Politiche pubbliche
di Giandomenico Majone
Il campo delle politiche pubbliche è vasto e composito, spaziando dalla politica estera alla giustizia, dalla politica monetaria a quella sanitaria; come pure, in senso verticale, dalle politiche dello Stato e degli enti territoriali a quelle dell'Unione Europea e di organismi internazionali come l'Organizzazione Mondiale per il Commercio. Tale complessità e articolazione farebbero ragionevolmente dubitare che sia possibile andare oltre l'analisi di singole politiche, tradizionalmente svolta da economisti, sociologi, giuristi ed altri specialisti dall'angolo visuale delle rispettive discipline. Indubbiamente, la complessità del campo d'indagine è una delle ragioni per cui i politologi hanno cominciato ad occuparsi del processo di policy-making solo in epoca recente. La prima formulazione sistematica di un approccio generale allo studio di tale processo risale infatti a The policy sciences, di Harold Lasswell e Daniel Lerner (v., 1951).Tuttavia, altre ragioni ancora spiegano lo scarso interesse un tempo mostrato dai politologi per i risultati concreti dell'azione di governo. In passato, la scienza politica si è soprattutto interessata alle istituzioni ed ai processi ritenuti essenziali per la legittimità democratica delle decisioni pubbliche: elezioni, partiti politici, rappresentanza degli interessi, rapporti tra i poteri dello Stato, forme di governo. L'idea che anche la sostanza e le conseguenze di tali decisioni sono rilevanti per la legittimità del sistema politico è relativamente recente (v. Lipset, 1960).
Di qui l'attenzione portata oggi agli outputs del sistema politico: le politiche pubbliche, appunto.Conviene, tuttavia, ritornare sulla complessità delle politiche pubbliche come campo d'indagine, per vedere come si è cercato di ridurre tale complessità mediante varie classificazioni analitiche.
Un utile punto di partenza ci è offerto dalla distinzione, introdotta da Musgrave (v., 1959), tra le principali funzioni dello Stato in campo socio-economico: stabilizzazione economica, redistribuzione del reddito, regolazione del mercato. La prima funzione trova espressione nelle politiche fiscali e monetarie, di bilancio e di stimolo alla domanda, come anche nella politica dei redditi. La funzione redistributiva include tutti i trasferimenti di risorse da un gruppo sociale ad un altro, ed inoltre la produzione (o comunque l'offerta), assicurata dallo Stato, dei cosiddetti 'beni meritori' (merit goods), quali l'istruzione pubblica o il servizio sanitario nazionale.Infine, le politiche di regolazione hanno come obiettivo generale la correzione di varie forme di 'fallimento del mercato': situazioni di monopolio, esternalità negative (come l'inquinamento ambientale), informazione asimmetrica (ad esempio, tra produttori e consumatori), offerta sub-ottimale di 'beni pubblici' quali la difesa nazionale o la ricerca di base (v. Stiglitz, 1989). All'interno del campo delle politiche di regolazione, è utile distinguere ulteriormente tra regolazione economica (ad esempio, la legislazione antitrust o la regolazione delle tariffe dei servizi di pubblica utilità) e regolazione sociale (politiche ambientali, protezione dei consumatori, sicurezza dei prodotti, salute e sicurezza nell'ambiente di lavoro).
Il politologo americano Theodore Lowi (v., 1964), partendo da criteri diversi da quelli seguiti dall'economista Musgrave, è pervenuto ad una classificazione abbastanza simile. Egli distingue tra politiche regolative, redistributive e distributive; le prime due categorie coincidono con quelle discusse sopra, mentre la terza si riferisce a situazioni in cui il trasferimento di risorse a favore di un gruppo non avviene a scapito di altri gruppi, come invece nel caso delle politiche definite redistributive. Un esempio classico è la distribuzione di terre disabitate ai primi coloni americani. Ciò che caratterizza le politiche distributive nel senso di Lowi, distinguendole da tutte le altre politiche pubbliche, è il loro carattere non coercitivo - un punto sul quale avremo occasione di tornare in seguito. È importante tener presente che le distinzioni proposte da questi studiosi sono di natura analitica più che descrittiva. In realtà, qualsiasi concreta politica utilizza strumenti e produce effetti di varia natura. Ad esempio, una politica regolativa generalmente favorisce alcuni gruppi più di altri e ha pertanto effetti redistributivi più o meno importanti, così come le politiche redistributive presentano spesso aspetti regolativi.
Come tutte le classificazioni, anche quelle discusse qui vanno usate con cautela, e tuttavia la loro utilità non può essere negata. Ad esempio - anticipando un concetto che useremo a proposito delle politiche europee - una caratteristica strutturale delle politiche di regolazione è la scarsa incidenza dei vincoli di bilancio. Infatti, mentre l'attuazione della maggior parte delle altre politiche pubbliche richiede l'impiego di risorse, spesso notevoli, che devono essere iscritte nel bilancio pubblico, la produzione di norme e regolamenti ha un costo trascurabile per i regolatori: il costo implicito delle politiche regolative è sostenuto da industrie, enti territoriali o famiglie oggetto della regolazione. Di qui la possibilità di una crescita incontrollata, perché non sottoposta alla disciplina del bilancio pubblico, dell'attività di regolazione.Un'altra serie di distinzioni riguarda non tanto la natura delle politiche, quanto le fasi del processo decisionale. Uno schema spesso usato dagli analisti distingue le seguenti fasi: definizione della 'agenda'; identificazione del problema; analisi delle soluzioni alternative; decisione; attuazione; valutazione dei risultati; riformulazione della politica. È appena il caso di osservare come tale schema corrisponda ad una visione 'sinottica' e iper-razionalista del processo di policy-making. Ad esempio, una netta distinzione tra la formulazione e l'attuazione di una politica presuppone che le decisioni vengano prese in condizioni di certezza e di informazione completa.
In realtà, inizialmente i decisori conoscono solo una piccola parte dei vincoli che si manifesteranno nella fase di attuazione. Obiettivi e strumenti andranno quindi continuamente rivisti alla luce delle nuove informazioni via via acquisite, e pertanto la distinzione tra formulazione ed attuazione è, sia concettualmente che praticamente, dubbia. Le fasi del processo di policy-making vanno concepite non come sequenza logica, ma in senso evolutivo (v. Majone e Wildavsky, 1978).Nonostante tali critiche, è difficile negare che lo schema esposto sopra abbia una certa utilità euristica. Inoltre, una buona parte della stessa letteratura sulle politiche pubbliche può essere classificata secondo tale schema. Basti pensare ai classici studi di Pressman e Wildavsky (v., 1973²) sull'implementazione, o di Kingdon (v., 1984) sulla formazione dell'agenda. Queste e simili opere monografiche, come anche molti case studies, hanno dato importanti contributi alla comprensione del processo di policy-making in tutta la sua complessità, ma non pretendono di offrire una spiegazione causale di tale processo. Per trovare tentativi di spiegazione di questo tipo occorre prendere in considerazione altri filoni di ricerca.
È merito dei primi teorici del neopluralismo (termine adottato per distinguere questa corrente di pensiero dalla filosofia pluralistica classica di James Madison e di altri federalisti) l'aver condotto la scienza politica a riconoscere il ruolo degli interessi nella formazione delle politiche pubbliche. Il programma di ricerca dei neopluralisti è riassunto da una frase di Arthur Bentley: "Quando i gruppi [di interesse] sono analizzati in modo adeguato, tutto è spiegato" (v. Bentley, 1967, p. 208). Ne segue che, per i neopluralisti, non esiste un interesse generale che le politiche pubbliche dovrebbero perseguire. Inoltre, una determinata politica pubblica rappresenta un punto di equilibrio tra le pressioni esercitate dai gruppi concorrenti. Le decisioni del parlamento o del governo non fanno altro che riflettere e ratificare tale equilibrio. Bentley, Truman (v., 1951) e gli altri neopluralisti non negano che a volte partiti politici o gruppi di burocrati possano svolgere un ruolo indipendente, ma solo come gruppi di interesse in lotta con altri. In generale, tuttavia, gli attori principali nel processo di policy-making sono, in questo modello, i gruppi economici. Questi si organizzano in funzione di obiettivi molto particolari, e la loro capacità di mobilitare i propri membri su specifiche questioni spiega l'enorme influenza di tali gruppi privati sulle politiche pubbliche.Il modello neopluralista non spiega come l'equilibrio tra i gruppi venga raggiunto, né l'esatta natura di tale equilibrio, ma la direzione causale è chiara: i gruppi d'interesse sono il vero motore del processo di policy-making, mentre le istituzioni ed i poteri pubblici avrebbero un ruolo meramente passivo.
Naturalmente i neopluralisti si rendevano conto che i gruppi non sono tutti ugualmente potenti e che, pertanto, le possibilità di influenzare le politiche pubbliche sono distribuite in modo ineguale. Tuttavia, essi sostenevano che i gruppi più attivi hanno la possibilità, prima o poi, di far sentire la loro voce. In tal modo, il modello - da spiegazione causale quale voleva essere inizialmente - si era trasformato, verso la fine degli anni cinquanta, in una teoria normativa.Questa visione ottimistica della concorrenza fra gruppi d'interesse doveva subire un duro colpo dalla dimostrazione, ad opera di Mancur Olson (v., 1965), che la comunanza di interessi è condizione necessaria ma non sufficiente per la formazione di gruppi in grado di influenzare il processo di policy-making. Poiché gli individui che perseguono il loro interesse privato sono riluttanti a contribuire volontariamente al finanziamento di beni pubblici (problema del free rider), molti gruppi 'latenti' non riescono ad organizzarsi stabilmente. La 'logica dell'azione collettiva' di Olson spiega anche perché, dovendo scegliere tra politiche volte ad aumentare l'efficienza del sistema economico e politiche redistributive, i gruppi d'interesse preferiscono le seconde: tali politiche appaiono ad essi preferibili in quanto aumentano la loro probabilità di ottenere una quota maggiore del prodotto nazionale, pur se tale prodotto risulta in realtà inferiore a quello ottenibile con politiche del primo tipo.Questo corollario della teoria di Olson, secondo cui tutte le politiche pubbliche sono riducibili a forme più o meno mascherate di redistribuzione a favore dei gruppi meglio organizzati, costituisce il punto di partenza del modello della public choice, specialmente nella versione della Scuola di Chicago.
La prima esposizione rigorosa di tale modello si trova in un articolo di George Stigler su La teoria della regolazione economica (1971). Con questo lavoro, Stigler intendeva porre i fondamenti analitici di una teoria 'positiva' della politica, intesa come lotta fra i gruppi d'interesse per il controllo del processo di policy-making. Partendo dall'ipotesi che tutti gli attori, privati e pubblici, perseguono esclusivamente il loro interesse, la teoria intende spiegare i meccanismi causali attraverso i quali le preferenze dei gruppi meglio organizzati determinano le scelte pubbliche. Come già osservato, la mancanza di una vera spiegazione causale costituisce uno dei principali punti di debolezza del modello neopluralista.Secondo Stigler, l'obiettivo dei politici è massimizzare la probabilità di vincere le elezioni; tutto il resto, comprese le loro preferenze ideologiche, è secondario e accessorio. Pertanto, ai politici conviene far proprie le preferenze dei gruppi d'interesse più forti, diventandone la cinghia di trasmissione nel processo di policy-making. Se è vero che i regolatori hanno autonomia formale e motivazioni diverse, essi sono nondimeno sotto il controllo dei politici e dovranno pertanto assecondarne le preferenze 'derivate'. Abbiamo così una catena di influenze che va dai gruppi d'interesse ai regolatori, passando per i politici; e poiché si suppone che tale sistema di controlli funzioni perfettamente, ne segue che l'intero apparato politico-amministrativo può essere trattato come una 'scatola nera', che da determinati inputs produce esiti prevedibili. Lo scarso interesse di Stigler (come di tutta la Scuola di Chicago) per le istituzioni politiche e amministrative è dovuto al fatto che, per questi studiosi, solo i gruppi d'interesse e le risorse a loro disposizione contano realmente.
Tali gruppi sanno quali assetti istituzionali sono più favorevoli ai loro interessi, cioè offrono la massima probabilità di produrre le politiche pubbliche desiderate, e pertanto finiranno coll'imporre gli assetti desiderati. In altre parole, in questo modello le istituzioni sono endogene, almeno nel lungo periodo.Tuttavia, le teorie fondate sugli interessi come unica 'variabile indipendente' non possono spiegare la relativa stabilità delle istituzioni, come anche di molte politiche pubbliche: tale stabilità mal si concilia con i continui cambiamenti nella configurazione degli interessi dominanti. Il modello neoistituzionalista prende le mosse da tale critica. Parlando di neoistituzionalismo, ci si riferisce ad una scuola di pensiero che, a differenza del vecchio funzionalismo della scuola storica tedesca, o, soprattutto, di autori come Veblen e Commons, cerca di dare una spiegazione teorica, fondata sui principî dell'individualismo metodologico, dell'origine di particolari istituzioni economiche, giuridiche o politiche (v. Williamson, 1985). Ora, le istituzioni - intese sia come organizzazioni formali che come 'regole del gioco' e principî di condotta - costituiscono dei vincoli, non facilmente modificabili, per tutti i partecipanti al processo di policy-making. Pertanto, la struttura istituzionale risponde solo parzialmente, e con ritardo, ai cambiamenti nella configurazione degli interessi. Tale inerzia spiegherebbe allora la relativa stabilità delle politiche pubbliche e la relativa autonomia delle istituzioni stesse (v. Hall, 1986).
Anche il modello neoistituzionalista vede negli interessi economici il motore del processo di policy-making, ma spiega in modo diverso la relazione tra interessi e politiche pubbliche. Ad esempio, laddove il modello della public choice postula una relazione monocausale, i neoistituzionalisti insistono sulla reciprocità dei condizionamenti: se è vero che gli interessi economici (o d'altra natura) influiscono sulla politica, è altrettanto vero che le istituzioni politiche, in quanto vincoli, influiscono sugli interessi, contribuendo in tal modo a trasformare le stesse forze che condizionano lo sviluppo delle politiche pubbliche. Pertanto, sostenere che queste ultime riflettono gli interessi economici sottostanti equivale a rappresentare il processo causale in modo incompleto, e perciò distorto. Con altrettanta giustificazione si potrebbe asserire che gli interessi economici sono condizionati dai processi politici 'sottostanti'. In realtà si tratta, appunto, di rapporti di reciproca influenza (v. Moe, 1987).
Riconoscendo un ruolo autonomo non solo alle istituzioni, ma anche alle idee ed ai principî, senza tuttavia abbandonare le premesse dell'individualismo metodologico e della razionalità limitata, il modello neoistituzionalista permette di reintrodurre concetti normativi, quali l'efficienza (nel senso di Pareto) e l'interesse generale, che i precedenti modelli avevano voluto bandire dall'analisi delle politiche pubbliche. Per questa ragione, il neoistituzionalismo è in grado di fornire un utile sostegno teorico ai tentativi più recenti di rivalutare gli aspetti discorsivi del processo di policy-making.
La democrazia è stata definita come una forma di governo in cui le politiche pubbliche vengono decise dopo un dibattito cui partecipano, con ruoli diversi ma tra loro collegati, cittadini, legislatori, esperti, amministratori, partiti politici, associazioni. È il modello di 'government by discussion' dei liberali inglesi da John Stuart Mill e Walter Bagehot a lord Lindsay ed Ernest Barker. Si tratta, ovviamente, di un modello idealizzato, che trascura conflitti di interesse e rapporti di forza, e che perciò è stato ferocemente criticato dai neopluralisti, ma che tuttavia coglie aspetti importanti della dialettica democratica e della dinamica delle politiche pubbliche (v. Majone, 1989).
La letteratura sul ruolo delle idee e dell'argomentazione nel processo di policy-making è abbondante ed in costante crescita (v. Kingdon, 1984; v. Hall, 1989; v. Haas, 1990; v. Dryzek, 1990; v. Goldstein e Keohane, 1994, per citare solo alcune delle opere più note). Il dibattito è ormai andato ben oltre la semplice affermazione che "anche le idee contano". Due questioni, soprattutto, attirano ora l'attenzione degli studiosi: a) in quali situazioni le idee e l'argomentazione possono influenzare le scelte politiche; e b) in quali modi, attraverso quali meccanismi, si esercita tale influenza. Riguardo alla prima questione, esistono ragioni teoriche e dati empirici per affermare che il ruolo dei fattori conoscitivi è maggiore nel caso di politiche dirette a migliorare l'efficienza del sistema che in quello di politiche di pura redistribuzione (v. Majone, 1993). Infatti, in una democrazia, la decisione di redistribuire risorse da un gruppo sociale ad un altro può essere presa solo a maggioranza, in quanto si deve presumere che il gruppo perdente si opporrebbe.
Ciò che in questo caso conta, pertanto, sono i rapporti numerici e di forza tra i vari gruppi, mentre la discussione è impotente a modificare il carattere di 'gioco a somma zero' di molte politiche redistributive. Aumentando, invece, l'efficienza del sistema, si produce un surplus da ripartire fra tutti i membri della collettività, o almeno tale che nessun membro si trovi in situazione peggiore rispetto allo statu quo: si realizza così un ottimo paretiano. Decisioni collettive di questo tipo corrispondono a 'giochi a somma positiva', e la regola di decisione ottimale, in teoria, è l'unanimità (v. Mueller, 1989).In pratica, poiché la regola dell'unanimità è di difficile applicazione in una comunità numerosa, si ricorre spesso a soluzioni di 'seconda scelta', ad esempio delegando l'elaborazione di politiche di efficienza ad organismi - quali le autorità amministrative indipendenti - sottratti all'influenza di maggioranze mutevoli. Anche certi fenomeni degli anni ottanta, quali il dibattito internazionale sul ruolo dello Stato nell'economia, il crescente favore popolare per politiche di privatizzazione e di deregulation, il rifiorire della policy analysis e la moltiplicazione dei centri di ricerca sulle politiche pubbliche, possono essere messi in relazione con le preoccupazioni sempre più diffuse per le perdite di efficienza del Welfare State, e con lo sforzo di riorientare le politiche pubbliche nel senso appunto di una maggiore efficienza allocativa.
Quanto alla seconda questione fondamentale, richiamata più sopra, tre modi o meccanismi di influenza dei fattori conoscitivi e discorsivi sul processo di policy-making hanno ricevuto particolare attenzione nella letteratura. In primo luogo, l'argomentazione serve a legittimare e razionalizzare le politiche pubbliche, se non addirittura a ricostruirle concettualmente, partendo da un insieme di decisioni e programmi più o meno slegati tra loro. Quest'opera di legittimazione e razionalizzazione presuppone l'esistenza di un ricco stock di idee elaborate in precedenza, spesso per altri scopi (v. Kingdon, 1984; v. Majone, 1989; v. Krasner, 1994). In secondo luogo, le idee possono servire a istituzionalizzare una politica. Ad esempio, Herbert Stein (v., 1984, p. 39) ha giustamente osservato come "senza Keynes e specialmente senza l'interpretazione dei suoi seguaci, il finanziamento in deficit non sarebbe mai diventato una politica pubblica, ma sarebbe rimasto una occasionale misura d'emergenza". Infine, il dibattito pubblico serve, per così dire, ad estendere il processo di policy-making, così come l'argomentazione del giudice, espressa nella motivazione della sentenza, estende il processo giudiziario offrendo alle parti la possibilità di mosse successive, come il ricorso in appello (v. Majone, 1989). In termini di teoria dei giochi, estendere il processo equivale a trasformare un gioco che si esaurirebbe in una singola mossa in un gioco ripetuto più volte. Si tratta di una trasformazione molto importante, in quanto permette di determinare soluzioni efficienti per giochi, come il 'dilemma del prigioniero', che non ammettono soluzioni soddisfacenti se giocati una sola volta (v. Ordeshook, 1992).
Come indicheremo nel prossimo capitolo, la teoria dei giochi ripetuti si è rivelata utile anche per analizzare la questione della credibilità delle politiche pubbliche, cioè un aspetto del policy-making al quale i politologi avevano dedicato poca attenzione, ma la cui importanza è aumentata al crescere dell'interdipendenza tra i diversi sistemi nazionali.
Anche la questione della credibilità delle politiche pubbliche, come quella della loro efficienza, è emersa con forza a partire dalla fine degli anni settanta. La prima formulazione analitica è stata avanzata da due economisti nel contesto del dibattito tra fautori della discrezionalità ovvero delle regole fisse per la politica monetaria (v. Kydland e Prescott, 1977). Secondo questi studiosi, il problema centrale di tale politica è la sua credibilità: regole fisse sono preferibili perché ne aumentano la credibilità, mentre la discrezionalità è alla radice del fenomeno della 'inconsistenza temporale'. Si ha inconsistenza temporale quando una politica ritenuta ottimale al tempo to non appare più tale al tempo tn. In questo caso, il policy-maker è indotto a usare i suoi poteri discrezionali per cambiare politica.
Tale cambiamento potrebbe essere considerato un aggiustamento razionale rispetto alla nuova situazione; ma se, come spesso avviene, gli operatori economici sono in grado di anticiparlo, essi modificheranno i loro comportamenti in modo tale da vanificare l'obiettivo della politica monetaria.È ovvio che il fenomeno dell'inconsistenza temporale non interessa solo la politica monetaria. Poiché in democrazia una legislatura non può vincolare quella successiva, ed una coalizione di governo non può assumere impegni per i governi futuri, tutte le politiche pubbliche corrono il rischio di risultare temporalmente inconsistenti. In mancanza di un impegno credibile dei governi a seguire con coerenza una certa linea, la credibilità stessa delle politiche ne risulta compromessa.
Perché allora tale problema è stato trascurato per tanto tempo dai politologi? Forse la ragione principale deve cercarsi nell'importanza tradizionalmente attribuita al potere coercitivo dello Stato. Tra i politologi contemporanei, Theodore Lowi (v., 1964 e 1979²) ha particolarmente insistito, in polemica con i neopluralisti, sull'uso legittimo della coercizione come caratteristica essenziale delle politiche pubbliche; ed è certamente vero che nel passato la scarsa credibilità di una politica pubblica poteva essere compensata, entro certi limiti, da un maggior ricorso a strumenti coercitivi. Oggi, tuttavia, il trade-off tra coercizione e credibilità è decisamente cambiato. Una conseguenza importante della crescente interdipendenza tra gli Stati è che le politiche nazionali vengono ormai valutate secondo parametri fissati a livello internazionale (si pensi ai parametri del Trattato di Maastricht per l'unione monetaria europea), mentre l'applicazione di strumenti coercitivi è possibile solo entro i confini nazionali. L'efficacia di tali strumenti è ulteriormente compromessa dalla crescente complessità dei problemi da risolvere. Ad esempio, il successo delle politiche ambientali dipende dalla loro capacità di modificare aspettative e comportamenti di milioni di cittadini e migliaia di imprese ed enti territoriali. Ora, aspettative e comportamenti non possono essere modificati in misura significativa mediante i tradizionali strumenti di 'command and control', ma soltanto se gli obiettivi ed i mezzi dell'intervento pubblico appaiono realistici e coerenti, quindi credibili, agli interessati.
L'importanza crescente del problema della credibilità delle politiche pubbliche spiega l'attuale tendenza a delegare importanti poteri di policy-making ad istituzioni indipendenti come banche centrali ed agenzie di regolazione (v. Majone, 1994). La delega di tali poteri ad una istituzione distinta dal governo dev'essere intesa, infatti, come un mezzo mediante il quale i governi stessi cercano di impegnarsi a seguire certe politiche, che non sarebbero credibili in mancanza di tale delega. L'istituzione di centri indipendenti di policy-making, se da un lato contribuisce a risolvere il problema della credibilità, dall'altro dà origine a nuovi problemi, con i quali gli studiosi di politiche pubbliche dovranno sempre più confrontarsi. Problemi come quelli del coordinamento, del controllo politico, ed anche quello della 'reputazione' di una molteplicità di policy-makers più o meno indipendenti, rientrano nell'ambito del modello generale dei rapporti tra un 'principale' (parlamento o governo, nel nostro caso) ed i suoi agenti (ad esempio, agenzie di regolazione). Come già accennato, questioni di questo tipo sono state affrontate con un certo successo mediante la teoria dei giochi ripetuti (v. Hargreaves Heap e Varoufakis, 1995).
Alla luce della precedente discussione, anche l'ampia delega di poteri alle istituzioni europee da parte degli Stati membri intuitivamente appare in qualche modo collegata al problema della credibilità. L'intuizione, in effetti, è corretta; ma prima di darne una spiegazione teorica, conviene osservare come sia oggi difficile, se non impossibile, studiare le politiche nazionali indipendentemente dal contesto europeo. D'altra parte, l'influenza delle politiche della Unione Europea sui policy-makers nazionali è tutt'altro che uniforme. La politica estera e quella di difesa, ad esempio, restano in larga misura nell'ambito della sovranità nazionale. Le limitate misure di coordinamento di tali politiche sono di carattere intergovernativo, e non rientrano pertanto nelle competenze degli organi sovranazionali - Commissione Europea e Corte Europea di Giustizia. Ma nemmeno le politiche sociali di tipo tradizionale - cioè prevalentemente redistributive - sono state influenzate in modo significativo dalla legislazione europea.
D'altra parte, le politiche di regolazione - dalla tutela della concorrenza alla difesa dei consumatori, dalla protezione dell'ambiente naturale alle misure di igiene e sicurezza nell'ambiente di lavoro - hanno in larga misura perso le loro caratteristiche nazionali per diventare politiche europee, pur se attuate dalle amministrazioni nazionali. Per capire i rapporti tra politiche nazionali e politiche europee è pertanto necessario, in primo luogo, capire perché queste ultime si siano sviluppate in modo così ineguale. Concetti già introdotti nei capitoli precedenti permettono di offrire una spiegazione alquanto semplice della prevalenza delle politiche regolative nell'ambito delle politiche europee.In primo luogo, bisogna osservare che le risorse finanziarie dell'Unione Europea sono estremamente limitate. Il bilancio a disposizione delle autorità di Bruxelles rappresenta poco più dell'1% del prodotto interno lordo dell'Unione, e meno del 4% della spesa complessiva dei governi centrali degli Stati membri (per avere un termine di confronto, si osservi che lo Stato italiano spende attualmente più del 50% del prodotto nazionale). Ora, è legittimo supporre che l'obiettivo della Commissione, in quanto organizzazione sovranazionale, sia di accrescere la propria influenza sugli Stati membri. A tale scopo, essa dovrebbe poter proporre nuove politiche, o l'ulteriore sviluppo di politiche che già rientrano nelle sue competenze. Ma, data la limitatezza delle risorse disponibili, quali politiche permetteranno di massimizzare l'obiettivo? La risposta è già anticipata nel primo capitolo. Si ricordi che le politiche regolative sono poco condizionate dal vincolo di bilancio, in quanto i costi che ne derivano sono sostenuti dalle imprese, dagli enti e dagli individui regolati. È indubbio, d'altra parte, che tali politiche incidono molto profondamente sul sistema politico-amministrativo e sulla stessa vita economica dei paesi membri.
Pertanto, la regolazione rappresenta una soluzione ottimale dal punto di vista della Commissione, in quanto assicura la massima influenza al minimo costo, date le risorse a disposizione.Tuttavia, la Commissione propone - ma il Consiglio dispone; ed il Consiglio dei ministri, che ha la facoltà di approvare o respingere le proposte legislative della Commissione, è l'organo comunitario dove gli interessi dei paesi membri sono istituzionalmente rappresentati. Se l'obiettivo della Commissione è di accrescere la propria influenza sovranazionale, quello del Consiglio è di proteggere la sovranità e l'autonomia decisionale degli Stati. Come spiegare l'accordo di entrambe le istituzioni sulle politiche europee di regolazione? È certamente vero che la stessa esistenza di un grande mercato europeo richiede numerosi interventi regolativi al fine di correggerne gli inevitabili 'fallimenti'. È però altrettanto vero che, in teoria, molti interventi potrebbero essere realizzati sulla base di accordi intergovernativi, così da evitare la delega di poteri alla Commissione. La difficoltà di tale soluzione deriva dall'alto grado di discrezionalità che deve essere concesso ai regolatori nazionali e, allo stesso tempo, dalla impossibilità pratica (in mancanza di un organo sovranazionale di controllo) di verificare l'uso corretto di tale discrezionalità. Ora, se è difficile determinare in quale misura i governi nazionali si sforzino di applicare obiettivamente un accordo intergovernativo, l'accordo stesso è poco credibile. Esso diventa credibile solo se i governi sono disposti a delegare poteri di controllo e di monitoraggio ad una istituzione super partes, quale è appunto la Commissione Europea.
Questa spiegazione è corroborata dal fatto - non sufficientemente percepito dall'opinione pubblica e dagli stessi uomini politici - che la grande maggioranza delle direttive e dei regolamenti europei non è il frutto di iniziative autonome della Commissione, ma è sollecitata dalle domande provenienti dai singoli Stati membri, dal Consiglio Europeo e dal Consiglio dei ministri (v. Majone, 1995).
Lo scopo di queste brevi considerazioni sull'importanza assunta dalle politiche di regolazione nell'ambito europeo è duplice. Da un lato si sono volute indicare le grandi linee di una divisione di compiti tra policy-makers nazionali ed europei. Dall'altro si è cercato di dimostrare concretamente come l'analisi delle politiche pubbliche, siano esse nazionali o europee, tenda sempre più ad avvalersi degli stessi schemi concettuali.
(V. anche Politica economica e finanziaria).
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