Politiche pensionistiche e Costituzione
La sentenza della Corte costituzionale 30.4.2015, n. 70, sulla illegittimità del blocco temporaneo della perequazione automatica dei trattamenti pensionistici previsto dall’art. 24, co. 25, d.l. 6.12.2011, n. 101 (conv. con mod. dalla l. 22.12.2011, n. 214), è probabilmente una delle pronunce più discusse della storia recente della giurisprudenza della Consulta. Questo contributo ne offre una analisi critica, situandone la discussione all’interno del più generale dibattito sui mobili confini che separano, almeno in teoria, la sfera delle scelte politiche riservate al legislatore dagli ambiti del controllo di costituzionalità spettante al giudice delle leggi.
Poche sentenze hanno suscitato un dibattito pubblico così vasto, e dai toni talvolta così polemici, come la decisione del 30.4.2015, n. 70, con la quale la Corte costituzionale ha come noto dichiarato l’illegittimità del blocco integrale della perequazione automatica delle pensioni di importo complessivamente superiore a tre volte il trattamento minimo Inps nel biennio 20122013, quale disposto dall’art. 24, co. 25, d.l. 6.12.2011, n. 101, conv. con mod. dalla l. 22.12.2011, n. 214.
La polemica – vasta e intensa –, che ne è scaturita, non può essere peraltro spiegata solo in considerazione del notevole impatto della sentenza della Corte costituzionale sui (già) precari equilibri di finanza pubblica e della connessa rilevanza politica e sociale della questione affrontata. Il dibattito suscitato dalla sentenza riveste, infatti, una valenza e una portata più ampia e generale, che potremmo dire “di sistema”, nella misura in cui investe – al pari di altre recenti decisioni della Corte, come la n. 10 e la n. 178 del 20151 (ma invero ancor più di quelle, per i concreti esiti del giudizio) – questioni di cruciale rilevanza costituzionale, che attengono, in pari tempo, da un lato, al rapporto tra garanzia dei diritti fondamentali cd. “costosi” (quali sono, tipicamente, quelli di prestazione connessi al rapporto previdenziale) e vincoli di bilancio, e, da un altro lato, alla dialettica tra discrezionalità politico-legislativa e ambiti di incidenza del controllo di costituzionalità affidato al giudice delle leggi.
Si tratta, peraltro, di profili tra di loro strettamente intrecciati2, sui quali non a caso si è concentrato – con toni talvolta inusitatamente polemici – il dibattito svoltosi sulla sent. n. 70/2015, in particolare tra i costituzionalisti3.
In questo contributo daremo problematicamente conto dei termini essenziali di questo dibattito, tutt’altro che risolto, non prima di aver ripercorso, da un lato, la complessa evoluzione della disciplina oggetto della censura di illegittimità costituzionale e, dall’altro, i principali passaggi della motivazione della sentenza della Corte.
2.1 Disciplina della perequazione automatica delle pensioni
È la stessa sentenza della Corte ad offrire un quadro preciso e meticoloso della travagliata evoluzione della disciplina della perequazione automatica dei trattamenti pensionistici, istituto che ha fatto la sua prima apparizione nel sistema con il blando meccanismo introdotto dall’art. 10 l. 21.7.1965, n. 903, di lì a poco rivisto, con una ben più incisiva previsione di indicizzazione, dall’art. 19 l. 30.4.1969, n. 153, all’apice della parabola espansiva delle riforme pensionistiche della fine degli anni Sessanta.
Oramai alle spalle il «lunghissimo 1968 italiano»4, quella parabola inizia la sua rapida traiettoria discendente, pressoché in parallelo con il definitivo superamento del meccanismo della scala mobile delle retribuzioni, con l’art. 11 d.lgs. 30.12.1992, n. 503, che, nel dare attuazione alla delega conferita al Governo con l’art. 3 l. 23.10.1992, n. 421 (la cd. “riforma Amato”), operò un primo significativo ridimensionamento delle effettive modalità operative generali – ovvero “a regime”, come si suol dire – dell’istituto, prevedendo la cadenza annuale, e non più semestrale, degli aumenti dovuti alla perequazione automatica e, soprattutto, stabilendo che questi fossero calcolati sulla base del solo valore medio del costo della vita, misurato dalle variazioni dell’indice Istat dei prezzi al consumo delle famiglie di operai e impiegati, onde «compensare l’eliminazione dell’aggancio alle dinamiche salariali, al fine di garantire un collegamento con l’evoluzione del livello medio del tenore di vita nazionale»5.
E un ulteriore, importante momento di razionalizzazione della disciplina della perequazione automatica delle pensioni – dopo che la l. 8.8.1995, n. 335 (la cd. “riforma Dini”) e la l. 27.12.1997, n. 449 (la “manovra Prodi”) si erano limitate a introdurre minori aggiustamenti – si realizza in virtù del combinato disposto dell’art. 34, co. 1, l. 23.12.1998, n. 448 e dell’art. 69, co. 1, l. 23.12.2000, n. 388, che (perfezionando una linea legislativa peraltro già affermatasi con l’art. 21 l. 27.12.1983, n. 730) ridisegnano il regime generale dell’istituto secondo due fondamentali direttrici, chiaramente ispirate ad un principio equitativo: da un lato, stabilendo che il meccanismo della rivalutazione operi, in favore di ogni singolo beneficiario, in funzione dell’importo complessivo dei trattamenti corrisposti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria e di ogni altra forma esclusiva, sostitutiva, esonerativa, o anche integrativa, e in proporzione all’ammontare di ciascun trattamento ricevuto; dall’altro, e soprattutto, prevedendo che esso spetti per intero soltanto per le fasce di importo sino a tre volte il trattamento minimo Inps, con riduzione proporzionale – e in graduale décalage – per quelle eccedenti la suddetta soglia.
Ma se questa è la traiettoria generale di aggiustamento, e di moderato retrenchment, di un istituto che aveva fatto il suo ingresso negli anni gloriosi in cui si andava edificando «il sistema pensionistico più generoso, sperequato e fiscalmente irresponsabile dell’area OCSE»6, è la specifica – ed anch’essa assai tormentata – vicenda dei blocchi temporanei, e più o meno prolungati, della perequazione automatica delle pensioni ad aver ripetutamente richiamato, in questi anni, l’attenzione della Corte costituzionale, in un dialogo (o se si vuole in crescendo dialettico) con le scelte del legislatore ordinario, di cui la sentenza n. 70/2015 segna – allo stato – il momento certamente più significativo. Ed anche sotto tale profilo è nuovamente la sentenza della Corte a compiere una puntuale ricognizione e una precisa cronistoria dei provvedimenti di sospensione temporanea della perequazione automatica delle pensioni, susseguitisi dalla misura in certo senso capostipite – anche simbolicamente – delle tante manovre emergenziali, costituita dall’art. 2 d.l. 19.9.1992, n. 384 (il cui impatto fu, peraltro, fortemente attenuato già in sede di conversione con l. 14.11.1992, n. 438, e poi pressoché sterilizzato dall’art. 11, co. 5, l. 24.12.1993, n. 537), sino, appunto, all’art. 24, co. 25, del “decreto Salva Italia”, oggetto della declaratoria di illegittimità costituzionale che qui si commenta.
I precedenti in tal senso più significativi – la cui valutazione in qualità di tertium comparationis ha difatti orientato in modo decisivo il giudizio di illegittimità costituzionale dell’art. 24, co. 25, d.l. n. 101/2011 – sono, da un lato, il blocco disposto per l’anno 1998 dall’art. 59, co. 13, l. n. 449/1997 e, dall’altro, quello introdotto, per il 2008, dall’art. 1, co. 19, l. 24.12.2007, n. 2477. Il primo – limitato (oltre che ad un solo anno) ai soli trattamenti pensionistici di importo superiore a cinque volte il trattamento minimo Inps – è stato senz’altro ritenuto costituzionalmente legittimo dalla Corte con ordinanza 17.7.2001, n. 256; il secondo – riferito unicamente alle pensioni di importo superiore a otto volte quel minimo – ha pure superato il vaglio di costituzionalità, con la sentenza 11.11.2010, n. 316, ma questa volta con l’importante caveat – a mo’ di monito rivolto al legislatore – per cui «la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità (su cui, nella materia dei trattamenti di quiescenza, v. le sentenze n. 372 del 1998 e n. 349 del 1985), perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere di acquisto della moneta».
2.2 La motivazione della sent. n. 70/2015
E quel monito, evidentemente inascoltato dal legislatore del 2011, come pure i precedenti modelli di intervento sul blocco della perequazione, risultano in effetti centrali nella trama della motivazione della sent. n. 70/2015, con la quale la Corte ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, co. 25, del “decreto Salva Italia”, nella parte in cui prevede che, in considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, co. 1, l. n. 448/1998 è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti di importo complessivo sino a tre volte il minimo Inps nella misura del 100 per cento.
La Corte muove in effetti dall’assunto, acquisito dalla propria precedente giurisprudenza8, secondo cui il meccanismo della perequazione automatica è funzionale alla conservazione del valore reale (cioè del potere di acquisto) della prestazione pensionistica (valendo perciò ad assicurare effettività al principio di cui all’art. 38, co. 2, Cost.), per rilevare come, disattendendo quel monito, il legislatore abbia travalicato, nella specie, i limiti imposti dal rispetto di quei principi di proporzionalità e ragionevolezza, cui si era viceversa attenuto nei precedenti interventi di blocco della rivalutazione delle pensione, ed ai quali si è nuovamente (e correttamente) ispirato con la più recente previsione dell’art. 1, co. 483, lett. e), l. 27.12.2013, n. 147, la quale ha previsto, per il triennio 20142016, una rimodulazione della percentuale di applicazione della perequazione, secondo il meccanismo generale già considerato, «con l’azzeramento per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo dell’Inps e per il solo anno 2014»9.
Nel caso in cui contingenti esigenze di contenimento della spesa e di sostenibilità economica lo richiedano, ben può pertanto il legislatore procedere tanto a prelievi diretti sulle pensioni, ad esempio nelle forme consentite della contribuzione di solidarietà destinata a fini previdenziali, quanto ad una decurtazione indiretta tramite il blocco della relativa perequazione automatica; ma ciò deve sempre avvenire nel rispetto dei principi – non valicabili, neppure in nome dell’emergenza finanziaria – di proporzionalità e ragionevolezza. Ed è, in questo caso, proprio in virtù del confronto con le discipline di blocco delle perequazione automatica precedenti e successive a quella dettata dal d.l. n. 101/2011 – alla stregua di quel momento comparativo che è del resto tipico del «carattere ternario»10 del giudizio di ragionevolezza11 –, che la Corte ha potuto concludere nel senso della incostituzionalità delle scelta concretamente operata, in casu, dal legislatore.
In realtà, come evidenzia la parte finale della motivazione della sentenza, la Corte – pur all’esito di detto esame comparativo, richiesto dal giudizio di ragionevolezza e proporzionalità – non disconosce al legislatore la facoltà di esercitare le proprie discrezionali prerogative in materia, attraverso il rinnovato utilizzo di tale specifica forma di contenimento della spesa previdenziale, in considerazione del vincolo – peraltro rafforzato dalla riforma costituzionale del 2012 – derivante dall’art. 81 Cost.12.
Piuttosto, la Corte – articolando il controllo di ragionevolezza secondo una sequenza argomentativa che viene ad avvicinarsi in qualche modo alla logica procedimentalizzata della valutazione di proporzionalità propria di altre Corti e in particolare del Bundesverfassungsgericht13 – evidenzia, criticamente, come, nell’occasione, il criterio di bilanciamento dei contrapposti interessi di rango costituzionale, concretamente adottato dal d.l. n. 101/2011, sia rimasto privo di evidenza e, dunque, non abbia realizzato le condizioni che consentono di superare il proprium del sindacato di legittimità costituzionale. Come osserva la Corte – stigmatizzando appunto il fatto che nella specie un diritto costituzionalmente garantito, qual è «il diritto ad una prestazione adeguata (...), risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio» –, la «disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo (...) si limita a richiamare genericamente la ‘contingente situazione finanziaria’, senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento», e «anche in sede di conversione (...) non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come è prescritto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009 n. 196, recante ‘Legge di contabilità e finanza pubblica’ (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale ‘puntualizzazione tecnica’ dell’art. 81 Cost.)».
Nella prospettiva sistematica da cui ha preso le mosse questo contributo, l’importanza della sentenza della Corte va dunque colta essenzialmente nel fatto che essa riafferma con forza lo statuto costituzionale, con le connesse garanzie, dei diritti sociali di prestazione, ancorandolo ai principi di eguaglianza sostanziale e solidarietà (artt. 2 e 3, co. 2, Cost.), contro la tendenza ad assegnare, negli esercizi di bilanciamento, una sorta di pregiudiziale prevalenza gerarchica al principio dell’equilibrio di bilancio, che pure è stato certamente rafforzato dalla recente riforma dell’art. 81 Cost.
Non a caso i critici di tale decisione ne hanno sottolineato la incompatibilità con il percorso argomentativo che ha sorretto la non meno discussa sent. n. 10/2015 sulla cd. Robin Tax14, nella quale il principio dell’equilibrio di bilancio, inteso rigorosamente come tendenziale pareggio strutturale tra entrate e spese dello Stato, ha addirittura indotto la Corte a derogare alla regola processuale della efficacia naturalmente retroattiva della pronuncia di incostituzionalità della legge (con conseguente integrale sacrificio, quantomeno per il pregresso, dei diritti patrimoniali dei contribuenti assoggettati alla imposta dichiarata illegittima, in quel caso per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost.).
Sennonché quella sentenza aveva discutibilmente finito per assolutizzare tale principio, pur rafforzato dalla novella dell’art. 81 Cost., accogliendo – come è stato osservato15 – «una visione organistica dello Stato», nella quale l’equilibrio di bilancio è estrapolato «dalle norme che presidiano il processo legislativo ed elevato ad un principio fondamentale che s’impone sempre e comunque come limite ai diritti fondamentali, anche senza l’interposizione del legislatore». Ma questa visione dimentica che i diritti fondamentali – anche quelli sociali di prestazione – non sorgono direttamente limitati dalle esigenze finanziarie, se non per effetto delle scelte compiute dal legislatore, cui è affidato il compito di operare le opportune graduazioni imposte dalla limitatezza delle risorse disponibili. E dimentica che, quanto più scarse sono le risorse disponibili, tanto più stringente dovrà essere il controllo costituzionale sulla loro destinazione, essendo la Corte chiamata a verificare la coerenza (e, dunque, la ragionevolezza) delle scelte del legislatore rispetto ai principi della Costituzione16.
Assumere, invece, il principio del pareggio di bilancio come vincolo a priori che l’art. 81 impone direttamente al giudice costituzionale, consentendogli di modulare gli effetti temporali delle proprie pronunce in deroga all’art. 136 Cost., implica un sostanziale affievolimento della garanzia dei diritti fondamentali e – a ben vedere – una sorta di retrocessione allo status di meri diritti legali o legislativi in particolare dei diritti cd. “costosi” di natura previdenziale17.
Sta dunque in ciò l’importanza della sentenza n. 70/2015: nella riaffermazione dello statuto costituzionale dei diritti sociali – proprio in forza della loro rilevanza abilitante allo svolgimento di una esistenza libera e dignitosa (art. 36, co. 1, Cost., qui in collegamento diretto con il co. 1 dell’art. 3, prima ancora che con il principio di eguaglianza sostanziale di cui al co. 2) –, contro la strisciante tendenza ad una loro decostituzionalizzazione18. Ciò non significa – come pure è stato da più parti argomentato – che la Corte abbia ignorato il vincolo dell’art. 81 Cost., peraltro espressamente richiamato nell’importante passaggio sopra ricordato della motivazione. La Corte ha piuttosto ricollocato il principio dell’equilibrio di bilancio nella giusta prospettiva di un bilanciamento con i valori protetti dagli artt. 3, 36 e 38 Cost., i quali esigono che nelle scelte di graduazione della tutela previdenziale il legislatore non possa mai sottrarsi al rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, a maggior ragione quando è costretto a misure restrittive imposte da eccezionali contingenze economiche e finanziarie. Neppure in tali circostanze i diritti previdenziali possono uscire dal cono di luce dei principi costituzionali, per essere abbandonati a scelte politiche che, in nome dell’emergenza finanziaria, pretendano appunto una sorta di immunità dal (e quasi di sospensione del) controllo sostanziale di legalità costituzionale.
Né tale impostazione comporta – come pure è stato da più parti sostenuto – una indebita intrusione della Corte nella sfera riservata alle libere scelte redistributive del legislatore. La Corte non si intrude, in effetti, nel merito di quelle scelte, limitandosi ad esigere – nel rispetto dei principi affermati dagli artt. 3, 36 e 38 Cost. – che esse si conformino a criteri di ragionevolezza e proporzionalità nella modulazione della garanzia dei diritti previdenziali nel tempo e nel connesso contemperamento con le esigenze di consolidamento delle finanze pubbliche.
Per questo appare corretta anche la scelta di una declatoria piena di illegittimità costituzionale del blocco della perequazione automatica, come previsto dalla norma di legge censurata, in luogo della opzione per una sentenza cd. additiva di principio, pur autorevolmente suggerita da Sabino Cassese19: una tecnica decisoria, questa, che, a ben considerare, avrebbe spinto la Corte dentro quel terreno di concreta graduazione della proporzionalità del meccanismo perequativo, che, invece, deve essere propriamente riservato alle scelte politiche del legislatore.
Nel riaffermare la valenza sostantiva dei principi costituzionali relativi alla garanzia della adeguatezza/proporzionalità nel tempo dei trattamenti pensionistici (quale «espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.»20), la sentenza n. 70 si pone, del resto, in linea di continuità con la pregressa giurisprudenza della Corte in materia. Sicché, anche sotto questo profilo, non sembrano convincenti le critiche di quanti invece hanno ravvisato, sia nel percorso argomentativo sviluppato che nelle conclusioni cui la Corte è pervenuta, una cesura con la giurisprudenza stratificatasi, in particolare, in tema di meccanismi di adeguamento del valore delle pensioni ai mutamenti del costo della vita.
La Corte si è in realtà dimostrata conseguente al monito – rimasto inascoltato – che essa, come già ricordato, ha rivolto al legislatore con la precedente sentenza n. 316/2010, avente ad oggetto un meccanismo di parziale deindicizzazione dei trattamenti pensionistici modulato in termini ben più graduali di quelli introdotti dalla l. n. 214/2011, e, proprio per questo, apparsi, in quell’occasione, coerenti con i parametri costituzionali.
Sotto tale profilo si potrebbe semmai rimproverare alla Corte di essere stata sin troppo prudente, e se si vuole conservatrice, in una linea di fedeltà (finanche eccessiva) alla propria ricostruzione dell’assetto costituzionale del sistema pensionistico, nella interpretazione del combinato disposto degli artt. 36, co. 1, e 38, co. 2, Cost. in collegamento con i principi di solidarietà ed eguaglianza sostanziale.
Va in tal senso sicuramente criticata la tralatizia qualificazione – che la Corte preleva, senza un adeguato vaglio criticosistematico, dalla propria giurisprudenza, pur anche recente, sui trattamenti di quiescenza del pubblico impiego – della pensione come forma di retribuzione differita, come tale ricadente – all’apparenza – direttamente nel raggio applicativo dell’art. 36 Cost.
Si deve invero obiettare che il parametro costituzionale pertinente è qui offerto dal solo secondo co. dell’art. 38 Cost., che certamente incorpora, nel canone della adeguatezza, un elemento di correlazione proporzionale della prestazione previdenziale ai trattamenti retributivi già goduti, per il tramite della contribuzione versata dal soggetto, ma che non può mai attingere lo stesso grado di intensità della proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro svolto, che è richiesta – ma solo sul diverso piano del rapporto contrattuale – dall’art. 3621. Sennonché tale richiamo alla vecchia categorizzazione delle prestazioni pensionistiche, certamente superata da tutta la più recente evoluzione dell’ordinamento, non inficia le conclusioni cui a nostro avviso correttamente perviene la Corte, ed alle quali la stessa sarebbe potuta comunque giungere anche facendo applicazione dei soli artt. 3 e 38, co. 2, Cost.
La sent. n. 70/2015 ci sembra pertanto sostanzialmente coerente nelle motivazioni e giusta nelle conclusioni. E l’impressione è che il grande impatto mediatico che essa ha avuto abbia fatto riaffiorare o acuito ragioni di critica e risentimento che tuttora, anche dopo i reiterati interventi di riforma (dipanatisi, come sappiamo, in un arco di tempo che supera ormai il ventennio), possono essere rivolti al vigente sistema pensionistico, tuttora profondamente iniquo e squilibrato: quasi una sorta di resa dei conti postuma con la generosità delle riforme della fine degli anni Sessanta, ma anche con la più recente riforma Dini, per il troppo lungo periodo transitorio da quest’ultima accordato alla sopravvivenza del criterio di calcolo retributivo delle pensioni. Ma, come è scontato, non è dei perduranti difetti del vigente sistema previdenziale (veri o presunti che essi siano) che la Corte avrebbe potuto farsi carico nel caso di specie; e ciò, neppure prendendo atto delle inedite dinamiche che, in una fase di profondo mutamento politico, appaiono destinate ad incidere sul rapporto tra legge e giurisdizione.
Alla sentenza, piuttosto, è da riconoscere il pregio di aver avvertito il problema e, comunque, di aver richiamato con forza la necessità – che è consustanziale alla logica dello Stato costituzionale – di operare sempre uno scrupoloso, equilibrato bilanciamento tra due obiettivi – quello della sostenibilità economica e quello della sostenibilità sociale – che, in nessun caso, possono essere considerati come obiettivi antagonisti, dovendo essere sempre ragionevolmente contemperati. Resta tuttavia da vedere – e solo il tempo ce lo potrà dire – se una tale impostazione riuscirà a prevalere su quegli orientamenti (pure essi presenti, e forse maggioritari, come visto, nella più recente giurisprudenza della Corte), che, anche in forza degli impegni assunti dalla Repubblica italiana in sede europea, finiscono per assegnare valore prevalente e condizionante al principio dell’equilibrio di bilancio, rischiando così di negare in radice la possibilità di un autentico “bilanciamento” con i diritti sociali di prestazione.
1 C. cost., 11.2.2015, n. 10 e C. cost., 23.7.2015, n. 178. Con la prima pronuncia, come pure noto, la Corte ha sì dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 81, co. 16, 17 e 18, d.l. 25.6.2008, n. 112 (conv. con mod. dall’art. 1, co. 1, l. 6.8.2008, n. 133), per il contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost. della speciale addizionale dell’imposta sul reddito ivi prevista a carico delle società operanti nel settore della produzione e della commercializzazione degli idrocarburi (cd. Robin Tax), ma ha contestualmente derogato, in ragione della necessità di assicurare l’equilibrio del bilancio dello Stato ai sensi dell’art. 81 Cost., alla regola della naturale efficacia retroattiva delle proprie sentenze, facendo espressamente decorrere gli effetti della declaratoria di incostituzionalità dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione nella Gazzetta Ufficiale. E con la seconda – con cui, respinte le diverse questioni sollevate in riferimento, in particolare, agli artt. 3 e 36 Cost., è stata invece dichiarata l’illegittimità costituzionale del regime di sospensione della contrattazione collettiva del pubblico impiego cd. “contrattualizzato”, quale risultante dagli artt. 16, co. 1, lett. b), d.l. 6.7.2011, n. 98 (conv. con mod. dalla l. 15.7.2011, n. 111), 1, co. 453, l. 27.12.2013, n. 147 e 1, co. 254, l. 23.12.2014, n. 190, per contrasto con l’art. 39, co. 1, Cost. – il giudice delle leggi è pure tornato a limitare l’efficacia temporale della declaratoria di incostituzionalità, con formula analoga a quella utilizzata dalla sentenza n. 10/2015, ma in ragione della diversa motivazione che detta illegittimità sarebbe, in casu, soltanto sopravvenuta, a decorrere, appunto, dalla data di pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale.
2 V. solo la recente ricostruzione di D’Onghia, M., Diritti previdenziali e compatibilità economiche nella giurisprudenza costituzionale, Bari, 2013.
3 V., ex multis, soprattutto i commenti – fortemente critici – di Barbera, A., La sentenza relativa al blocco pensionistico: una brutta pagina per la Corte, in Rivista AIC (Associazione Italiana Costituzionalisti), 2015, 2, su www.rivistaaic.it; Morrone, A., Ragionevolezza a rovescio: l’ingiustizia della sentenza n. 70/2015 della Corte costituzionale, in Federalismi, 2015, 10, su www.federalismi.it; nonché – ma con toni generalmente più sfumati – gli interventi apparsi, sempre online in http://www.forumcostituzionale.it, nel Forum di Quaderni costituzionali sulla sentenza n. 70/2015 (rispettivamente di Lieto, S., Trattare in modo diseguale gli eguali? Nota alla sentenza n. 70/2015; Balboni, E., Il Caso Pensioni tra Corte e Governo: da valanga a palombella; Nori, G., La sentenza n. 70/2015 della Corte costituzionale: qualche osservazione; Pepe, G., Necessità di un’adeguata motivazione delle legge restrittivamente incidente nella sfera giuridica dei cittadini? Commento a sentenza Corte cost. n. 70/2015). In prevalenza favorevoli sono stati invece i commenti della dottrina previdenzialistica: cfr., tra gli altri, Sandulli, Pa., La “telenovela” costituzionale della perequazione pensionistica, in Blog Mefop dell’11.5.2015 (leggibile su ww.mefop.it); Cinelli, M., Illegittimo il blocco della indicizzazione delle pensioni: le buone ragioni della Corte, in Riv. dir. sic. soc., 2015, 441 ss.; D’Onghia, M., Sostenibilità economica vs. sostenibilità sociale. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 70/2015, passa dalle parole (i moniti) ai fatti, ivi, 319 ss.; Bozzao, P., L’“adeguatezza retributiva” delle pensioni: meccanismi perequativi e contenimento della spesa nella recente lettura della Corte costituzionale, in Federalismi, 2015, 10, su www.federalismi.it; Prosperetti, G., Alla ricerca di una ratio del sistema pensionistico italiano, in Mass. giur. lav., 2015, 6, 419 ss.; Sgroi, A., La perequazione automatica delle pensioni e i vincoli di bilancio: il legislatore e la Corte costituzionale, in Consulta Online, 2015, II, su www.giurcost.org; Ferrante, V., Incostituzionale il blocco della perequazione delle pensioni, in Dir. rel. ind., 2015, 840 ss. E v. anche, volendo, Giubboni, S., Le pensioni nello Stato costituzionale, in Etica ed Economia – Menabò, 2015, 23, su www.eticaeconomia.it; nonché Cinelli, M. Giubboni, S., Le pensioni nello Stato costituzionale. Note minime sulla sentenza n. 70 della Corte costituzionale e sul decreto-legge n. 65 del 2015, in Nuove Tutele, 2015, 1, 69 ss.
4 Amato, G.Graziosi, A., Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, Bologna, 2013, 107.
5 Così la sentenza della Corte, al punto 5 della motivazione in diritto.
6 Per usare le parole assai dirette ed efficaci di Ferrera, M. Fargion, V. Jessoula, M., Alle radici del welfare all’italiana. Origini e futuro di un modello sociale squilibrato, Venezia, 2012, 331.
7 Cfr. Giubboni, S., Il blocco temporaneo della perequazione automatica, in Cinelli, M.Ferraro, G., a cura di, Lavoro, competitività, welfare. Commentario alle legge 24 dicembre 2007, n. 247 e riforme correlate, Torino, 2008, 663 ss.
8 V., oltre alle pronunce richiamate sopra nel corpo del testo, C. cost., 27.4.1988, n. 497.
9 Così ancora la motivazione in diritto della sent. n. 70/2015, al punto 7.
10 D’Onghia, Sostenibilità economica, cit., 334.
11 Tipico, ma non necessario, impiegando la Corte – sia pure più raramente – anche «il canone di ragionevolezza intrinseca della legge, cioè senza richiamare un tertium comparationis» (Modugno, F., La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Napoli, 2007, 13).
12 E, difatti, il Governo ha subito varato, con il d.l. 21.5.2015, n. 65 (conv. con mod. dall’art. 1 l. 17.7.2015, n. 109), una normativa diretta ad operare in tal senso, recuperando – per il biennio in riferimento – una linea di gradualità (e, in tal senso, all’apparenza, di ragionevole bilanciamento), che risulta chiaramente ispirata alle previsioni della legge di stabilità per il 2014 (l. n. 147/2013), implicitamente giudicate coerenti con i parametri costituzionali dalla stessa sent. n. 70/2015, nel momento in cui le ha assunte a (valido) tertium comparationis nel giudizio sull’(originario) art. 24, co. 5, d.l. n. 101/2011. Nondimeno, la scelta politica di restituire solo parzialmente la rivalutazione spettante in base alla sentenza, escludendo del tutto i trattamenti di importo complessivo superiore a sei volte il minimo Inps, unita a quella di limitare in modo ancor più significativo l’effetto di trascinamento della ridotta perequazione così riconosciuta, è prevedibilmente destinata a riaprire la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte (v. in questa sezione del volume, 4.1.2 Le riforme fra vaglio giudiziario e rilegificazione).
13 Cfr. Cognetti, S., Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011.
14 V. nota 1.
15 Bin, R., Quando i precedenti degradano a citazioni e le regole evaporano in principi, in www.forumcostituzionale.it (dedicato alla sentenza n. 10/2015).
16 Cfr. Carlassare, L., Priorità costituzionali e controllo sulla destinazione delle risorse, in Costituzionalismo.it, 2013, 1 su www.costituzionalismo.it.
17 Cfr. Benvenuti, M., Diritti sociali, in Dig. pubbl., Aggiornamento, Torino, 2012, 219 ss., spec. 272.
18 Cfr. ancora Benvenuti, M., Ancora su diritto europeo e (smantellamento dello) Stato sociale: un accostamento par inadvertance?, in Nomos, 2013, 1, su www.nomosleattualitaneldiritto.it e– si vis – Giubboni, S., I diritti sociali alla prova della crisi: l’Italia nel quadro europeo, in Dir. lav. rel. ind., 2014, 269 ss.
19 V. l’editoriale intitolato La valanga che andava evitata, apparso sul Corriere della Sera del 19.5.2015.
20 Così il passaggio finale della motivazione in diritto della sentenza, al punto 10.
21 Come ben osserva D’Onghia, Diritti previdenziali, cit., 36, «una diretta corrispondenza tra adeguatezza e proporzionalità (alla quantità e qualità del lavoro)» va senz’altro esclusa, in quanto «finirebbe per far trasmodare un interesse esclusivamente individuale (quale quello alla retribuzione) in un interesse a rilevanza pubblica (quello previdenziale)».