Poliziano, Angelo Ambrogini, detto il
Nato a Montepulciano nel 1454, fu in gioventù precettore dei figli di Lorenzo de’ Medici e suo segretario personale. Professore di poesia e retorica presso lo Studio fiorentino dal 1480 alla morte (avvenuta a Firenze nel 1494), raccolse i frutti più cospicui delle sue ricerche filologiche nelle due centurie di Miscellanea, la prima edita nel 1489, la seconda – rimasta incompiuta – solo nel 1972. Finissimo poeta latino, greco e volgare, fu anche autore di un ampio epistolario latino, di un’operetta storico-apologetica sulla congiura dei Pazzi (Pactianae coniurationis commentarium, 1478) e di numerose traduzioni dal greco in latino (sia prosastiche sia poetiche).
M. cita P. una sola volta, nelle Istorie fiorentine VIII xxxvi 11, collocandolo, al primo posto, fra i letterati protetti da Lorenzo il Magnifico, insieme a Cristoforo Landino, Demetrio Calcondila e Giovanni Pico della Mirandola. Ma i suoi scritti in versi denotano profonda dimestichezza con la poesia volgare di P., e soprattutto con le Stanze per la giostra (1475-1478 circa, prima ed. 1494), l’opera più popolare dell’umanista. Nel primo Decennale, i vv. 373-75 («Venuto dunque el giorno sì tranquillo / nel qual el popol vostro, fatt’audace, / el portator creò del suo vessillo»), che si riferiscono all’elezione di Piero Soderini quale gonfaloniere perpetuo, echeggiano Stanze I xcvi 3-6 («passa pel dolce orïental zaffiro / nell’ampio albergo el dì puro e tranquillo; / ma il tetto d’oro, in cui l’estremo giro / si chiude, contro a Febo apre il vessillo»). Nel capitolo “Di Fortuna”, «i vv. 73-96 elencano e descrivono i sudditi del regno di Fortuna con personificazioni e con movenze analoghe a quelle adottate da Poliziano per rappresentare, nelle Stanze (I lxxiii-lxxvi), le passioni e i vizi che abitano il regno di Venere» (N. Marcelli, commento ai Capitoli, in N. Machiavelli, Scritti in poesia e in prosa, coord. di F. Bausi, 2012, p. 81, da cui si citano le rime di M.); e nella parte finale (vv. 127-93) la descrizione dei ‘trionfi’ dipinti sulle mura del palazzo della dea trova un precedente nella descrizione dei bassorilievi che ornano, nel poemetto di P., le porte del palazzo di Venere (I xcvii-cxviii). La familiarità di M. con le Stanze è confermata anche dal ritorno di minimi tasselli («Medica famiglia», in clausola nel primo Decennale, v. 24, e in Stanze II iii 2) e da fenomeni di memoria fonica (capitolo “Dell’Ingratitudine”, v. 93, «per l’italiche valle», in clausola: cfr. Stanze I vii 6: «per l’italiche ville»).
M., del resto, è abile cultore dell’ottava, e nel trattamento di questo metro rivela più volte i suoidebiti nei confronti del Poliziano. È il caso soprattutto della Serenata, poemetto di 33 ottave che inserisce due miti amorosi desunti dalle ovidiane Metamorfosi in una cornice epistolare ispirata al rispetto continuato XXVII del P. (la numerazione è quella dell’ed. critica a cura di D. Delcorno Branca, 1986, da cui si cita), che conta sedici stanze e che in un codice e nella prima stampa (Firenze 1495 circa) reca l’identico titolo di «serenata». La prima ottava, con il saluto, l’elogio della donna e l’invito a lei rivolto affinché presti ascolto al poeta, dipende dall’ottava esordiale del rispetto polizianesco, e così la conclusione, dove la donna viene esortata a non lasciar soffrire oltre il suo amante e a concedersi finalmente a lui; ma nell’ultima ottava (XXXIII 1-2: «Da ogni parte dunque se’ constretta / a rispondere, o donna, a chi ti chiama») torna un’eco di un’altra poesia del P., la ballata CXIII 18-19: «ché conviene amar chi ama / e rispondere a chi chiama». Inoltre, sempre nella Serenata, nell’ottava XXXI, laddove l’uomo elogia sé stesso in terza persona («Non è la sua età vecchia e matura [...] né sì brutto creato l’ha Natura» ecc.), trapela il ricordo del serventese CXXVI del P., vv. 125-40: «Son i’ forse un pastor che guardi armento, / o di vil sangue, o per molti anni antico?» ecc. (il componimento fu pubblicato a Bologna nel 1503: va notato che tutti i testi del P. di cui M. si rivela memore erano disponibili a stampa).
Debitori di P. sono inoltre i due strambotti (“Io spero e lo sperar cresce ’l tormento” e “Nasconde quel con che nuoce ogni fera”) che adottano la forma dell’ottava lirica isolata, fortunatissima tra Quattro e Cinquecento. Se il carattere sentenzioso ed epigrammatico dei due pezzi li avvicina, più che ai rispetti del P., agli strambotti di Giuliano de’ Medici e di Francesco Cei, nondimeno il secondo si chiude con un distico («tu mostri il volto tuo di pietà pieno, / poi celi un cor crudel dentro al tuo seno»), modellato sui due versi finali di un’ottava delle Stanze (I xv 7-8: «Ché quanto ha il volto più di biltà pieno, / più cela inganni nel fallace seno»), che sviluppa il medesimo tema, quello del contrasto fra l’apparente dolcezza della donna e la sua intima crudeltà.
Nel registro ‘comico’ M. ricorre a P. fin dal suo primo scritto poetico a noi noto, il sonetto al padre “Costor vivuti sono un mese o piùe” (anteriore al maggio 1500), che ai vv. 9 e 13 («Ma per non fare affamar le marmegge»; «fatti abiàn becchi che paion d’acegge») recupera lessico, immagini e rima dalla ballata del P. sulla vecchia lussuriosa (CXIV), pubblicata tre volte, fra il 1495 e il 1505, in stampe fiorentine: «non ha tanta carne adosso / che sfamassi una marmeggia» (vv. 3-4); «tal ch’un becco par d’acceggia» (v. 36). Infine, se è sua, l’ottava di san Torpè (post 28 maggio 1512), che doveva forse inaugurare una sacra rappresentazione sul santo pisano, denota nel peraltro canonico attacco («Silenzio, udite») la ripresa dell’identica formula esordiale dell’Orfeo.
Questi e altri contatti testuali dimostrano che la memoria del P. volgare agisce largamente in tutti i generi e i registri poetici praticati da M.; è ben noto, d’altronde, come le opere in versi del Segretario guardino, oltre che ai grandi modelli trecenteschi, agli esponenti maggiori della tradizione fiorentina quattrocentesca e soprattutto laurenziana (Luigi Pulci, Lorenzo de’ Medici e P.).
Della produzione latina di P., invece, M. pare aver avuto una conoscenza assai più scarsa, limitata ad alcuni testi di argomento storico. Nel cap. xix del Principe (§§ 25-61) risultano utilizzate con ampiezza le Historiae di Erodiano nella versione latina polizianesca, l’unica allora disponibile, uscita a stampa a Roma e a Bologna nel 1493 e a Firenze nel 1517; nelle Istorie fiorentine VIII iv 15, il sintetico ritratto di Jacopo Bracciolini («giovane litterato, ma ambizioso e di cose nuove desiderosissimo») deriva dal Pactianae coniurationis commentarium («ob ingenitam quandam sibi vanitatem, rerum novarum cupidus erat», ed. a cura di A. Perosa, 1958, p. 17); dalla lettera I ii dell’epistolario polizianesco (leggibile negli Opera omnia aldini del 1498) M. ricava alcune notizie sull’origine di Firenze messe a frutto nel cap. ii del libro II delle Istorie fiorentine (Cabrini 1985, pp. 29-30, 3334; Bausi 1998, pp. 112-14).
Nessuna traccia, infine, sembra lasciare in M. il P. filologo e poeta latino. L’analogia strutturale e di metodo fra i Discorsi e i Miscellanea (suggerita da Dionisotti 1980, pp. 258-59) è labilissima, data la natura completamente diversa dei due testi; e all’epigramma di Ausonio che, liberamente tradotto nell’epigramma in terzine “Dell’Occasione”, P. riporta nel suo commento alle Selve di Stazio e cita nel cap. xlix dei primi Miscellanea, M. certo si accostò per altre vie, probabilmente tramite l’edizione fiorentina di Ausonio del 1517.
Bibliografia: C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino 1980; A.M. Cabrini, Per una valutazione delle Istorie fiorentine del Machiavelli. Note sulle fonti del secondo libro, Firenze 1985; F. Bausi, Due note machiavelliane, «Interpres», 1990, 10, pp. 289-93; F. Bausi, Machiavelli e la tradizione culturale toscana, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ott. 1997, Roma 1998, pp. 81-115; M. Martelli, Tra filologia e storia. Otto studi machiavelliani, a cura di F. Bausi, Roma 2009, ad indicem.