politiche per la crescita
Insieme di interventi volti a innalzare, temporaneamente o permanentemente, il tasso di crescita dell’economia. Si distinguono dalle politiche per lo sviluppo, volte ad avviare o stimolare il processo di sviluppo dei Paesi sottosviluppati. Le priorità variano da Paese a Paese e da regione a regione di uno stesso Paese e l’insieme degli interventi prioritari deve essere definito dopo aver identificato quali siano le principali ragioni del divario (negativo) di crescita rispetto a un Paese assunto come benchmark. A questo è mirata l’analisi condotta dall’OCSE nel programma Going for growth.
Di norma, la politica di stabilizzazione (➔) non ha effetti sulla crescita economica di medio e lungo periodo, tuttavia non si deve trascurare che l’instabilità di breve periodo può indurre a comportamenti precauzionali, come l’impiego del risparmio in titoli privi di rischio invece che nel finanziamento di attività produttive, con conseguente rallentamento dell’accumulazione di capitale. Inoltre, le persone disoccupate a lungo possono essere di fatto tagliate fuori dal mercato del lavoro, finendo per ridurre la forza lavoro effettiva necessaria alla crescita, e le recessioni possono portare a distruzione di capacità produttiva, deprezzamento accelerato del capitale e perdita irreversibile di abilità individuali, senza che si creino a sufficienza e con sufficiente rapidità nuova capacità e nuove abilità. Ne segue che le politiche di stabilizzazione, specie a fronte di gravi recessioni, possono contribuire positivamente alla crescita di medio periodo.
Le politiche più efficaci nel medio periodo (3-5 anni) sono quelle volte ad accrescere il tasso di partecipazione alla forza lavoro, favorendo l’impiego delle persone meno giovani (per es., innalzando l’età di pensionamento) e incentivando i lavoratori a bassa specializzazione e che beneficiano di sussidi di disoccupazione ad accettare offerte di lavoro, anche a basso salario e a tempo parziale, consentendo loro il mantenimento dei benefici sociali elargiti in base alla prova dei mezzi. In generale, migliorare il funzionamento del mercato del lavoro, accrescendone la flessibilità sia in entrata sia in uscita e al contempo garantendo ammortizzatori sociali robusti ed equi (➔ flexsecurity), può aiutare ad accrescere l’occupazione. I Paesi del Nord Europa, che hanno adottato la flexsecurity (come Danimarca e Svezia) spendono per le politiche del lavoro da 2 a 4 volte (in quota di PIL) quello che spendono gli USA. Nel medio periodo è anche possibile stimolare l’accumulazione di capitale fisico da parte delle imprese tramite incentivi fiscali, migliorando attraverso la regolamentazione (➔ p) il funzionamento dei mercati finanziari e creditizi, in modo che le imprese possano trovare il giusto tipo di finanziamento (da quello bancario al venture capital, passando per il mercato borsistico), ma anche ampliando il quadro di certezze per gli imprenditori attraverso una lotta sistematica alla corruzione e alla criminalità organizzata.
In un orizzonte temporale più lungo (6-10 anni), mentre il capitale fisico diviene endogeno, si aprono altre possibilità. In particolare, diviene efficace la politica finalizzata ad accrescere il livello del capitale umano (➔), che si sostanzia in aumento della spesa per l’istruzione (quella primaria e secondaria nei Paesi in via di sviluppo, quella avanzata nei Paesi ricchi e in quelli emergenti) e in miglioramento della sua efficacia e della sua efficienza. Di rilievo è anche una politica dell’emigrazione volta ad attrarre i migranti dotati di maggiori abilità lavorative. All’aumento della produttività totale dei fattori (➔ produttività) sono finalizzate le politiche che favoriscono la spesa per ricerca e sviluppo (alla cui efficacia contribuisce anche l’investimento in capitale umano) e quelle volte ad accrescere il grado di concorrenza sui mercati dei beni e dei servizi, riducendo le barriere all’ingresso di nuovi soggetti tramite liberalizzazioni, privatizzazioni e mutamenti degli assetti regolatori. Infine, un contributo, soprattutto per i Paesi più arretrati e con reti infrastrutturali più carenti, viene anche dall’investimento in infrastrutture pubbliche, quelle dedicate alla mobilità fisica come quelle dedicate alla telematica.