POLYGNOTOS (Πολύγνωτος, Polygnotus)
1°. - Pittore greco, attivo dopo le guerre persiane. Era considerato il primo pittore dall'antichità; naturalmente questo giudizio non va preso alla lettera, ma piuttosto come una valutazione: accanto alla sua ogni precedente pittura appariva senza importanza. Non abbiamo nessuna ragione per mettere in dubbio la fondatezza della gran fama goduta da P. nell'antichità, tuttavia le lodi vengon talvolta limitate; evidentemente i suoi dipinti non appartengono all'alto stile maturo; altrimenti Quintiliano (Inst. or., xii, 10, 3) non avrebbe potuto dire che le sue opere erano ancora rozze e rappresentavano, in sostanza, solo una promessa della futura fioritura artistica. Questo giudizio ne definisce lo stile: non più arcaico, ma non ancora appartenente all'armonico stile dell'età fidiaca.
Thasos fu patria di P.; Aglaophon, suo padre e maestro, e P. furono attivi in Atene, Tespie, Platea e Delfi. Dipinse gratuitamente nella Stoà Poikile di Atene e nella Lesche di Delfi, ottenendo così la cittadinanza attica e la prossenia delfica. Non conosciamo date esatte. Le sue relazioni con Elpinice, la esuberante sorella del grande Cimone, figlio di Milziade, assicura la sua presenza in Atene non dopo il 460. Pare l'abbia ritratta nell'Aula detta ufficialmente Stoà Peisianakteia, nome cambiato poi nel corso degli anni in Stoà Poikile, per i celebri quadri conservativi.
Nella Stoà stessa sono elencati quattro quadri da Pausania (i, 15, 1), ma - come avviene spesso nel suo 1° libro - mancano i nomi degli artisti. La Battaglia presso Oinoe non vien mai altrove citata; quindi ignoriamo a quale maestro vada attribuita. Si è tentato di datare questo fatto storico, per datare così anche l'Aula, ma questo significa voler risolvere un'incognita per mezzo di un'altra incognita. Per l'Amazzonomachia di Mikon, si può essere in dubbio se si tratti della celebre rappresentazione nella Poikile o di quella nel Theseion. P. viene ricordato da Plutarco come pittore della Ilioupèrsis; proprio in questo dipinto avrebbe ritratto Elpinice sotto i tratti di Laodice. Per la Battaglia di Maratona viene nominato come autore, ora Mikon, ora Panainos, ora entrambi, ora Polygnotos. Se però vien citato un unico pittore per la Stoà, allora si parla solo di P., perché il più celebre. È tuttora ignota l'esatta ubicazione dell'aula. Secondo Sinesio (Epist., 135), alla fine del sec. IV d. C. furono asportate le tavole (σανίδες) con i quadri.
Nel pronao del tempio di Atena Areia, eretto in Platea dopo le guerre persiane, P. dipinse Ulisse sterminatore dei Proci; accanto Onasias, pittore a noi altrimenti sconosciuto, dipinse i Sette contro Tebe (Paus., ix, 4, 1). Nell'Anakeion di Atene c'erano le Nozze dei Dioscuri e delle Leucippidi, dipinti da P., gli Argonauti, dipinti da Mikon (Paus., i, 18, 1). Nulla di preciso sappiamo né di un'opera di P., restaurata da Pausias, esistente in Tespie (Plin., Nat. hist., xxxv, 123), né di un suo quadro conservato poi in Roma; di quest'ultimo si sa solo che gli antichi erano in dubbio se il personaggio rappresentato con scudo salisse o scendesse; si è pensato trattarsi di Capaneo, è più probabile sia un apobàtes. Un epigramma (Anth. Graec., xvi, 30) ci informa di un'altra opera: Salmoneo fulminato da Zeus; come autore vien citato Polykleitos da Thasos, da correggere probabilmente in Polygnotos (v. polykleitos, 2°).
Nell'ala settentrionale dei Propilei, detta attualmente Pinacoteca, sull'acropoli di Atene, Pausania (i, 22, 6) vide sei quadri: Ulisse ruba a Lemno l'arco di Filottete; Diomede con il Palladio; l'uccisione di Egisto; il sacrificio di Polissena; Achille tra le figlie di Licomede e finalmente Ulisse e Nausicaa. P. è detto autore degli ultimi due. Un epigramma (Anth. Graec., xvi, 150) decide in favore della Polissena, in esso ritroviamo la erronea trascrizione Polykleitos; forse anche gli altri tre erano dovuti a Polygnotos. La notizia trasmessa da Arpocrazione (s. v.), che il maestro dipinse anche nel Thesauròs, ci è di poco aiuto, non sappiamo cosa intenda con questo; si è sostituito a Thesauròs Theseion: la cosa è possibile, ma non sicura. Le notizie più importanti sul maestro di Thasos sono le descrizioni fatte da Pausania (x, 25-31), delle pitture nella Lesche degli Cnidî, a Delfi. Si tratta di due temi omerici: Ilioupèrsis e Nèkyia. La descrizione di Pausania è priva di ogni ornamento retorico e di ogni apprezzamento estetico; enumera le singole figure, interrompendosi solo per fare delle digressioni letterarie; importante è la descrizione cumulativa delle figure, appartenenti ad uno stesso gruppo; talvolta ne viene precisato quale figura sta sopra o accanto o sotto ad un'altra, dandoci utili informazioni sintattiche.
La ricostruzione grafica dei due dipinti attuata nel 1882 da C. Robert, confrontando il testo di Pausania a monumenti conservati, è stata in seguito brillantemente confermata. Il Robert riconobbe i principi della composizione polignotea su un cratere attico a figure rosse, proveniente da Orvieto, che porta sul retro l'eccidio dei Niobidi, sulla fronte una scena di oscura interpretazione. Nel modo stesso descritto da Pausania le figure vi si dispongono una al di sopra dell'altra. Non sono fregi ordinati l'uno sull'altro, bensì singole figure o gruppi sparsi irregolarmente sul piano figurato. La loro disposizione è giustificata da contorni di paesaggio ondulati che traversano il campo del quadro, nascondendo talvolta parte delle figure (disposizione confermata dai quadri di Mikon, contemporaneo di Polygnotos). Sul retro del cratere orvietano è chiaramente riconoscibile il Monte Citerone, un abete ne rappresenta il bosco. Tutta la serie di altri particolari è collegata a questo tipo di composizione: predilezione per una riproduzione frontale, piede poggiato su rilievi del terreno (descritto da Pausania nell'Antiloco della Nèkyia), una figura seduta con le mani congiunte sul ginocchio (come Ettore nello stesso quadro).
Il Beazley ha raggruppato numerose opere intorno al pittore del cratere di Orvieto, da lui detto Pittore dei Niobidi; esse però non presentano tutte questo stesso tipo di composizione, che non fa affatto parte della tradizione ceramica, anche se lo ritroviamo in età posteriore. Esso compare qui inaspettatamente per la prima volta, in evidente accostamento alla grande pittura nella quale cercheremo dunque i prototipi per le caratteristiche stilistiche dei vasi di quest'età. Così alcune singole coppe, decorate da grandi figure (coppa di Pentesilea) usano la tecnica, estranea alla ceramica, dei colori opachi. Su tutte le figurazioni vascolari dell'epoca le espressioni dei volti si discostano palesemente dalla tradizione arcaica. Non sono semplicemente gravi, le fronti sono spesso aggrottate, si ha l'impressione di riscontrare tratti individuali.
Una delle fonti indica come caratteristica, tra le "invenzioni" di P., l'aver dipinto per primo donne con abiti trasparenti, di aver loro dato dei copricapi variopinti, di aver rappresentato figure a bocca socchiusa, con la dentatura visibile, variandone l'espressione, in contrasto con l'arcaica fissità (Plin., Nat. hist., xxxv, 58). Esatta è solo l'ultima di queste caratteristiche, testimoniata dal cratere dei Niobidi e dalle opere che vi si raggruppano intorno; tutto il resto vale non più di quanto l'antica letteratura d'arte chiamava "invenzioni". Nessuno poteva dipingere vesti più trasparenti di quanto fece Peithinos, cuffie variopinte erano note da tempo, le lamentatrici su pìnakes con pròthesis hanno già la bocca socchiusa. Sul cratere di Euphronios, Anteo ha la dentatura visibile tra le labbra socchiuse, e altrettanto Patroclo nella coppa di Sosias. Questi particolari non ci sorprendono nelle opere di P., anche se egli non fu un precursore in questo senso, le affinità già notate nel cratere dei Niobidi risalgono certamente a lui. La data di produzione del vaso è circa 470-460, cioè l'età a cui si possono far risalire le più tarde opere di Mikon e Polygnotos.
Questo tipo di composizione va attribuito a Mikon o a Polygnotos? Sono affini al Pittore dei Niobidi alcuni dipinti vascolari con centauromachie, che sembrano risalire tutti ad un unico prototipo. Si pensa al Theseion elevato dopo il 475 e decorato da quadri dovuti in parte a Mikon. Il motivo di Teseo che vibra la bipenne riappare nel frontone occidentale di Olimpia. Si ripensa allora che, secondo la tradizione, tanto Mikon quanto P. furono anche fonditori di statue in bronzo. P. doveva quindi, e si può accettare l'ipotesi senza riserve, dare nei suoi quadri maggior valore alla forma che non al colore. I sei vasi con centauromachie mostrano in parte anch'essi dislivelli di terreno, l'azione però si svolge su un unico piano, senza sovrapposizioni, vi è inoltre rappresentato un movimentato tumulto guerriero. Dai testi conservati risulta che i quadri di P. rappresentavano scene statiche, non azioni: non la conquista di Troia, ma il giudizio su Aiace dopo la presa della città; non l'eccidio dei Proci, ma Ulisse dopo l'azione; non il ratto delle figlie di Leucippo, ma le nozze dei Dioscuri: in questo P. si rivela assolutamente sciolto dall'arte arcaica. Si preferirebbe perciò ricollegare le agitate e mosse centauromachie e le amazzonomachie dei vasi dell'epoca piuttosto con il più anziano Mikon che non con Polygnotos. Nel maggior numero di scene di amazzoni manca la sovrapposizione delle figure; si sarebbe tentati di pensare alla Amazzonomachia nel Theseion. Si potrebbe invece riconnettere un vaso con figure sovrapposte di amazzoni, al dipinto nella Poikile. Secondo le notizie giunteci sulla Battaglia di Maratona, che si trovava nella Stoà Poikile, anche essa sarebbe stata sviluppata in altezza. Possiamo quindi tranquillamente ammettere che la Ilioupèrsis dipinta da P. in Atene, era analoga, non solo per soggetto, ma anche per composizione a quella di Delfi. Lo stesso si dica dell'Ulisse, in Platea, che trovandosi nel pronao di un tempio, era probabilmente più alto che largo. Questo confermerebbe indirettamente l'attribuzione ad Onasias di un cratere con la lotta dei Sette contro Tebe, nel quale si vede la composizione polignotea sviluppata in altezza.
Riguardo ai colori usati da P. non si può naturalmente parlare in quei tempi di un pieno sviluppo di tutti i mezzi pittorici. È stato espressamente sottolineato il simplex color. Secondo Plinio e Cicerone (Brut., 18, 70), P. avrebbe usato talvolta, certo non sempre, quattro colori. L'Eurynomos nella Nèkyia di Delfi era azzurro. Oggi che ci è noto l'ininterrotto uso dell'azzurro dagli avanzi della pittura di Creta e dell'Argolide, risalenti al II millennio a. C., dalle policromie arcaiche in marmo e in pòros, dai pìnakes lignei di Pitsà e dalle tombe a camera di Tarquinia, non è necessario discutere questa notizia. Presupponendo che la scala dei colori sia quella dei sepolcri tarquinensi del V sec., ci domandiamo come venissero usati, specie per il paesaggio. I vasi con composizioni di gusto polignoteo ci vietano di supporre troppi elementi architettonici o paesistici. A partire dal VI sec. troviamo sui vasi edifici, alberi e rocce ma, come nei seguenti due secoli, adeguati alle figure umane; di rado superano, anche di poco, le teste dei personaggi. Dovremmo immaginarci che allo stesso criterio si conformassero le tende, la casa di Antenore e le mura cittadine nel dipinto delfico dell'Ilioupèrsis. Sui vasi del V sec. è visibile la parte poppiera di navi, tagliate dalla riquadratura del dipinto. Esempi di paesaggio, dalle linee ondulate e dalla scarsa vegetazione, troviamo nel cratere dei Niobidi e nei vasi affini. Un'idea degli alberi, dei cespugli e dei giunchi nella Nèkyia e del loro effetto coloristico viene suggerita dalle coppe a fondo bianco del Pittore di Sotades. Si supponeva che P. usasse una gradazione uniforme del colore locale per il paesaggio e l'azzurro per il cielo, supposizione niente affatto provata. È bensì vero che su vasi a figure rosse, e talvolta anche a fondo bianco, le rupi sono tinteggiate con vernice diluita, non per accennare al chiaroscuro, bensì solo per render evidente la colorazione irregolare della pietra naturale. Queste rupi non servono mai da sfondo alle figure, ma soltanto da sedili di media grandezza. Su una lèkythos con una caccia alla lepre, già dell'epoca del Partenone, è lasciata in bianco la montagna, che ne costituisce lo sfondo; si dica altrettanto per l'Elicona, su cui siede la musa. Il Pittore di Sotades, appartenente alla generazione di P., sulla coppa di Polyidos e Glaukos, ha orlato il tumulo con un leggero tratteggio, per accennarne la curva uniforme. Cento anni dopo troviamo tinti in bruno gli orli delle rupi nella seconda camera della Tomba dell'Orco, in Tarquinia. Possiamo immaginare che nei dipinti di P. il paesaggio dalle linee ondulate fosse leggermente colorato nei contorni; forse una o due rupi, che nella Nèkyia servivano da sedile, erano più fortemente colorate, per dare loro risalto. Naturalmente fondo e cielo erano bianchi, il cielo è incolore ancora nel mosaico di Alessandro di tarda età classica e nel quadro ellenistico in marmo dei Niobidi.
Al colore è connesso un altro problema, la sfumatura (ombreggiatura). In età piuttosto remota i pittori greci sentirono la necessità di distinguere il metallo scintillante dagli altri oggetti della rappresentazione. Sui vasi a figure rosse dello stile severo si otteneva questo effetto con un leggero rilievo plastico ottenuto con l'argilla e dorato per monili, recipienti aurei e simili. Quest'abitudine si è conservata a lungo, e si ritrova anche nei ritratti di mummie di età romana; essa domina nelle decorazioni figurate più accurate tanto dei vasi del V sec. a figure rosse, quanto di quelli a fondo bianco. Ricorderemo per analogia, gli elementi metallici nelle sculture in marmo. La volontà di differenziare gli oggetti metallici indusse i pittori vascolari a tingere le armi bronzee in giallo con vernice diluita o ad ombreggiare a tratteggio i bordi di scudi, elmi, recipienti tondeggianti; uno dei migliori esempî di età polignotea di quanto affermiamo è il cratere delle amazzoni, a Ginevra. Quando Pausania cita nelle pitture delfiche vasi bronzei dobbiamo supporre che venissero rappresentati in modo analogo, tanto più che l'uso si osserva in vasi di età posteriore.
Di altra specie è il chiaroscuro, quando i recipienti sono visti di lato e dalla loro apertura si può scorgere la tinta uniformemente scura del fondo. Non si tratta di vera ombreggiatura, in quanto non modella, anzi parti chiare e scure sono poste in contrasto immediato. Si dirà altrettanto per le pieghe delle vesti in tinta più scura nelle opere del Pittore dei Niobidi e dei suoi contemporanei. Anche qui non si tratta di lenti trapassi, di modellato della corporeità, bensì di contrasto tra chiaro e scuro. Quando in pezzi di fattura particolarmente accurata del Pittore di Pentesilea o nella coppa di Europa sono usati, nelle pieghe delle vesti, larghe pennellate invece di semplici contorni, non si tratta ancora di ombreggiature ma di vaghe intuizioni. La successiva evoluzione pittorica ci dimostra che sarebbe anacronistico pretendere l'ombreggiatura da Polygnotos. Si constati che una vera modellazione non c'è, salvo nella riproduzione di oggetti metallici: un timido accenno di ombreggiatura si ha nella rappresentazione di oggetti inanimati, non del corpo umano.
Non si può controbattere questa constatazione citando la nota di Luciano sulle guance arrossate di Cassandra, nel quadro dell'Ilioupèrsis. Già in vasi calcidesi uomini e donne hanno del rosso sulle guance; tra i sepolcri etruschi ricordiamo la Tomba del Citaredo e la Tomba della Pulcelia.
La Velca della prima camera della Tomba dell'Orco ha le guance rosse, ma nessun chiaroscuro ed è stata dipinta una generazione dopo Polygnotos. Nessuna antica fonte indica tra le "invenzioni" di P. il chiaroscuro, di questo si parla solo nella XC Olimpiade.
È difficile stabilire se nelle opere di P. i corpi maschili si distinguevano per il colore da quelli femminili. Sui vasi attici a fondo bianco le figure maschili vengono rappresentate nei contorni, linee interne indicano la muscolatura, nessun colore le differenzia dalle muliebri. Sulle lèkythoi qualche volta si trova una carnagione maschile rosso bruna. Altrettanto si dica per l'unica pittura parietale etrusca appartenente alla stessa generazione: la Tomba del Letto Funebre.
Quanto gli antichi ammiravano in P., l'èthos, l'acuta e pure ideale caratterizzazione delle figure, non lo ritroviamo in nessun pittore vascolare contemporaneo. Certo i volti del Pittore dei Niobidi hanno una nota propria, ma considerandoli si pensa involontariamente a Dionysios di Colofone, di cui si disse che imitò P. in ogni singolo particolare, senza raggiungerne la grandezza.
Quattro diversi pittori vascolari del sec. V a. C. firmarono con il nome di P., ma nessuno di essi può identificarsi col maestro di Thasos, anzi nessuno di essi è tra i disegnatori veramente grandi dell'epoca.
Bibl.: H. Brunn, Geschichte der griech. Künstler, II, Stoccarda 1889, p. 15; J. Overbeck, Schriftquellen, nn. 1042-1079; F. Fornari, in Ausonia, IX, 1914, p. 93 ss.; E. Pfuhl, Malerei u. Zeichnung, Monaco 1923, II, p. 635 ss; M. Swindler, Ancient Painting, New Haven 1929, p. 195; E. Loewy, Polygnot, Vienna 1929; V. Lorentz, in Thieme-Becker, XXVII, 1933, c. 223; G. Lippold, in Pauly-Wissowa, XXI, 1952, cc. 1630-1639; s. v.; A. Rumpf, in Handbuch der Arch., IV, i, Monaco 1953, p. 91 ss.; id., Am. Journ. Arch., LX, 1956, p. 76. Per i pittori vascolari, J. D. Beazley, Red-fig., p. 384; 7; 517, 25-6; 677, 1-2; 679, 31; 680, 47; 698, 57; E. Simon, Polygnotan Painting and the Niobid Painter, in Am. Journ. Arch., LXVII, 1963, p. 43 s.