sia l'unico strumento disponibile per modellare e trasformare i rapporti sociali. Ne deriva un panpoliticismo che, da un lato, porta gli individui a guardare a ogni aspetto della realtà umana usando lenti politiche e, dall'altro, conduce la politica a divorare, a sottomettere alla sua logica, a ricondurre a sé ogni altro aspetto o dimensione del vivere sociale. Nel secondo caso, quello della politica limitata, prevale il calcolo degli interessi e alla politica vengono affidati compiti circoscritti di mantenimento dell'ordine e di mediazione/conciliazione fra i diversi interessi societari. Politica dell'identità (o dell'ideologia) e politica degli interessi, politica assoluta e politica limitata, coesistono nella tradizione occidentale, ma il pendolo della storia dà la preminenza ora all'una, ora all'altra.
Un'altra possibile 'polarità', infine, è quella fra ordine e libertà. Nei termini di Carl Friedrich, si tratta di un perenne dilemma politico, espressione di un conflitto "tra valori che sono interdipendenti, nel senso che l'uno non può essere realizzato senza l'altro, eppure ognuno di essi, nella propria messa in atto, contraddice e, in un certo modo, sospende l'altro" (v. Friedrich, 1968; tr. it., p. 110). Se non si può dare libertà senza ordine, le esigenze sottese alla necessità di imporre/preservare l'ordine politico possono entrare in conflitto con le esigenze di libertà. Nei moderni regimi costituzionali occidentali, ad esempio, il dilemma si manifesta nell'instabile equilibrio, e nel potenziale trade off, fra sicurezza e libertà (v. Calhoun, 1851; v. de Jouvenel, 1955; v. Neumann, 1957): la garanzia delle libertà individuali non può mai arrivare al punto di compromettere le esigenze di sicurezza (di protezione, soprattutto, dalle minacce di violenza, ovunque abbiano origine); d'altra parte, le libertà individuali possono facilmente restare vittime di decisioni e di azioni dei detentori dell'autorità politica volte a garantire sicurezza.
2. Sulla storia dell'idea di politica
Poiché definire la politica è difficile, si ripiega per lo più sulla storia del concetto. Il che si risolve, di solito, in una rassegna delle dottrine politiche. Ciò ha indubbiamente senso, soprattutto perché le concezioni della politica affermatesi nelle varie epoche non vengono abbandonate o, se provvisoriamente abbandonate, tornano per lo più ad affacciarsi nelle epoche successive. Nelle fasi percepite come di più intenso mutamento, concezioni della politica differenti, appartenenti a momenti diversi della storia dell'Occidente, si trovano a coesistere dando luogo a intrecci e commistioni.
Alle specifiche condizioni di vita della polis dobbiamo non solo la nascita, nella Grecia classica, dell'idea di politica (v. Meier, 1980; v. Finley, 1983), ma anche l'ambiguità del concetto, la pluralità di significati che la parola ha assunto. Alla formazione del moderno concetto di politica, infatti, l'eredità greca, contribuisce con due termini, entrambi connessi alla vita della polis: politikà e politeia. Dove politikà sta per ciò che attiene ai rapporti fra i politai, i cittadini attivi della polis, indica gli affari comuni, di tutti. E dove politeia acquista presto il significato di costituzione (oggi diremmo: 'forma di governo'), ma anche di costituzione retta o giusta (Aristotele usa il termine in entrambi i significati). La fine della polis farà scomparire dal linguaggio pubblico il termine 'politica' per un lunghissimo periodo.
All'età romana il pensiero politico e le istituzioni politiche occidentali devono comunque due lasciti importanti: la giuridicizzazione dell'idea di politica propria dell'età repubblicana e l'idea di impero universale. In età medievale, invece, la riflessione politica è per un lungo tratto centrata sui rapporti e sui conflitti fra i due poteri universali della Chiesa e dell'Impero. Solo la conclusione di quel confronto e il lento emergere di centri di potere indipendenti porteranno a recuperare l'idea antica di politica (la riscoperta della Politica di Aristotele risale alla seconda metà del XIII secolo) e ad adattarla alle nuove condizioni.
L'opera di Nicolò Machiavelli è un punto di svolta non soltanto perché con essa arriva a compimento il lento processo di emancipazione della politica dall'etica cristiana (processo al quale, in epoca precedente, hanno contribuito anche altri protagonisti: si pensi al Defensor pacis di Marsilio da Padova del 1324), ma anche perché da Machiavelli si dipartono due differenti tradizioni: da un lato, la grande stagione della trattatistica sulla ragion di Stato; dall'altro lato, la moderna dottrina repubblicana. La prima svolge un ruolo storico importante di legittimazione delle nuove monarchie europee continentali, mentre la seconda prenderà nuovo slancio, in funzione antimonarchica, nel secolo dei Lumi.
Molti apporti contribuiscono alla ridefinizione dell'idea di politica nella fase di formazione degli Stati moderni europei. La dottrina della sovranità statale di Jean Bodin e il giusnaturalismo di Thomas Hobbes svolgono un ruolo importante nella 'statalizzazione' dell'idea di politica. Con il consolidamento degli Stati moderni la politica verrà per lungo tempo interamente sussunta e identificata nello Stato. Sono i secoli in cui la politiké epistéme, la scienza politica, è sinonimo di 'scienza dello Stato' e l'attività di cui si occupa è ciò che i Tedeschi chiamano Polizey, i Francesi police, gli Inglesi policy: tutti termini riconducibili al greco politeia e che, nel nuovo Stato europeo, indicano la cura dell'ordine e del benessere della collettività.
Fatto salvo il caso dell'Inghilterra, ove il fallimento del progetto assolutista degli Stuart sfocerà nelle rivoluzioni del Seicento e nella vittoria del Parlamento, nel continente europeo Stato e politica, nell'età assolutista, si identificano. È solo a partire dalla Rivoluzione americana e dalla Rivoluzione francese che questa identificazione comincia a indebolirsi, per il concorso di una pluralità di fattori. In primo luogo, il costituzionalismo. Le rivoluzioni liberali spostano dal re al cittadino il baricentro della politica. Il processo di costituzionalizzazione degli Stati, limitando il potere pubblico, aspira a tutelare esigenze - le libertà individuali - che vanno sottratte al controllo dello Stato (v. Friedrich, 1950; v. Matteucci, 1976). In secondo luogo, la democrazia. Con la democratizzazione la sfera politica si amplia distribuendo risorse per l'azione politica a individui e gruppi che in precedenza ne erano privi. Anche se tempi e ritmi dei processi di democratizzazione varieranno, in Europa, da luogo a luogo e saranno all'origine delle principali differenze fra i futuri sistemi democratici (v. Rokkan, 1970). In terzo luogo, il nazionalismo. Il processo di democratizzazione porta infatti con sé l'esigenza di stabilire nuovi legami emozionali fra élites e masse e una simbologia sostitutiva dei legami tradizionali (v. Lasswell e Kaplan, 1950; v. Fedel, 1991).
I processi qui sommariamente evocati rompono gli argini sul finire del XVIII secolo e, a partire dal secolo successivo, la politica non sarà più pensabile come un'attività racchiusa interamente nel perimetro dello Stato-macchina.
3. La politica oltre lo Stato
Già alla fine del XIX secolo e per tutto il XX verranno fatti numerosi tentativi di ridefinire la politica. Ciò che li accomuna è la volontà di spezzare il legame fra politica e Stato moderno, di espellere lo Stato dal novero dei caratteri definitori della politica. Illustreremo sinteticamente alcuni di questi tentativi.
Il più celebre si deve agli elitisti italiani, Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca. Recuperando la lezione di Machiavelli, ma anche liberandola dalla gabbia in cui l'avevano racchiusa, imbalsamandola, i trattatisti della ragion di Stato nei secoli precedenti, Pareto e Mosca riconducono alla lotta fra 'minoranze organizzate', élites, l'ubi consistam della politica. Nella storia della politica lo Stato moderno è solo un episodio, storicamente circoscritto. Se si guarda al di là dell'involucro istituzionale, statale o d'altro tipo, sempre si trovano minoranze che governano le maggioranze e lotta per il potere fra queste minoranze, le si definisca élites o classi politiche. Alla lezione degli elitisti italiani si ispireranno, nel corso del Novecento, molti altri autori. Fra questi certamente Max Weber, anche se, a differenza di Mosca e Pareto, il pensatore tedesco non arriva a scindere compiutamente politica e Stato: per Weber, è comunque la direzione dello Stato, in Occidente, la 'posta' dei conflitti politici.
Gli elitisti italiani sono anche una delle fonti di ispirazione di un tentativo fra i più originali e suggestivi di costruire una teoria della politica, quello dello statunitense Harold Lasswell.
Per Lasswell, come per Pareto e Mosca, la storia della politica è scandita dalla incessante lotta per il potere fra le élites. Le élites sono tali perché (paretianamente) controllano 'valori' e cioè risorse scarse (v. Lasswell e Kaplan, 1950). Il potere va distinto dalla generica influenza. I membri delle élites sono per definizione influenti, ma non tutti esercitano potere. Si dà esercizio del potere se, e solo se, il rifiuto di obbedire, la mancata conformità a un comando, è associato a una elevata probabilità di incorrere in sanzioni. Il potere implica pertanto coercizione. I valori, e cioè le risorse scarse, sono la base del potere ma sono anche la 'posta' dei conflitti di potere: la lotta per il potere incide sulla distribuzione dei valori. Da qui la definizione della politica come l'attività che riguarda il "chi prende che cosa, quando, come" (v. Lasswell, 1936). I valori/risorse principali sono i mezzi economici, la forza (o violenza) e i simboli. Essi sono la base del potere delle élites e delle contro-élites, e dunque anche la posta delle loro lotte. La politica ha essenzialmente a che fare con la distribuzione della ricchezza, la minaccia della violenza (e la protezione dalle minacce di violenza), la manipolazione dei simboli mediante i quali si suscita identificazione fra le masse e la comunità politica, e si crea la riserva di lealtà e consenso di cui le diverse élites, impegnate in una continua competizione, necessitano (v. Fedel, 1991). Nella teoria politica di Lasswell l'influenza degli elitisti italiani si combina, peraltro, con altre influenze (v. Stoppino, 1997). Alla dottrina di Marx, Lasswell deve il riconoscimento della rilevanza politica del controllo sui mezzi di produzione della ricchezza; la dottrina freudiana, invece, gli serve per saldare gli aspetti macrosociologici della sua interpretazione a quelli micro. Il processo di 'identificazione politica', mediato dai simboli manipolati dalle élites, è spiegato alla luce di un'interpretazione psicanalitica della personalità degli individui operanti entro le arene politiche (v. Lasswell, 1935). Tributaria della visione di Lasswell è una delle più note definizioni di politica - intesa come attività attinente alla "distribuzione imperativa di valori" - proposta da David Easton (v., 1965).
Volta a spezzare il legame fra politica e Stato è anche la teoria di Carl Schmitt (v., 1932). Per Schmitt l'equiparazione di 'statale' e di 'politico' è errata e logicamente inconsistente. Il criterio di identificazione del 'politico' è per Schmitt la distinzione fra amico (Freund) e nemico (Feind). Questa distinzione serve a indicare "l'estremo grado di intensità" di unioni e separazioni, associazioni e dissociazioni. Il nemico non è l'avversario politico e nemmeno il concorrente economico. È invece colui rispetto al quale esiste un'alterità radicale e con il quale c'è la concreta possibilità della lotta violenta, del ricorso alle armi. In questa concezione, la guerra non è lo 'scopo' della politica, ma ne è il presupposto, una possibilità sempre presente. Divisioni economiche, religiose o d'altro tipo non sono in quanto tali divisioni politiche. Lo diventano, però, se e quando raggiungono un estremo grado di intensità. Discende logicamente da questa impostazione il fatto che avrà le caratteristiche dell'unione politica quel raggruppamento orientato, nelle parole di Schmitt, al "caso critico". Quel raggruppamento sarà allora l'unità decisiva, ossia 'sovrana'. Da qui la nota affermazione di Schmitt secondo cui è sovrano chi decide sullo 'stato d'eccezione'.
La teoria schmittiana comporta varie conseguenze. La prima è, appunto, il fatto che l'equiparazione fra Stato e politica è possibile solo nelle particolari condizioni storiche (realizzatesi per alcuni secoli in Europa) in cui sono i reggitori formali dello Stato a decidere dello stato di eccezione. Ma questo può benissimo non accadere: può verificarsi il caso, ad esempio, che siano le fazioni interne allo Stato ad assumere il carattere di raggruppamenti politici e a dividersi secondo la distinzione amico/nemico. La seconda conseguenza è l'irriducibile pluralità dei raggruppamenti politici. Quello politico non è un universo ma un 'pluriverso', incessantemente interessato da scomposizioni e ricomposizioni dei vari raggruppamenti secondo la logica amico/nemico. Il declino dello Stato europeo, che per Schmitt fa tutt'uno con il declino dello jus publicum europaeum, lascia progressivamente il campo, nel XX secolo, a divisioni fra inedite potenze imperiali (v. Schmitt, 1974).
Le riflessioni di Julius Freund (v., 1965) si ispirano alla teoria di Schmitt, ma con l'ambizione di perfezionarla e di arricchirla: per il sociologo e filosofo francese tre attributi connotano la politica: la dialettica del comando e dell'obbedienza, la dialettica fra pubblico e privato, la dialettica amico/nemico.
Un'altra, sofisticata teoria della politica è quella del francese Bertrand de Jouvenel. Essa ha vari punti di contatto con la teoria elitista (nelle sue diverse varianti) ed è accomunata a quella schmittiana per il rifiuto di identificare la politica con lo Stato. Se nella sua prima opera politica de Jouvenel (v., 1945) identifica ancora, sostanzialmente, il processo storico di 'crescita' del potere e di rafforzamento della capacità del potere politico di controllare i diversi ambiti di vita con la vicenda dello Stato moderno, nelle opere successive egli elabora una teoria della politica che si sbarazza del legame fra politica e Stato. Di tale teoria de Jouvenel propone, a distanza di tempo, due versioni, identiche nell'ispirazione di fondo, ma diverse nelle loro articolazioni interne. Nella prima versione, il problema della politica è quello dell'autorità, intesa come la capacità di "dare origine alle azioni altrui" (v. de Jouvenel, 1955; tr. it., p. 6). Dato un fine o un progetto, quale che esso sia, è 'politica' l'attività che ottiene il concorso di altri uomini per la sua realizzazione, l'azione tendente alla raccolta delle volontà favorevoli al progetto. L'arte politica si configura pertanto come "una tecnica dell'addizione delle forze umane per mezzo della confluenza delle volontà". La politica così identificata, però, è rintracciabile in ogni ambito della vita associata. Si darà politica in senso stretto, o politica 'pura', quando il fine dell'azione è la costituzione o il mantenimento di un aggregato umano in quanto tale: "Quando l'azione di forma politica non viene contaminata da nessun altro fine, che non sia quello della stessa formazione dell'edificio umano, abbiamo la politica pura. L'azione è allora politica sia per la materia che per la forma". L'attività politica pura è dunque "l'attività costruttiva, consolidatrice e conservatrice degli aggregati umani" (ibid., pp. 26-27). Costruire e conservare, però, non sono la stessa cosa, né richiedono le medesime capacità/qualità. Le qualità necessarie per dare vita a un nuovo aggregato umano sono diverse da quelle necessarie per assicurare condizioni di stabilità degli aggregati. Da qui la distinzione, e la dialettica, fra il dux e il rex. Il dux è il condottiero che trascina all'azione altri uomini e fonda nuovi aggregati. Il rex è colui che istituzionalizza la cooperazione suscitata dal dux, è il reggitore, colui che governa l'aggregato già formato e ne assicura la stabilità.
Nella seconda, e più elaborata, versione della teoria, de Jouvenel (v., 1963) identifica il 'nucleo' della politica nel rapporto istigazione/risposta e nella "legge dell'esclusione conservatrice". Ridotta all'essenziale, la politica consiste in una 'istigazione' da parte di A nei confronti di B a fare H, e in una adesione (conformità) di B al volere di A. Il rapporto istigazione/risposta, naturalmente, è solo l'elemento base della politica, e lo troviamo in essere continuamente nella vita sociale, anche nei rapporti che non qualifichiamo abitualmente come politici. È solo quando scatta la legge dell'esclusione conservatrice che si entra in un vero e proprio campo politico. Quando più soggetti 'istigano' gli appartenenti a un gruppo a intraprendere corsi di azione che risultino fra loro incompatibili (ad esempio, Alcibiade perora la causa della spedizione in Sicilia di fronte all'assemblea di Atene, mentre Nicia perora la causa opposta), scatterà la legge dell'esclusione conservatrice: delle due (o più) istigazioni, ne verrà accettata dal gruppo una sola, e l'altra verrà esclusa. L'istigazione accettata si trasformerà allora in un 'comando' e saranno minacciati di sanzione coloro che non vi si adegueranno.
Le istigazioni, inoltre, possono essere dovute a leaders naturali, persone dotate di 'autorità' (ossia di ascendente naturale sui membri del gruppo), oppure possono provenire da persone che occupano posizioni di autorità. Nel primo caso, l'istigazione susciterà conformità 'solo' in virtù di una naturale adesione. Nel secondo caso, all'istigazione seguirà la conformità dei membri del gruppo in funzione di un mix di prestigio dell'autorità coinvolta e di probabilità di sanzioni in caso di disobbedienza.
La contrapposizione dux/rex è ripresa sotto nuove spoglie. Da un lato ci sono coloro che esercitano la potestas, che occupano posizioni di autorità nel quadro di un sistema istituzionalizzato di regole e di procedure; dall'altro, ci sono i detentori della potentia, le autorità emergenti con un seguito più o meno vasto che sfidano i poteri costituiti. Da un lato, ci sono gli strateghi della 'attenzione' (corrispondenti al rex), il cui compito è fronteggiare i problemi che via via sorgono al fine di assicurare la stabilità dell'aggregato; dall'altro, ci sono i portatori della 'intenzione' (corrispondenti al dux), leaders emergenti, che si danno uno scopo e cercano di raggiungerlo tramite l'accumulazione di potentia. In ogni aggregato umano vi sarà una 'collina del comando' dove è concentrata la potestas e una pianura sottostante da cui leaders emergenti partono periodicamente all'assalto della collina. In taluni casi, l'eventuale ricambio nei ruoli di autorità seguirà procedure istituzionalizzate, come accade nelle democrazie; in altri casi, la sfida dei detentori di potentia dovrà servirsi di tattiche violente. Le continue contrapposizioni fra il 'comitato' (il ristretto gruppo di decisori che siede al vertice della collina di comando) e le 'squadre' (i gruppi sfidanti, ciascuno, per lo più, al seguito di un leader emergente) possono risolversi in molti modi diversi, a seconda delle risorse detenute dagli uni e dagli altri, del seguito disponibile di uomini e (anche se de Jouvenel, per la verità, non approfondisce questo aspetto) della natura delle regole del gioco.
Spunti e suggestioni di varia provenienza (soprattutto, di Lasswell e di de Jouvenel, oltre che del suo maestro Bruno Leoni) vengono accolti e rielaborati in una sintesi originale nella teoria dell'azione politica di Mario Stoppino (v., 1994). Secondo Stoppino, l'azione politica 'nucleare' consiste nella messa in gioco di risorse da parte di un attore (A) per ottenere 'conformità' da parte di un altro attore (B) al fine di conseguire un qualche 'valore'. La conformità è l'altra faccia del potere. Ma poiché la conformità è, in linea di principio, aleatoria e non garantita, il problema di A è quello di stabilizzarla. In questo senso, l'azione politica è, per Stoppino, ricerca di conformità stabilizzata. Poiché, inoltre, in ogni campo sociale operano molti attori, chi agisce politicamente, ossia 'investe' le sue risorse per ottenere conformità, non la vuole solo 'stabilizzata', ma anche il più possibile 'generalizzata', estesa a una pluralità di soggetti. Quando ciò si verifica si potrà parlare di 'potere garantito' (o, che è lo stesso, di 'conformità garantita'). Si definisce inoltre la 'produzione politica' come il processo di creazione (e di simultanea distribuzione) di conformità garantita fra una pluralità di attori. La produzione politica, in un qualunque campo sociale, è associata all'esistenza di 'decisioni collettive', ossia decisioni che hanno la specificità di imporsi come vincolanti a tutti gli attori, o alla maggioranza degli attori, che compongono il campo sociale.
Se questi sono gli elementi base della politica, l'azione politica assumerà però diverse forme a seconda delle caratteristiche del campo sociale. E poiché tale campo sociale è sede di conflitti, contrattazioni e compromessi fra una pluralità di attori, esso viene denominato 'arena'. Ispirandosi a Hobbes, Stoppino distingue fra arene naturali (prive di istituzioni di governo) e arene monetarie (dotate di istituzioni di governo). Nelle arene naturali (ad esempio, nel sistema 'anarchico' degli Stati) la conformità sarà funzione diretta delle risorse possedute dai singoli attori. Investendo risorse (militari, economiche, simboliche) gli attori cercano di garantirsi conformità dagli altri attori e di consolidare la loro potenza. Data la dispersione delle risorse, diversi attori cercheranno di espandere la loro potenza. Ciò produrrà frequenti conflitti ma anche, come risultati non intenzionali, situazioni di equilibrio di potenza.
Diverso è il caso delle arene monetarie. Qui esiste un terzo attore (il governo) cui si chiede di garantire la conformità degli altri. Ciò prenderà la forma di 'diritti' e 'spettanze' che il governo assicura, tramite il controllo sulle risorse coercitive, a diversi attori. I diritti e le spettanze altro non sono che garanzie di conformità garantita (stabilizzata e generalizzata): ad esempio, il riconoscimento da parte del governo di un diritto di proprietà garantisce al titolare la conformità degli altri attori, il loro rispetto del suo diritto. A seconda del grado di specializzazione delle istituzioni politiche si daranno diversi tipi di arene monetarie. In esse opereranno, comunque, due tipi di attori. Gli attori politici in senso proprio, che spendono le risorse da essi controllate in conflitti con altri attori politici al fine di occupare posizioni di autorità (ruoli di governo), e gli attori sociali (potentati sociali e singoli cittadini), che offrono sostegno ai primi al fine di ottenere 'decisioni collettive' per sé favorevoli, sotto forma di diritti, e cioè conformità garantita.
La diversità dei regimi politici condiziona le regole del gioco, ossia i fattori che, insieme alle risorse strategiche detenute dai vari attori (politici e sociali), influenzano i modi della competizione, premiano certe tattiche competitive e ne penalizzano altre. Ma, al di là della diversità dei regimi, e fatta salva la fondamentale distinzione fra arene naturali e arene monetarie, secondo Stoppino l'azione politica manifesta sempre, sotto le varie latitudini e in ogni tempo, alcuni caratteri invarianti.
Le teorie della politica sopra citate non sono accomunate solo dal fatto di distinguere la 'politica' dallo 'Stato'. Esse condividono anche la circostanza di inscriversi tutte, sia pure con differenti prospettive, nella tradizione del realismo politico. Tutte, in un modo o nell'altro, riconoscono nel rapporto 'verticale' leader/seguaci una componente centrale della politica; e tutte consentono nel riconoscere l'importanza della coercizione in politica.
Diverso è invece il caso dell'ultima teoria cui qui accenneremo, quella di Hannah Arendt. La proposta della Arendt (v., 1958) è centrata sul recupero della concezione greco-classica della politica e la sua incorporazione entro un'originale antropologia filosofica. La vita activa si esprime attraverso tre fondamentali attività umane: il lavoro che assicura la sopravvivenza biologica dell'uomo, l'attività operativa mediante la quale l'uomo costruisce oggetti e pone in essere l'ambiente 'artificiale' in cui vive e, infine, l'azione. Per azione, la Arendt intende il rapporto che gli uomini istituiscono fra di loro senza la mediazione degli oggetti. L'azione è resa possibile dalla irriducibile diversità di ogni uomo dall'altro. È l'azione a costituire quello spazio pubblico in cui si sostanzia la 'politica'. Nella visione della Arendt la politica si risolve in una dimensione 'orizzontale' anziché verticale, si manifesta in discorsi e comportamenti mediante i quali gli uomini interagiscono su un piede d'uguaglianza, si influenzano a vicenda, si danno mete comuni. Attraverso una (deliberata, consapevole) idealizzazione della vita politica nella polis greca, soprattutto nell'Atene del V e del IV secolo, Arendt individua nella agorà il vero spazio della politica. Ne discende, per conseguenza, che ogni volta che lo spazio 'orizzontale' ove i cittadini agiscono viene indebolito o distrutto e sostituito da una struttura d'autorità o di comando - che, in quanto tale, è gerarchica, 'verticale' - allora la 'politica' retrocede o scompare. Ne discende anche, coerentemente, una concezione non convenzionale del 'potere'. Per Arendt, il potere è fondato sull'opinione ed è null'altro che la 'capacità di agire di concerto'. Non si manifesta, come per la tradizione del realismo politico, in una relazione verticale e asimmetrica fondata, almeno potenzialmente, sulla coercizione. Al contrario, il potere è generato nell'interazione 'orizzontale' fra gli uomini che agiscono in uno spazio pubblico. Il potere è l'antitesi della violenza e anche della forza. Se c'è potere non c'è violenza, e viceversa.
L'importanza della teoria politica della Arendt dipende soprattutto dal fatto che essa è stata fonte d'ispirazione di tutte le interpretazioni dialogico-discorsive della democrazia elaborate nella seconda metà del XX secolo (ad esempio, la teoria dell'agire comunicativo di Jürgen Habermas). Se la tradizione del realismo politico enfatizza inevitabilmente il carattere oligarchico della democrazia (si pensi, ad esempio, alla teoria della democrazia di Joseph Schumpeter), la teoria della Arendt propone un correttivo: mostra la tendenza degli uomini a interagire orizzontalmente, generando 'potere', ossia capacità di agire di concerto, ogni volta che si forma uno spazio pubblico e l'azione può liberamente manifestarsi.
4. La politica come governo
Gli sforzi di separare il concetto di politica dal concetto di Stato, e quindi di separare l'avventura della politica da quella dello Stato moderno, riflettono la crisi che, nel XX secolo, secondo molti osservatori, sembra investire questa istituzione. C'è però da dubitare che tali sforzi abbiano avuto successo. 'Staccare' la politica dallo Stato non è semplice. Quanto meno, non è semplice pensarla come disancorata dall'esistenza di centri di potere 'territoriali' dotati di risorse coercitive (li si chiami o meno 'Stati'). Alla politica pertiene, infatti, una ineliminabile dimensione spaziale-territoriale: è sempre nello spazio (e, quindi, su un territorio) che si dislocano le gerarchie di potenza, i rapporti di potere di cui si nutre la politica. In ogni caso, anche ammesso che la riflessione sulla politica, e l'analisi comparata delle istituzioni politiche, possano fare a meno del concetto di 'Stato', è comunque certo che esse non possono sbarazzarsi del concetto di 'governo', inteso come il 'luogo' ove si prendono le decisioni autoritative collettivizzate, le decisioni politiche.
Comunque si intenda la politica, essa è sempre un'attività volta a conquistare il governo, mantenerne il controllo, oppure cercare di influenzarlo. C'è comunque lassù, sulla collina, un uomo o un gruppo di uomini che possiamo identificare come il 'governo' e che prende decisioni vincolanti per la collettività: è verso quel luogo che si indirizzano gli sguardi, i pensieri e le azioni di chi agisce 'politicamente', è da quel luogo che partono le azioni collettivamente più rilevanti. Scegliere il governo come punto di osservazione privilegiato significa prescindere dalla natura dell'organizzazione politica. Qualunque gruppo organizzato conosciuto ha un governo: si tratti di una tribù di cacciatori raccoglitori, una città-Stato, un regno arcaico, un impero, uno Stato moderno, una confederazione di città, ecc., anche se potranno ovviamente variare sia il livello di istituzionalizzazione del governo, sia il grado di 'verticalità' (v. Sartori, 1987) dei rapporti di dominio/subordinazione. Per quanto riguarda l'età contemporanea, assumere questa prospettiva significa sostenere che se pure un giorno scomparissero gli Stati non scomparirebbero i 'governi'. A meno di ipotizzare che lo stato di natura hobbesiano cessi di essere una semplice fictio filosofica per diventare una catastrofica realtà.
La questione cruciale, al tempo stesso storiografica e politologica, è se si debba porre una differenza qualitativa, e perciò radicale, fra la 'politica di governo' nell'età dello Stato moderno occidentale e la politica di governo in altre epoche e in altre aree geografiche, sbarrando così la strada alla possibilità di una comparazione ('non si comparano mele e pere') che ricerchi le invarianti dell'agire politico, oppure se le specificità dello Stato moderno non siano tali da rendere sterile questo percorso di ricerca. Qui la divisione fra gli studiosi è piuttosto netta. Per la scuola che si ispira a Max Weber la comparazione è possibile e proficua. Per la scuola opposta, essendo lo Stato moderno un unicum, sono possibili solo comparazioni fra gli Stati moderni: è esclusa la possibilità di individuare le invarianti dell'agire politico. Ci si deve limitare a ricostruire i diversi percorsi dello Stato moderno.
Esemplificativa del primo indirizzo è la monumentale storia sociologica dei governi di Samuel Finer (v., 1999). Finer ricostruisce la storia dei governi dall'antichità ai giorni nostri, elaborando preliminarmente una griglia interpretativa che renda possibile la comparazione attraverso le epoche e le diverse aree culturali. Lasciando da parte le strutture di governo delle società primitive (tribes), essenzialmente composte da cacciatori-raccoglitori, oppure da gruppi di guerrieri nomadi, l'interesse di Finer si concentra sulle strutture di governo di quelle organizzazioni territoriali che, seguendo un orientamento proprio dell'antropologia politica (v., ad esempio, Fried, 1967), egli denomina 'Stati'. Secondo Finer lo 'Stato' è coevo della scrittura e dunque della 'storia'. Anche le tribù avevano governi, e quindi polities (strutture di governo, ancorché rudimentali). Inoltre, è accaduto sovente che delle tribù abbiano conquistato 'Stati' (così fecero gli Unni, i Mongoli, i Tartari), ma in questi casi, tutte le volte, le tribù si disintegrarono oppure diventarono le classi dominanti degli Stati conquistati.
Gli Stati premoderni si distinguono dagli Stati contemporanei perché, secondo Finer, possiedono solo le prime tre delle cinque caratteristiche proprie di questi ultimi: 1) una popolazione territorialmente definita sottomessa a un comune governo; 2) governi sostenuti da personale specializzato, funzionari civili e militari; 3) il fatto di essere organizzazioni politiche indipendenti riconosciute come tali dagli Stati circostanti. A queste tre caratteristiche, tutte necessarie perché si possa parlare di 'Stato', gli Stati contemporanei ne aggiungono altre due: 4) un sentimento diffuso fra la popolazione di riconoscimento reciproco, di appartenenza a una medesima comunità; 5) una generalizzata partecipazione della popolazione alla distribuzione, ancorché diseguale, dei benefici dell'azione di governo e una accettata condivisione di doveri. Solo raramente, nell'età premoderna, sono esistiti Stati nei quali era presente fra la popolazione il sentimento di appartenenza a una 'comunità di destino': fu questo il caso, eccezionale, degli antichi regni ebraici.
Finer distingue quattro tipi di Stato: la città-Stato, l'impero, lo Stato 'generico' e lo Stato nazionale. Se lo Stato nazionale è una creazione moderna (possiede tutte e cinque le caratteristiche sopra elencate), città-Stato, impero e Stato generico sono le forme statuali dell'età premoderna. Per Stato generico Finer intende quell'entità territoriale, la più diffusa nell'età premoderna, che non è ristretta a una città e al suo hinterland, ma non ha neppure l'estensione territoriale e la pluralità di popolazioni sottomesse proprie dell'impero.
Oltre ai tipi di Stato, Finer identifica i tipi di governo. Essi sono il Palazzo, il Forum (la piazza), la Chiesa, la Nobiltà. Tutte le forme di governo storicamente esistite, secondo Finer, corrispondono a uno dei quattro tipi puri o a combinazioni fra i tipi.
Il Palazzo è la forma di governo monarchica. Nel palazzo risiede il re o l'imperatore, la sua famiglia e la sua corte. È il centro e il fulcro della vita della collettività. Nella forma pura, i funzionari, civili e militari, i nobili e anche i sacerdoti sono tutti servitori del sovrano. Carisma e tradizione sono i principî che legittimano questa forma di governo, che spesso si associa a una estesa burocratizzazione delle attività amministrative dipendenti dal Palazzo. L'antico Egitto, i regni mesopotamici, gli Imperi persiano, romano, bizantino, gli Imperi islamici, e anche alcuni dei regni assolutisti del XVII secolo (come quello di Luigi XIV) sono tutti esempi di questa forma di governo, peraltro diffusissima nella storia umana.
Così come il Palazzo è la forma di governo più frequente, il Forum (nella sua forma pura) è una delle più rare. È l'antitesi del Palazzo: così come il Palazzo è una forma di governo chiusa, non trasparente, il Forum è una forma di governo aperta; così come il Palazzo è autoritario, il Forum è, se non democratico, quanto meno 'popolare' (il conferimento dell'autorità è ascendente: dal basso verso l'alto). Il governo, scelto dal popolo, risponde al popolo delle sue azioni, anche se il 'popolo', politicamente inteso, non comprende per lo più l'intera popolazione (in Atene ne erano esclusi gli schiavi, le donne, gli stranieri residenti nella città; il suffragio universale, maschile e femminile, è per le democrazie dell'Europa occidentale un'innovazione del XX secolo). Il principio di legittimazione, o (nei termini di Gaetano Mosca) la "formula politica", si regge sulla credenza secondo cui la 'buona società' è quella in cui l'ultima parola sulle faccende di Stato spetta ai governati, non ai governanti. Il processo politico si fonda non sul comando (come nel Palazzo), ma sulla persuasione. Gli oratori devono convincere l'assemblea del popolo della giustezza delle loro proposte politiche. Arte retorica e capacità demagogiche sono qualità essenziali di chi vuole esercitare compiti di governo o contestare le decisioni dei governanti in carica. Questa forma di governo è nata nelle città-Stato della Grecia dell'età classica, e in particolare nell'Atene del V e del IV secolo. Rarissima nella storia, solamente a partire dalla fine del XVIII secolo si è lentamente diffusa, dapprima nel solo Occidente e poi, nel corso del XX secolo, anche in altre aree.
Anche la Nobiltà è rara nella sua forma pura (vi si avvicina però la Polonia dei secoli XVI e XVII): più frequentemente, la si incontra mescolata ad altre forme di governo. Lo status superiore degli appartenenti alla Nobiltà dipende, nel tipo puro, dal lignaggio, ma anche dalla ricchezza e dalla virtù militare. Il processo politico si basa su compromessi interni alla Nobiltà, in particolare fra i grandi magnati, i nobili con maggiore disposizione di terre, ricchezze, servi e 'clienti'. I rapporti nobile/clienti sono basati sullo scambio di protezione e favori contro obbedienza e fedeltà.
La Chiesa è anch'essa, nella versione pura, una rarissima forma di governo. Il Vaticano, ma anche il Tibet nel periodo 1642-1949, ne sono due esempi. Molto più frequentemente, nella storia, questa forma di governo si combina con altre. Nella versione pura presuppone una rigida distinzione fra clero e personale civile, una gerarchia interna al clero, e la concentrazione, nelle sue mani, di tutte le funzioni di governo. La legittimazione di questa forma di governo risiede, direttamente, nella religione professata.
A parte il caso del Palazzo che, secondo Finer, è la forma di governo più diffusa nella storia, le altre forme di governo nelle varianti pure sono, come si è detto, estremamente rare. Esistono però molti casi ibridi. Per esempio, l'Ordine Teutonico della Prussia orientale e del Baltico in età medievale può essere descritto come un caso di Chiesa-Nobiltà. La Ginevra di Calvino è invece un raro esempio di Chiesa-Forum. Assai diffusa, per esempio nei regni dell'Europa medievale e post-medievale, è la variante Chiesa-Palazzo. Non manca neppure qualche caso di Forum-Nobiltà: la Roma repubblicana o la repubblica di Venezia ne sono esempi. Ci sono poi molti esempi del tipo Palazzo-Nobiltà, suddivisibile in sottotipi a seconda che i rapporti di forza siano più favorevoli al sovrano o alla nobiltà. E, per quanto ciò possa sembrare una contraddizione in termini, si possono rintracciare anche casi del tipo Palazzo-Forum. Le tirannie greco-antiche e i cesarismi dell'Europa del XX secolo ne sono approssimazioni.
Tipologia delle forme di Stato e tipologia delle forme di governo sono, per Finer, indispensabili per comparare i governi, ma non sono sufficienti. Per rintracciare 'regolarità' e per spiegare formazione, permanenza e crisi dei governi attraverso le epoche, occorre considerare anche molti altri fattori. I governi operano sempre in 'campi conflittuali', arene ove sfide militari esterne, ribellioni interne (ad esempio, rivolte contadine, o tentativi di secessione territoriale a opera di notabili locali o di governatori), combinandosi ai continui intrighi di palazzo, minacciano costantemente la sopravvivenza dei governi e delle stesse strutture di governo. L'analisi del campo conflittuale entro cui i governi operano deve tenere conto, oltre che delle caratteristiche della forma di Stato e della forma di governo, anche di fattori quali il 'ciclo militare' (un aspetto del quale è il rapporto fra efficienza militare e livello di sfruttamento, di estrazione dalla popolazione delle risorse necessarie al mantenimento dell'organizzazione militare), l'esistenza o meno di vincoli (religiosi, costituzionali, o di altra natura) all'azione del governo, l'esistenza o meno di basi di potere autonome (ossia indipendenti dal controllo del sovrano) della nobiltà, le caratteristiche delle burocrazie civili e militari, le regole che presiedono alla selezione dei governanti. La storia sociologica dei governi mostra, al tempo stesso, le specificità, ma anche le regolarità dell'agire politico nel corso della storia. Mostra anche che le specificità dello 'Stato moderno' non consistono solo nel fatto che in esso si sviluppano - soprattutto nella fase più recente della sua storia (dall'Ottocento in poi), con l'affermazione del principio di nazionalità e con la democratizzazione - caratteristiche che, come abbiamo visto, erano assenti negli Stati premoderni. Consistono anche nel fatto che lo Stato moderno acquista un controllo sul territorio e sulla popolazione che vi risiede nettamente superiore a quello realizzato nell'età premoderna. Per Finer, però, questo non basta per porre una radicale cesura fra lo Stato moderno europeo e gli Stati premoderni. Anche in esso i governi devono, per sopravvivere, fronteggiare sfide non qualitativamente dissimili da quelle fronteggiate dai governi premoderni.
Esemplificativa della corrente (opposta a quella cui appartiene Finer) interessata ad affermare l'unicità dello Stato europeo e la sua incomparabilità con altre esperienze e istituzioni politiche, è la storia sociologica dell'organizzazione statale europea di Wolfgang Reinhard (v., 1999). Per Reinhard è l'Europa ad avere inventato lo Stato. Esso si configura come un'eccezione nella storia del mondo. Lo Stato moderno è esistito, preceduto da un lunghissimo periodo di incubazione, solo fra la fine del XVIII secolo e i primi due terzi del XX secolo. Lo Stato, come la nazione, non è un organismo naturale ma una "costruzione mentale formatasi attraverso processi di potere dell'agire umano". Ne consegue che tanto le idee quanto le azioni, i discorsi e le prassi hanno contribuito a formarlo. Studiare la storia dello Stato, per Reinhard, significa pertanto seguire in parallelo gli sviluppi delle dottrine politiche e quelli delle istituzioni politiche, nonché le loro reciproche influenze.
Il consolidamento del potere statale fu l'opera di dinastie che non erano tuttavia le uniche detentrici di risorse di potere. Per arrivare a monopolizzare il potere esse dovettero comprimere quello di gruppi rivali, in particolare dell'alta nobiltà e della Chiesa. Per farlo dovettero di norma allearsi a nuove élites. Strinsero alleanze, dove poterono, con la borghesia mercantile, per ottenere le risorse necessarie alla costruzione dello Stato, e si circondarono di consiglieri e funzionari di origine borghese, spesso con una formazione giuridica, che rappresentarono il primo nucleo delle future élites amministrative.
Lo Stato moderno si affaccia alla storia in diverse varianti (Inghilterra, Francia, Prussia, Spagna, ecc.), ma in tutti i casi sono rintracciabili tendenze e sfide comuni. In primo luogo, la monarchia è, sempre, la forza motrice dello sviluppo del potere statale. In secondo luogo, poiché il mantenimento del potere richiede un quotidiano esercizio del governo e dell'amministrazione, in tutti i casi ciò comporta lo sviluppo di sistemi amministrativi. In terzo luogo, la monarchia deve in ogni caso fronteggiare quattro istituzioni, talora a essa preesistenti (come la Chiesa), talora da essa stessa create (come gli apparati di giustizia) con cui intrattiene rapporti ambivalenti, quando non apertamente conflittuali. La prima istituzione è il potere nobiliare, quasi sempre guida, attraverso il ruolo preponderante svolto nelle assemblee di ceto, del movimento di resistenza contro i tentativi dei sovrani di accrescere la forza e il peso degli apparati statali. La seconda istituzione è costituita dai comuni a guida borghese, nelle regioni fortemente urbanizzate, e dai comuni rurali (nei quali si manifesta la resistenza dei contadini). Il grado, maggiore o minore, di resistenza dei comuni al potere sovrano e le risorse, maggiori o minori, che essi possono mettere in campo, contribuiscono a spiegare i diversi gradi di autonomia che quelle lotte lasceranno in eredità ai poteri locali entro la cornice dei costituendi Stati moderni. La terza istituzione è la Chiesa, al tempo stesso fornitrice di risorse di legittimazione dei poteri statali nascenti, ma anche, in molti casi, antagonista di quei poteri. La quarta istituzione è data dal potere giudiziario il quale intrattiene, fin dall'origine, un rapporto ambivalente con il potere sovrano, a causa dell'aspirazione dei giudici all'autonomia e all'indipendenza.
I conflitti ingaggiati dai sovrani con i diversi gruppi detentori di risorse di potere sono sempre collegati alle lotte di potenza nell'arena interstatale. Le influenzano e ne sono influenzati. Infatti, lo sviluppo del potere statale si afferma ovunque come politica di potenza, il che richiede mezzi finanziari (e un apparato specializzato nella raccolta delle risorse) e un'organizzazione militare. Seguendo Otto Hintze (e, dopo di lui, una consolidata tradizione), anche Reinhard vede nelle gare di potenza fra i sovrani europei il principale motore della costruzione degli Stati.
Se all'epoca della Rivoluzione francese lo Stato moderno ha raggiunto il suo compimento (esso detiene ormai, nei termini di Max Weber, il monopolio della forza fisica legittima), gli sviluppi successivi lo rafforzano ulteriormente. Con il passaggio dalla monarchia allo Stato democratico, esso trova nel nazionalismo - efficace strumento per fare leva sulle emozioni delle masse - una nuova, cruciale risorsa di potere. Lo Stato democratico, come intuì per primo Alexis de Tocqueville, rafforza, non indebolisce, l'apparato amministrativo costruito dalla monarchia e accresce pertanto il controllo statale sulla popolazione. Nel XX secolo questo Stato, inventato dall'Europa, viene almeno formalmente esportato nel mondo. Secondo Reinhard, è sul finire del secolo XX che inizia la crisi dello Stato moderno. Esso è sfidato dai processi di interdipendenza economica internazionale e dall'emergere di domande (ad esempio, la sfida del multiculturalismo) che non può soddisfare senza andare incontro al declino e alla dissoluzione.
Si prediliga o meno la tesi della unicità dello Stato moderno europeo, tanto lo studio comparato delle varianti dello Stato europeo (Reinhard) quanto la comparazione delle strutture di governo prevalenti nelle diverse epoche storiche (Finer) confermano una 'regolarità': lo sviluppo delle strutture di governo è sempre condizionato dalle guerre e dalla competizione di potenza. Non è mai possibile spiegare le istituzioni politiche, la loro storia e le caratteristiche che via via assumono se non si esamina (si tratti di città-Stato, di imperi o di Stati moderni) il rapporto fra lo sviluppo istituzionale e i conflitti armati fra le diverse entità territoriali. Da Max Weber a Otto Hintze, da Ludwing Dehio alla sociologia dello Stato contemporanea (v. Skocpol, 1979; v. Mann, 1986; v. Tilly, 1990; v. Poggi, 1991), c'è accordo tra gli studiosi su questo punto. C'è, ad esempio, accordo sul fatto - già a sua tempo individuato da Tocqueville - che le continue lotte di potenza furono massimamente responsabili della centralizzazione amministrativa, dell'affermazione del militarismo e degli sviluppi autoritari negli Stati continentali europei, mentre la relativa sicurezza di cui godevano gli Stati insulari (Gran Bretagna, Stati Uniti) favorì lo sviluppo di società più aperte e di sistemi politici più liberali (v. anche Seeley, 1883).
Lo stesso precoce sviluppo del costituzionalismo nei sistemi politici anglosassoni si deve alle condizioni di vantaggio, di relativa sicurezza, di cui essi godevano nel sistema internazionale degli Stati (v. Friedrich, 1950; v. Dahl, 1971). Anche le differenze fra i sistemi costituzionali, anglosassoni da un lato ed europeo-continentali dall'altro, sono spiegabili, almeno in parte, in questa chiave (v. Matteucci, 1993). La stessa faticosa affermazione della democrazia in Europa continentale fra Ottocento e Novecento, nonché i crolli democratici degli anni venti-trenta del XX secolo nella medesima area, non possono essere spiegati senza mettere in gioco il ruolo delle guerre e della competizione di potenza.
La 'seconda ondata' della democratizzazione (v. Huntington, 1991) che investì l'Europa continentale occidentale (con le eccezioni di Spagna e Portogallo) alla fine della seconda guerra mondiale fu favorita dalle condizioni internazionali: il sistema bipolare (la competizione Stati Uniti/Unione Sovietica) e la nascita di un 'blocco' euro-atlantico a leadership statunitense - un'area fortemente interdipendente dove si univano alleanza militare, cooperazione economica e condivisione di valori - che rapidamente acquistò i caratteri di una "comunità pluralistica di sicurezza" (v. Deutsch e altri, 1957) eliminarono la possibilità di guerre fra gli Stati coinvolti. Senza per questo che le democrazie implicate perdessero le loro specificità, frutto di differenti sviluppi istituzionali, di differenti sistemi di fratture sociali (religiose, etnico-linguistiche, ecc.) e, per conseguenza, di differenti sistemi di partito (v. Rokkan, 1970).
La stabilizzazione di democrazie nell'area euro-atlantica dopo la seconda guerra mondiale spiega perché buona parte della ricerca sulla politica si sia concentrata, da quel momento in poi, nell'analisi dei regimi democratici. Spiega anche perché lo studio del totalitarismo del XX secolo, nonché dei regimi autoritari dell'Est europeo durante la guerra fredda e delle aree extraeuropee, venga condotto in questa fase avendo sempre la democrazia come termine di raffronto (v. Morlino, 1986).
Lo studio delle democrazie occidentali tiene per lo più conto di tre dimensioni, usualmente definite della polity, della politics, e della policy. Lo studio della polity è lo studio del 'regime' democratico, delle sue istituzioni e delle sue diverse varianti. Lo studio della politics, invece, si concentra sulle dinamiche elettorali, sui partiti politici e i sistemi di partito, sui gruppi di pressione, sul ruolo delle burocrazie pubbliche e sulle dinamiche politiche fra centro e periferia (v. Pasquino, 1997). Lo studio delle policies, infine, fortemente influenzato dall'espansione del ruolo dello Stato democratico nel corso del XX secolo, esamina le modalità dei processi decisionali e l'impatto delle 'politiche' nei diversi ambiti di intervento dei poteri pubblici (v. Regonini, 1989).
Osservata e vivisezionata da ogni punto di vista, la democrazia (o 'poliarchia', nella versione realistica ispirata a Max Weber e a Joseph Schumpeter) è stata certamente, nel XX secolo, l'oggetto più studiato sia dagli scienziati politici empirici che dai teorici della politica.
5. Fine della politica?
Si ritiene tradizionalmente che alla politica appartengano compiti e funzioni che nessun altro ambito dell'agire umano potrebbe assolvere, il che la renderebbe ineliminabile. Le formulazioni variano. C'è, ad esempio, chi ritiene che alla politica tocchi il triplice compito di garantire la sicurezza attraverso il controllo e l'uso degli strumenti coercitivi, di forgiare le identità collettive mediante le quali gli uomini trovano risposte a domande di significato e si scelgono una 'parte' (un ruolo) nella società, e di conservare (o trasformare) un ordine sociale dal quale dipende la diseguale distribuzione delle risorse scarse (v. Lasswell e Kaplan, 1950). C'è chi identifica tre dimensioni della politica: quella 'strumentale', che ha a che fare con il potere (i conflitti per il potere dai cui esiti discendono le decisioni collettivamente vincolanti); quella 'espressiva', che riguarda formazione e affermazione delle identità; e quella 'regolativa', che fissa le regole che disciplinano i rapporti sociali (v. Gamble, 2000).
La tesi della ineliminabilità della politica in ragione delle indispensabili funzioni che essa svolge non è rimasta però priva di contestazioni. Nel Novecento, e con maggiore frequenza sul finire di tale secolo, questa tesi è stata ripetutamente sfidata. Da un lato, essa è stata (parzialmente) contestata dai fautori liberali dello 'Stato minimo' (come Friedrich von Hayek). Richiamandosi alla tradizione liberale classica - e soprattutto alla scuola scozzese (di Adam Smith, David Hume, Adam Ferguson, ecc.) - i liberali hanno immaginato una politica più o meno lentamente destinata a ritrarsi (dopo la grande espansione dello Stato del XX secolo, dopo i trionfi dello Stato-provvidenza) sotto i vincoli imposti dall'economia internazionale di mercato. Hanno immaginato che la politica, entrando in un'età postideologica (dopo il declino delle grandi utopie del XX secolo), e costretta da vincoli economici, avrebbe finito per occupare un ruolo sempre più ridotto nella vita degli uomini. Dall'altro lato, la tesi della ineliminabilità della politica è stata sfidata dal postmodernismo (v. Kumar, 1995; v. Gamble, 2000). I postmodernisti pensano che la politica abbia occupato, negli ultimi due secoli, uno spazio così ampio nella vita degli uomini (occidentali) perché ciò corrispondeva alle esigenze dettate, a partire dall'Illuminismo, dal 'progetto' della modernità. La fine della modernità, l'ingresso in un'era postmoderna, ridimensionerebbe il ruolo e il posto della politica nella società umana.
Più in generale, la discussione sul presente e sul futuro della politica è dominata dalla contrapposizione fra continuisti e discontinuisti: fra chi ritiene che, con gli adattamenti che la storia comunque imporrà, la politica del futuro non sarà molto diversa da quella del passato, e chi ritiene invece che una radicale cesura si sia realizzata o si stia realizzando e che, di conseguenza, il futuro della politica sia destinato a rivelarsi radicalmente diverso dal suo passato.
Tra i discontinuisti, i liberali sopra citati, fautori dello Stato minimo, sono indubbiamente i più moderati. Essi pensano, per lo più, che la discontinuità si risolva in una riduzione drastica del peso e del ruolo dello Stato dopo la grande espansione del XX secolo. Ma ci sono anche posizioni assai più radicali proprie, in genere, di coloro che annunciano la 'fine dello Stato'. Come sempre, in un dibattito in cui prevalgono idee e sensibilità occidentali, è alla sorte di quella creatura occidentale che è lo Stato moderno che viene legato anche il destino della politica. L'assunto è che l'imminente scomparsa dello Stato (o, quanto meno, il drastico ridimensionamento del suo ruolo) modifichi radicalmente i caratteri della politica. Spesso, l'annuncio della fine, o della decadenza, dello Stato si accompagna all'idea dell'avvento di un nuovo 'Medioevo' (v. Bull, 1977): il comando politico perderebbe l'ancoraggio territoriale che per alcuni secoli gli è stato assicurato dallo Stato, vincoli politici e lealtà diventerebbero in parte personali e in parte corporativo-funzionali, gli Stati perderebbero il monopolio della forza, i sistemi politici nazional-territoriali lascerebbero il passo a una pluralità di centri di potere locali, sovranazionali e transnazionali, con competenze intrecciate, in perenne competizione.
Secondo i discontinuisti, tre sono le sfide che stanno indebolendo gli Stati. La globalizzazione, i processi di integrazione regionale (di cui l'Unione Europea è l'esempio più importante), l'emergere di domande 'intrattabili' all'interno della cornice degli Stati nazionali.
La globalizzazione, nelle visioni più estreme, non è semplicemente un accrescimento (frutto di un trend secolare) dell'interdipendenza fra i mercati nazionali. È invece una vera e propria unificazione economica, sociale e culturale del mondo, un processo che porta a sostituire il pluriverso sociale con un universo, con una società globale. Nella versione liberale, si tratta di un'unificazione del mondo che comporta il superamento degli Stati nazionali e la diffusione, veicolata dall'economia di mercato e dalla cultura politica liberale-occidentale, del benessere economico e della democrazia (v. Fukuyama, 1989). Nella versione marxista, si tratta di un'unificazione del mondo che, facendo emergere un inedito sistema imperiale sulle ceneri del tradizionale sistema degli Stati, sostituisce ai tradizionali conflitti politici interni agli Stati lotte 'transnazionali' fra gli apparati di dominio (le imprese multinazionali e le organizzazioni internazionali che le sostengono) e i popoli sfruttati (v. Hardt e Negri, 2000). In ogni caso, la globalizzazione ridimensiona drasticamente il ruolo dello Stato e sposta in altri luoghi e in altre istituzioni l'esercizio del potere politico (v. Strange, 1996).
La seconda sfida è rappresentata dai processi di integrazione regionale e, in particolare, da quello in corso in Europa. L'Unione Europea è spesso dipinta dai suoi studiosi come un esempio di sistema post-statale (e post-moderno) in formazione, una sorta di Sacro Romano Impero in cui la sovranità degli Stati membri si stempera, si indebolisce (v. Schmitter, 1996; v. Wæver, 1996). L'idea è che se lo Stato venisse 'superato' in Europa, dove ha avuto i natali e ha raggiunto la maturità, questa forma di organizzazione politica sarebbe ormai condannata ovunque (v. Badie, 1999).
La terza sfida è rappresentata dall'esplodere del particolarismo all'interno degli Stati nazionali. Il multiculturalismo, in particolare, starebbe colpendo al cuore lo Stato moderno nei paesi occidentali, mettendo in discussione la sua unità giuridica: la richiesta di trattamenti differenziati a seconda delle appartenenze etniche, religiose, ecc., mina l'uguaglianza giuridica fra i cittadini e fa rientrare dalla finestra quel sistema di privilegi differenziati proprio dell'età medievale che lo Stato moderno, nel momento del suo trionfo, aveva cacciato dalla porta.
Le tesi più radicali dei discontinuisti appaiono però esagerate (v. Gamble, 2000). La globalizzazione non sembra essere il travolgente fenomeno che essi dicono. L'interdipendenza economica internazionale è ben lungi dall'avere provocato l'unificazione economica del mondo (v. Hirst e Thompson, 1996). Per giunta, si tratta di un fenomeno reversibile. Per tutto il Novecento, ad esempio, il sistema internazionale ha alternato momenti in cui prevalevano tendenze alla globalizzazione e momenti in cui prevalevano tendenze alla frammentazione (v. Clark, 1997). In ogni caso, nulla prova che lo Stato abbia perso le sue prerogative, soprattutto sul terreno cruciale del controllo e dell'amministrazione della violenza. Anche le sfide portate da gruppi terroristici e da organizzazioni criminali continuano a essere affrontate con gli strumenti classici della statualità. Soprattutto, la globalizzazione non ha ancora dato segni di poter erodere il classico sistema internazionale anarchico degli Stati.
Neppure la tesi secondo cui i processi regionali porterebbero al superamento dello Stato appare convincente. Essa è frutto di una visione eccessivamente eurocentrica della politica. In nessun'altra area del mondo è in corso un processo paragonabile a quello che ha dato vita all'Unione Europea. Fuori dall'Europa, il mondo è ancora composto da Stati (ad esempio, nell'area asiatica esistono organizzazioni statali numerose e potenti) oppure è balcanizzato (ad esempio, nell'Africa subsahariana) a causa di fallimenti dello Stato che in larga misura hanno cause endogene. Nella stessa Unione Europea gli Stati nazionali continuano, almeno per ora, a conservare il controllo in ultima istanza sull'uso della forza.
È tuttavia vero che, come previde, nella prima metà del XX secolo, Otto Hintze, solo gli Stati di grandi dimensioni come Stati Uniti, Cina, Russia (in futuro forse anche l'Unione Europea, nonché India, Brasile e pochi altri) possiedono le risorse per occupare i posti più alti della gerarchia internazionale. Ma è da dimostrare che questa variazione 'di scala' implichi anche un epocale cambiamento del carattere della politica.
Da ultimo, le tendenze alla frammentazione interna agli Stati rappresentano un problema effettivo, ma solo per le mature democrazie occidentali. Qui la partita è aperta: è da vedere se la sfida multiculturale determinerà mutamenti radicali nel funzionamento delle democrazie oppure se verrà riassorbita e almeno in parte neutralizzata (v. Vitale, 2000; v. Facchi, 2001). Ma ciò non riguarda propriamente né il destino dello Stato né, tanto meno, quello della politica. Riguarda invece la futura fisionomia delle democrazie liberali occidentali.
Nel XX secolo è certamente avvenuta una trasformazione radicale (anche se si è trattato del compimento di un lungo processo storico): l'inglobamento di tutti i gruppi umani all'interno di un unico sistema internazionale (v. Aron, 1960). Ciò ha accresciuto la probabilità di 'conflitti di civiltà' (v. Huntington, 1996). Ma non ha cambiato, né promette di cambiare, la natura della politica, che resta sempre e comunque la sfera dell'agire umano da cui dipendono sicurezza, identità e regole di convivenza (ordine).
All'inizio del XXI secolo è lecito chiedersi se alcune regole di convivenza che l'Occidente ha elaborato e su cui si fonda la sua idea di dignità dell'uomo e il suo sistema di protezione delle libertà individuali potranno diffondersi, affermarsi e prosperare anche fuori dall'Occidente, oppure se i conflitti di identità e le lotte per la sicurezza impediranno che questa aspirazione si realizzi.
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