Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Novecento il problema della “razza” e della conservazione della sua purezza entra nelle piattaforme ideologiche di alcuni movimenti politici e in molti Paesi vengono approvate politiche di selezione e di discriminazione razziale. A livello mondiale si diffonde l’eugenica, una nuova dottrina che si colloca a metà strada tra le riflessioni degli scienziati e le politiche pubbliche volte a risanare la razza, mentre politiche eugenetiche sono adottate in vari contesti nazionali.
È perlopiù nel corso della prima metà del Novecento che le dottrine sull’esistenza e sulla natura delle “razze” umane abbandonano il piano della speculazione teorica per tradursi in uno strumento a servizio di terribili disegni politici. La necessità di preservare l’identità “razziale” a scapito di minoranze di “alieni” o “inferiori”, infatti, diventa, in alcuni contesti, un efficace tema di mobilitazione politica delle masse. Sempre in quest’epoca, inoltre, si immaginano e si adottano in molti Paesi variegati strumenti di intervento pubblico nella sfera biologica e riproduttiva, con il pretesto di tutelare l’“efficienza razziale” dei singoli e della collettività.
Il successo della categoria della “razza” affonda le sue radici nel clima intellettuale del secondo Ottocento. È allora che gli entusiasmi positivisti assegnano alla scienza e al metodo scientifico un primato indiscutibile quale strumento di comprensione della realtà naturale e sociale. È soprattutto la straordinaria diffusione popolare delle teorie di Darwin (1809-1882) che fornisce un grande impulso alla tendenza a interpretare la società umana alla luce di categorie biologiche quali la razza, l’evoluzione, l’eredità, l’ambiente, la prolificità e l’adattamento. Un cugino di Darwin, Francis Galton (1822-1911), conia nel 1883 il termine eugenics per indicare la nuova scienza delle “buone nascite”. Questa dovrebbe applicare le conoscenze in materia di trasmissione ereditaria alla “selezione artificiale” della specie-uomo. La riscoperta delle leggi di Mendel (1900) e la nascita della genetica contribuiscono al successo delle idee di Galton.
Su un piano più generale, il successo delle “scienze della razza” si spiega con le imponenti trasformazioni che investono le società occidentali nei decenni successivi alla seconda rivoluzione industriale. La lotta per l’esistenza tra le “razze” umane pare, infatti, concretizzarsi nelle ondate migratorie che spostano grandi masse di uomini dalle campagne alle città e da una città all’altra, attraversando frontiere e oceani e innescando conflitti e tensioni. Per non parlare, poi, dell’espansione coloniale degli Stati, che abitua le opinioni pubbliche a ragionare in termini di “superiorità” o “inferiorità” dei gruppi umani.
Il successo politico delle ideologie nazionaliste assume in alcuni contesti marcate tinte razziste, specie nel complesso mosaico etnico dell’Europa centro-orientale. Qui, infatti, la retorica del sangue e della discendenza si rivela particolarmente adatta a fondare la mitologia nazionale di popoli da secoli privi di un proprio Stato.
I pregiudizi e la discriminazione politica e sociale, di cui una lunga tradizione fa oggetto una minoranza religiosa come quella ebraica, non tardano a tradursi nel linguaggio di una scienza che si dice moderna. Si inventa, così, una razza “semitica” e un termine – “antisemitismo” – il cui lugubre successo si riflette nei dizionari delle più diverse lingue europee.
Le guerre, poi, prima fra tutte la devastante carneficina del 1915-1918, sono dipinte in molta pubblicistica come epico scontro fra “razze” e supremo banco di prova per l’efficienza biologica delle nazioni. Anche sul piano dei conflitti sociali interni la biologia razziale fornisce un valido strumento di interpretazione per tutta una serie di fenomeni innescati dalla modernizzazione. La mobilità sociale e lo scontro di classe, l’indigenza, la criminalità, il vagabondaggio, ad esempio, possono essere letti alla luce della diversa “qualità” biologica degli stock genetici che compongono una nazione. Una chiave di lettura di tipo biologico è spesso impiegata per interpretare la trasformazione dei ruoli sessuali: in quest’ottica la “funzione materna” della donna, custode dei valori profondi della specie, assume un ruolo cruciale.
Anche gli effetti della “transizione demografica” – il drastico abbassamento, nei Paesi industrializzati, dei tassi di mortalità, prima, e di quelli di natalità, poi – pongono alle società europee inquietanti interrogativi sulla propria “vitalità” biologica. Per risolverli, si iniziano ad auspicare interventi politici in una sfera, quella delle scelte familiari e riproduttive, tradizionalmente considerata intangibile dallo Stato e dalla sua autorità.
A ciò contribuiscono gli orientamenti della scienza medica che, sull’onda dei successi dell’epidemiologia e dello sviluppo delle politiche sanitarie pubbliche, si abitua a ragionare nei termini di una nuova medicina “sociale”. La salute della società collettivamente considerata, diventa, cioè, l’obiettivo principale e si verifica uno spostamento di prospettiva dalla cura dei malati alla prevenzione delle malattie. L’estrema conseguenza è che, in nome della salute pubblica, la legge dello Stato possa essere invocata per vietare a un cittadino malato di sposarsi e fare figli. A ciò si aggiunge il fatto che l’assistenza ai cosiddetti “incurabili” – etichettati come “non-valori” o persino “esistenze zavorra” – in quest’ottica inumana appare uno spreco di pubblico denaro, ben più razionalmente impiegato nella prevenzione delle malattie per la parte sana e abile della popolazione.
Naturalmente la fortuna delle idee razziste ed eugenetiche non è universale e già all’epoca vi è chi condanna un socio-biologismo percepito come riduttivo e disumano. Nonostante ciò, è una fortuna destinata a crescere e in grado di valicare le frontiere. Un Congresso Internazionale di Eugenetica è convocato a Londra nel 1912 proprio con l’intento di riunire gli esperti di scienza dell’eredità e biologia delle razze. Vi partecipano oltre 700 fra antropologi, biologi, medici, psichiatri, statistici e demografi europei e americani. L’incontro londinese è l’occasione per la formazione di nuove società nazionali di eugenica che si affiancano a quelle già esistenti (la britannica Eugenics Education Society, l’americana American Eugenics Society, la tedesca Gesellschaft für Rassenhygiene, ad esempio).
Ci si può trovare in sintonia con le proposte degli esperti di biologia razziale sia da una prospettiva ideologica di destra che da una di sinistra. La sinistra, che è sempre più in Europa una sinistra socialista e socialdemocratica, può apprezzare il linguaggio antidogmatico, razionale e progressista di una “scienza” che si propone come valida collaboratrice per la costruzione di una società migliore. La destra, inizialmente nella versione liberal-conservatrice, poi soprattutto nella versione nazional-populista dei nuovi movimenti che si affermano dopo la Grande Guerra, apprezza la suggestione della comunità di sangue fra le generazioni e la concezione gerarchica e competitiva dei rapporti fra le classi e le nazioni.
Destra e sinistra insieme, poi, finiscono per condividere una visione pessimistica della società contemporanea di cui fa parte integrante il timore di una degenerazione biologica dell’umanità. Il progresso, infatti, presenta ormai, nel XX secolo il volto minaccioso dell’urbanizzazione alienante, della distruzione del paesaggio, della perdita dei “valori”. Sia la destra che la sinistra sono sensibili, dunque, all’idea che si possa e si debba intervenire per “rigenerare” un’umanità corrotta. Sia a destra che a sinistra, inoltre, si è sempre più convinti che alla crisi dell’individualismo liberale si debba rispondere con una nuova concezione del rapporto Stato-individuo fondata sui grandi miti “collettivi” della nazione e della classe e tradotta in un più marcato dirigismo statale. Anche, perché no, nel settore della vita familiare e sessuale.
La prima guerra mondiale costituisce per i processi sopra indicati un potente fattore di accelerazione. Il sanguinoso scontro fra le nazioni accentua la tendenza a dipingere il nemico con i tratti antropologici di una “razza” fatalmente ostile. Non solo il nemico esterno ma anche quello “interno”, accusato di corrodere la compattezza della nazione in guerra. Gli anni Venti e Trenta, non a caso, vedono il trionfo dell’antisemitismo politico: gli ebrei sono un facile obiettivo per chi è alla ricerca di colpevoli cui attribuire sconfitte ignominiose, rivoluzioni sanguinose e crisi economiche devastanti.
La guerra è anche un disastro sanitario di proporzioni tali da porre agli Stati usciti dal conflitto un imperativo categorico: “rigenerare” la razza.
Un secondo congresso internazionale di Eugenetica si svolge a New York nel 1921: vi partecipano ben 17 delegazioni nazionali, provenienti dall’Europa ma anche dal continente latino-americano, oltre che da Paesi esotici come India, Giappone, Siam.
È in questi anni che le politiche eugenetiche e razziali entrano a pieno titolo nell’agenda dei responsabili delle politiche pubbliche.
Il “pacchetto” delle misure proposte dagli eugenisti, per la verità, è piuttosto articolato. Una distinzione classica è quella tra eugenetica “positiva” e “negativa”. La prima vorrebbe favorire la riproduzione, nella popolazione, degli individui ritenuti “superiori” dal punto di vista biologico; la seconda impedire, invece, la riproduzione di quelli “inferiori”.
Le politiche eugenetiche “positive” vengono sempre più identificate con quelle misure di carattere sanitario e assistenziale volte a tutelare la generalità della popolazione, o alcune sue componenti strategiche per il discorso eugenetico come le donne e i bambini. Anche le politiche demografiche di sostegno alla natalità, assai popolari negli anni Venti e Trenta in molti Paesi, possono essere e vengono, di fatto, considerate una misura di eugenetica positiva, volta a stimolare la vitalità del corpo nazionale.
Sono, però, le misure di eugenetica negativa quelle che autorizzano politiche eugenetiche con risvolti moralmente inaccettabili. Impedire la riproduzione dei portatori di alcune malattie o di altri tratti indesiderati, ritenuti trasmissibili, appare al tempo infatti sempre più praticabile alla luce della tecnica e sempre più ragionevole alla luce della scienza. Gli strumenti di intervento intorno a cui si concentra il dibattito sono essenzialmente tre.
Innanzitutto il controllo sanitario del matrimonio, ovvero leggi che impongano ai fidanzati di procurarsi un certificato medico da presentare allo stato civile o, al limite, vietino l’unione fra sifilitici, epilettici, malati di mente. Norme di questo genere sono adottate nei primi decenni del Novecento in molti Stati nordamericani e scandinavi oltre che nella Germania di Hitler.
Un secondo, efficace, strumento per impedire la riproduzione dei “non adatti” è la sterilizzazione. I progressi della medicina rendono la vasectomia (per gli uomini) e la legatura delle tube (per le donne) operazioni relativamente semplici e con un largo margine di successo. Secondo la logica eugenica, la sterilizzazione è un efficace metodo di controllo della riproduzione e, al tempo stesso, un’alternativa “più umana” alla castrazione o alla reclusione a vita in un istituto.
Il primo Stato ad attuare una legge che consente alle autorità sanitarie di sterilizzare alcune categorie di pazienti, è lo Stato nordamericano dell’Indiana, nel 1907. Il boom della sterilizzazione eugenetica si ha, però, sia in America che in Europa, negli anni Venti. Leggi sulla sterilizzazione vengono approvate in 33 Stati nordamericani e in due Stati canadesi. Si calcola che, negli Stati Uniti, più di 60 mila persone siano state sterilizzate entro gli anni Sessanta, di cui 20 mila nella sola California. In Europa si regolamenta la sterilizzazione eugenetica in un cantone svizzero (1928), in Danimarca (1929), Norvegia (1934), Svezia (1934), Finlandia (1935), Estonia (1936), Islanda (1938). La Germania nazista approva nel 1933 una “legge per prevenire malattie ereditarie nella discendenza”, per effetto della quale circa 300 mila persone vengono sterilizzate.
L’elenco delle patologie che si intendono prevenire può variare. In genere si va dall’epilessia, alla schizofrenia, alla malattia di Huntington, alla sordità e cecità ereditarie, alla deformità fisica, alla criminalità, all’alcolismo, al semplice ritardo mentale (feeble-mindedness). In quest’ultimo caso si tratta di una categoria piuttosto elastica che consente di includere tutta una serie di soggetti “indesiderabili” o “asociali”: prostitute, vagabondi, orfani, giovani madri illegittime, immigrati analfabeti.
Le leggi sulla sterilizzazione si distinguono anche in base al maggiore o minore grado di coercizione da parte della pubblica autorità. La legge, ad esempio, può richiedere o meno il consenso dell’interessato ai fini della validità della procedura. Solo la legge nazista del 1933 prevede che la sterilizzazione venga imposta con la forza dalle autorità di polizia.
Un terzo strumento di regolamentazione della sfera riproduttiva che attira l’interesse degli eugenisti è dato dalle tecniche contraccettive. Il movimento “neo-malthusiano” che dalla fine dell’Ottocento cerca di diffondere le conoscenze in materia di contraccezione ha significativi punti di contatto con l’eugenetica. L’idea, infatti, che si possa contribuire a migliorare le qualità biologiche di una popolazione insegnando ai gruppi sociali “indesiderati” a fare meno figli, ricorre di frequente nei discorsi dei propagandisti del controllo delle nascite. Particolarmente attiva in questo campo è la American Birth Control League, fondata nel 1921 dall’americana Margaret Sanger (1869-1966).
Le politiche razziali, intese come provvedimenti che introducono forme di discriminazione nei confronti di individui appartenenti a una presunta “razza” distinta, non nascono come politiche specificamente eugenetiche. Fenomeni come il colonialismo e lo schiavismo, in cui sono implicite sia la retorica razzista che la tendenza a discriminare la società dei dominatori rispetto a quella dei dominati, sono realtà che precedono i ragionamenti degli scienziati della razza. Così come li precedono le leggi discriminatorie e i pogrom che colpiscono i milioni di ebrei che vivono nei confini dell’Impero russo. Nel Sud degli Stati Uniti il sistema della segregazione razziale nasce già nella seconda metà del XIX secolo per rimanere in vigore fino agli anni Sessanta del Novecento. Le norme che, in alcuni di questi Stati, vietano i matrimoni interrazziali risalgono in qualche caso al Settecento.
Nel Novecento, però, proprio il problema degli “incroci” razziali viene a essere sempre più al centro dell’attenzione anche da un punto di vista eugenetico. La mescolanza delle razze ritenute “superiori” con quelle “inferiori” produce, secondo gli eugenisti, prodotti scadenti dal punto di vista biologico. Il problema si fa di scottante attualità a seguito delle ondate migratorie che investono alcuni Paesi a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo. Sono perlopiù le masse diseredate dell’Europa meridionale e orientale a cercare rifugio in Occidente, in modo particolare negli Stati Uniti. Le tensioni sociali che ne conseguono determinano l’approvazione di leggi volte a contenere i flussi migratori. Nella loro formulazione risuonano anche le preoccupazioni degli eugenisti in ordine alla purezza e all’efficienza razziale della nazione. L’Aliens Act, ad esempio, approvato in Gran Bretagna nel 1905, consente alle autorità di controllo di respingere come “indesiderati” i nullatenenti, ma anche i “lunatici”, gli “idioti” e altri ammalati. Negli Stati Uniti l’Immigration Act del 1924 istituisce un sistema di “quote” nazionali che discrimina fortemente i Paesi dell’Europa sud-orientale. È da qui, infatti, che, secondo gli eugenisti, provengono gli immigrati di più scarsa qualità biologica, che rischiano di contaminare il ceppo “nordico” anglosassone.
Negli anni Venti e Trenta l’eugenetica è dunque una dottrina complessa, ramificata e spesso influente a livello politico. È nei Paesi anglosassoni, in Scandinavia e in Germania che raccoglie i più larghi successi. In Paesi latini e cattolici come la Francia o l’Italia, ma anche in alcuni Stati sudamericani, si sviluppa una variante più moderata dell’eugenetica che rifiuta le più radicali politiche “negative” e si limita a far proprio il programma “positivo” delle politiche sanitarie, assistenziali e demografiche. Ciò si spiega in parte con l’influenza della Chiesa cattolica che, a differenza di quella protestante, rimane radicalmente ostile a tutti gli strumenti di controllo artificiale del processo riproduttivo immaginati dagli eugenisti. Si spiega, anche, con lo scarso successo, in quei contesti, del mito di una razza “ariano-nordica” che spesso proprio dai “latini” prende altezzosamente le distanze.
Le misure eugenetiche e razziali più radicali vengono approvate, non a caso, nella Germania nazionalsocialista. Qui, infatti, la purificazione e il dominio razziale costituiscono gli assi portanti dell’ideologia del partito al potere. Si è già citata la legge sulla sterilizzazione eugenetica del 1933. Ad essa segue, nel 1939, in coincidenza con lo scoppio della seconda guerra mondiale, la decisione di Hitler di ordinare l’uccisione dei pazienti psichiatrici ricoverati nelle cliniche tedesche. L’operazione, nominata in codice T-4 per via della Tiergartenstrasse 4, l’indirizzo berlinese dove ha sede il quartier generale, è segretissima. Si avvale, però, della collaborazione di noti medici, direttori di cliniche e altro personale sanitario, incaricato di procedere alla selezione delle vittime e alla loro successiva esecuzione. È in questa occasione che si sperimenta per la prima volta la tecnica dell’omicidio mediante le cosiddette “docce” a monossido di carbonio, le camere a gas. Si calcola che le vittime dell’operazione siano oltre 70 mila.
Anche le misure di discriminazione e persecuzione nei confronti della “razza” ebraica si succedono in un crescendo di ferocia. Le leggi di Norimberga del 1935 pongono le premesse per l’emarginazione degli ebrei tedeschi dalla vita politica ed economica della nazione. Una di esse, la “legge sulla protezione del sangue e dell’onore tedesco”, vieta i matrimoni e i rapporti sessuali tra “ariani” ed “ebrei”. Questi ultimi sono definiti non tanto in base all’appartenenza religiosa, quanto in base a complicati accertamenti lungo l’albero genealogico. Leggi analoghe vengono in seguito approvate anche in Paesi alleati della Germania come la Romania (1937), l’Ungheria (1938), l’Italia (1938) o, durante la guerra, in Paesi satelliti come la Slovacchia (1939), la Croazia (1941), la Francia di Vichy (1941). Il pogrom della notte dei cristalli del 1938 in Germania e gli omicidi di massa iniziati dalle Einsatzgruppen delle SS nell’Europa orientale occupata sono tappe ulteriori del percorso che conduce alla Shoah. Nei lager del Terzo Reich, peraltro, perdono la vita anche migliaia di “indesiderati” della più varia natura: oppositori politici, omosessuali, “asociali” e zingari. Anche questi ultimi sono identificati da sedicenti scienziati come gruppo razziale “inferiore”. Più in generale, i piani di conquista nell’Est europeo contemplano grandiosi trasferimenti forzati di popolazione in base a criteri di omogeneità etnica. I territori occupati dai Tedeschi, inoltre, sono gestiti dalle SS di Himmler (1900-1945) in base a un complicato sistema di gerarchie razziali che ha come principale motore lo sfruttamento dei popoli conquistati.
La sconfitta della Germania nazista nella seconda guerra mondiale è stata, per queste ragioni, anche la sconfitta delle politiche eugenetiche e razziali. Gli stessi termini “razza” ed “eugenetica” appaiono a tal punto collegati agli orrori del nazismo da diventare sconvenienti per il linguaggio politico e scientifico del dopoguerra. L’avvio del processo di decolonizzazione in Africa e in Asia, nonché la nascita del movimento per i diritti civili negli USA sono, insieme, una spia di questo processo e un fattore di accelerazione.
A partire dal 1950 l’UNESCO approva una serie di Statements on race in cui si contesta la validità scientifica del termine “razza”.
Si tratta, ovviamente, di un processo lento e non privo di resistenze, nella comunità scientifica come nel mondo politico. Proprio a partire dal 1948, ad esempio, la Repubblica del Sudafrica approva una comprensiva legislazione razziale che vieta i matrimoni e i rapporti sessuali interrazziali e istituisce un regime di apartheid, ovvero di segregazione e discriminazione della maggioranza nera da parte della minoranza bianca di discendenza anglo-boera. I neri non hanno diritti politici e non possono possedere proprietà né risiedere nelle città dei bianchi. Vengono confinati in poverissime periferie o appositi homelands rurali e sono costretti a utilizzare ospedali, scuole, bagni pubblici, spiagge, panchine a loro riservati. Si tratta di un regime più volte stigmatizzato e sanzionato dalla comunità internazionale che, però, rimane in vigore fino al 1990.
Anche le leggi scandinave sulla sterilizzazione continuano a funzionare fino agli anni Settanta. In Svezia, ad esempio, si calcola che oltre 60 mila persone siano state operate nell’arco di quarant’anni.
Più in generale, la delegittimazione delle teorie e delle politiche razziali non significa, certamente, la fine della discriminazione e della persecuzione delle minoranze etniche o religiose, né, tanto meno, dell’insieme di paure e pregiudizi che definiscono le relazioni sociali fra gruppi umani “diversi”. Assai raramente, però, si è pronti ad assegnare alla base biologica della “differenza” la stessa importanza che assumeva nella prima metà del secolo.
Nella seconda metà del Novecento anche l’eugenetica è, ormai, una scienza radicalmente delegittimata dall’associazione con le politiche naziste. È anche vero che, sul piano scientifico, la scoperta del DNA e i progressi della genetica spostano progressivamente il problema delle “buone nascite” dal piano del controllo dell’accoppiamento e della fertilità a quello della diagnosi e della selezione “prenatale”. In ogni caso, è universalmente condannata l’idea di un intervento coercitivo dello Stato nelle decisioni riproduttive dei singoli in nome della salute e dell’efficienza della “razza” o della “nazione”.