COLONNA, Pompeo
Nacque a Roma da Girolamo di Antonio, principe di Salerno, e Vittoria Conti il 12 maggio 1479. Rimasto orfano di padre nel 1482, con tre fratelli fu preso sotto la protezione dello zio Prospero, che lo fece educare a Montecompatri. Il 12 apr. 1498 partecipò alla battaglia di Palombara, che vide i Colonna prevalere sugli Orsini, e, dopo la pacificazione delle due famiglie avvenuta a Tivoli l'8 luglio, seguì lo zio alla corte di Federico d'Aragona. Dopo la, partenza di questo per la Francia, il C., che era stato compreso da Alessandro VI fra i dodici Colonnesi qualificati come "iniquitatis filii", scomunicati e privati dei beni con bolla del 20 dic. 1501, insieme allo zio Prospero e ad altri parenti si mise al servizio della Spagna, portandosi presso Consalvo di Cordova.
Partecipò quindi agli ordini di costui alla campagna di Puglia e sembra che in occasione della disfida di Barletta implorasse invano dallo zio il permesso di partecipare attivamente al duello. Ottenne soltanto di assistere, portandone le armi, uno dei contendenti. Prese parte quindi alla battaglia di Cerignola (28 apr. 1503), accanto allo zio Prospero, con il quale si gettò all'inseguimento dei fuggiaschi e con cui, dopo la battaglia, passò la notte nella tenda del generale francese caduto sul campo. Secondo Paolo Giovio, Prospero gli concesse come preda di guerra l'argenteria del Nemours, che egli distribuì fra i soldati. Durante il soggiorno di Consalvo di Cordova a Napoli al C. fu affidato il recupero di Fondi, che egli effettuò cacciandone i Caetani.
Mentre i Colonna venivano reintegrati nei loro possedimenti da Giulio II, eletto papa il 1° nov. 1503, sul Garigliano, ove si erano attestati l'esercito francese e quello spagnolo, il valore del C. ebbe modo di rifulgere ancora una volta, quando i Francesi crearono una testa di ponte sulla sponda spagnola del fiume. In questa occasione pare che l'azione del C. sia stata determinante nell'impedire il dilagare dei nemici. A riconoscimento di ciò Consalvo gli regalò un cavallo. Il C. partecipò anche, nel dicembre, alla battaglia del Garigliano. Nonostante questi brillanti inizi militari, lo zio Prospero cominciò ben presto a far pressioni sul C. perché abbracciasse la carriera ecclesiastica.
Il cardinale che rappresentava la famiglia entro il Sacro Collegio, Giovanni, non era in buone condizioni di salute e in caso di morte sarebbero andati perduti per la famiglia i pingui benefici di cui godeva; anche il fatto che i tre fratelli del C. fossero già sposati faceva cadere su di lui la scelta come successore candidato del card. Giovanni.
A detta del Giovio, non poche furono le resistenze del C., ma infine egli non poté sottrarsi a quello che era reputato suo dovere dai consorti e nel 1507, creato protonotario apostolico, divenne maestro di casa di Giovanni.
Alla morte di questo, il 26 sett. 1508, i benefici di lui, fra cui l'abbazia di Subiaco e quella di Grottaferrata, passarono al C., che il 6 ottobre ottenne anche il vescovato di Rieti. Non può meravigliare che dal comportamento del C. a Roma non trasparisse alcun segno della sua religiosità. La vita splendida che conduceva e l'amicizia con i letterati presenti nella città erano del resto coerenti con le abitudini dei curiali del tempo. Più eccezionale il fatto che il C. volesse battersi a duello con uno spagnolo con il quale era venuto in contrasto, uccidendolo.
Tornato a Roma dopo la presa della Mirandola (17 ag. 1511), Giulio II si ammalò tanto gravemente che si ritenne imminente la sua morte. Prese forma un moto popolare e, con Antimo Savelli, Roberto Orsini e Giorgio Cesarini, il C. si pose alla testa dei malcontenti, investendosi del ruolo di rappresentante della libertà romana.
Mostrando di sentirsi più cittadino dell'Urbe che membro della Chiesa, il C. si scagliò nell'arringare il popolo contro i prelati, che l'opprimevano e lo scandalizzavano. Sostenne che si doveva chiedere ai cardinali l'elezione di un papa romano o almeno italiano, il quale si doveva impegnare a creare quattro cardinali romani, a togliere le gabelle, a ripristinare gli antichi diritti del popolo. In altre occasioni il C. avrebbe mostrato, oltre allo spirito di ribellione senza inibizioni nei confronti del capo spirituale e temporale della Chiesa, questo sentimento di civico interesse per la sua città e i suoi concittadini; tuttavia non sembra che in questa circostanza gli fosse estraneo un certo risentimento verso il papa per non essere stato creato cardinale.
Inopinatamente Giulio Il riacquistò la salute e per un certo tempo ignorò ciò che era avvenuto in Campidoglio, tanto che commise al C. la legazione di Romagna. Di lì a poco però e per timore di possibili pretese dei Colonna su Urbino e perché messo al corrente di quanto operato dal C. durante la sua malattia, gli, ingiunse prima di non partire e poi si rifiutò di riceverlo.
Irato, il C. si ritirò a Nemi e lì iniziò a raccogliere gente per muovere contro il papa. Con questo intento prese accordi con il re di Francia, dal quale ricevette denari, ma lo zio Prospero lo indusse a più miti consigli e lo convinse a consegnare Montefortino in mano di Marcantonio Colonna "per sicurtà del pontefice" (Guicciardini, III, p. 118), che intanto lo aveva privato del vescovato e di tutti i benefici ecclesiastici. Poco dopo comunque il C., che aveva conservato le sovvenzioni francesi, ottenne il perdono del papa, ma non la restituzione del presulato.
Morto Giulio II (nella notte tra il 20 e il 21 febbr. 1513), il C. si accinse a marciare armato su Roma, dove voleva assaltare il palazzo del cardinale Antonio Del Monte, il quale aveva ottenuto il vescovato di Rieti in sua vece, ma fu convinto da Fabrizio Colonna ad affidarsi alla benevolenza del Sacro Collegio per essere reintegrato nei suoi diritti. Infatti al suo arrivo nella città egli fu accolto con indulgenza dai cardinali, che gli assicurarono la restituzione del vescovato, purché deponesse le armi e si ponesse a guardia del conclave. Salito al soglio pontificio, Leone X gli restituì Rieti e ogni dignità e prebenda, creandolo inoltre assistente di cappella. Con il consenso del papa, il C. rinunciò all'abbazia di Subiaco in favore del nipote Scipione, a cui il 14 marzo 1520 avrebbe lasciato anche il vescovato di Rieti.
Quando, nell'ottobre 1515, dopo la vittoria di Melegnano, Francesco I si abboccò a Bologna con Leone X, il C. fece parte del seguito del pontefice, profittandone per intercedere in favore dello zio Prospero, prigioniero dei Francesi; sembra anche che abbia accompagnato Francesco I in Francia, facendo ritorno dopo la liberazione del congiunto, nella primavera dell'anno seguente.
Subito dopo il C. si recò presso Massimiliano d'Asburgo, reduce in Germania dalla rapida e ingloriosa spedizione in Lombardia, pare per confermare la fedeltà della famiglia all'imperatore. Questi lo invitò a recarsi anche in Fiandra dal nipote Carlo. Il C. era alla corte di quest'ultimo, quando il 1° luglio fu creato cardinale. Il 30 ottobre, di nuovo a Roma, ricevette il cappello e il 13 novembre gli fu assegnato il titolo dei SS. Apostoli. Il C. riprese così a vivere nell'Urbe, dove nel luglio del 1519 celebrò con una festa l'investitura di Carlo V a re dei Romani, avvenuta alla fine del mese precedente. Il 7 genn. 1521 ottenne l'amministrazione della diocesi di Potenza, che tenne fino al novembre 1526.
Morto Leone X (1° dic. 1521), il C. osteggiò con decisione la candidatura di Giulio de' Medici, benché anche questi appartenesse al partito filoimperiale. Fatto papa Adriano VI, il C. fu uno dei due (poi tre) legati incaricati dai cardinali di recarsi in Spagna presso il pontefice eletto.
Nell'indecisione che caratterizzò questa mancata missione, il C. se ne andò a Frascati prima e a Subiaco poi, tornando a Roma nel febbraio del 1522, per ricevere pochi mesi dopo dal Sacro Collegio la carica di governatore di Rieti, di Amelia e di Terni, della quale ultima aveva tenuto l'amministrazione vescovile dal maggio al dicembre del 1520. Quando alla fine d'agosto Adriano VI giunse a Civitavecchia, il C. era uno dei rappresentanti incaricati dai cardinali dì accoglierlo. Fu lui a rivolgere un'allocuzione al papa, con il quale si reimbarcò, accompagnandolo a Roma con un viaggio travagliatissimo.
Sembra che il C. abbia intrattenuto buoni rapporti con questo austero pontefice, che nel febbraio del 1523 lo nominò membro di una commissione di tre cardinali, incaricata di esaminare la possibilità di una guerra dei principi cristiani contro i Turchi, e poi legato in Ungheria. Il C., il quale nella stessa epoca fu fatto amministratore della Chiesa di Catania, che tenne per meno di un anno, non si mostrò però molto attivo, interpretando forse la legazione come un incarico militare e non politico-diplomatico; infatti si limitò a chiedere fondi al papa per armare i Boemi.
Nel conclave seguito alla morte di Adriano VI (14 sett. 1523) il C. fu a capo del partito che si opponeva all'elezione di Giulio de' Medici. Le contrattazioni che si intavolarono in quell'occasione portarono però presto il C. alla convinzione che non c'erano per lui possibilità di accedere alla tiara e che era probabile un successo del Medici, da cui non conveniva essere esclusi. Pare che il futuro Clemente VII promettesse al C. la vicecancelleria in cambio dei voto suo e di quello dei componenti dei gruppo che a lui faceva capo. In effetti Clemente VII si mostrò grato al C., ammise pubblicamente di dovergli l'elezione, gli concesse, l'11 genn. 1524, l'ufficio di vicecancelliere, il palazzo Riario e quello della Cancelleria. Lo stesso giorno il C. passò al titolo di S. Lorenzo in Damaso; il 18 gennaio otteneva l'amministrazione della diocesi di Acerno, che tenne fino al giugno 1525. Nel luglio del medesimo anno ottenne quella dell'Aquila.
Le relazioni del C. con Clemente VII, all'inizio almeno improntate a buona volontà, si andarono deteriorando a mano a mano che il papa si allontanava da un atteggiamento e da una politica filoimperiali.
Così l'annuncio della battaglia di Pavia (24 febbr. 1525), causa di smarrimento per il pontefice, provocò nel C. esultanza incondizionata, che manifestò organizzando conviti e recite in casa sua; a nuove celebrazioni, organizzate dal C. il 1° maggio in occasione della pubblicazione della lega stretta dal pontefice un mese prima con il viceré di Napoli, partecipò lo stesso Clemente VII; ma nell'ottobre il C. abbandonò Roma, mentre giungeva la notizia dell'arresto a Milano di Girolamo Morone, che accresceva lo sbigottimento del papa.
In stretta collaborazione con gli inviati imperiali, il C., di cui si cominciava già a vociferare che volesse esser fatto viceré di Napoli, "cavalcava armato" fra i castelli della famiglia nella Campagna romana e il Regno, profferendo minacce contro Clemente VII. Costui, giustificatamente indignato, si oppose a che il C., allora a Zagarolo, partecipasse ai colloqui che il duca di Sessa intavolava nel marzo del 1526, nel tentativo di evitare che il papa aderisse - come invece avvenne nel maggio successivo - alla lega antimperiale. Del resto più volte il C. aveva offerto a Carlo V di, suscitare a Roma una rivolta antipapale e il pontefice già dal 24 gennaio aveva pubblicato una bolla che invitava a prendere le armi contro il C., considerato un ribelle.
Dopo una riunione nel luglio a Marino fra i Colonna e i due inviati di Carlo V il duca di Sessa e Ugo di Moncada, mentre quest'ultimo intratteneva sterili trattative con Clemente VII, i Colonna occuparono Anagni. Successivamente, in seguito a un trattato del 20 agosto, acconsentirono a sgombrare la cittadina e a ritirare le loro forze nel Regno: in cambio il papa concedeva il perdono e ritirava il monitorio contro il Colonna. Costui ed i consorti però non avevano alcuna intenzione di mantenere i patti, ma solo di far sì che il pontefice sguarnisse Roma dei presidi armati, come in effetti accadde. I Colonna allora, riuniti cinquemila uomini davanti ad Anagni, raggiunsero l'Urbe dopo una marcia forzata, il mattino del 20 settembre e, impadronitisi di porta S. Giovanni, penetrarono nella città al grido di "Impero e libertà".
Gli invasori si portarono prima in piazza SS. Apostoli, poi, mentre la popolazione, arringata e rassicurata dal C., rimaneva impassibile ad assistere al passaggio delle truppe, attraverso porta S. Spirito penetrarono in Borgo e arrivati in Vaticano presero a saccheggiare le abitazioni del papa e dei prelati e la basilica stessa, mentre Clemente VII si rifugiava in Castel Sant'Angelo. La sera stessa il Moncada fu chiamato a parlamentare con il pontefice, cui riconsegnò il pastorale e la tiara, rimasti preda dei saccheggio.
Le trattative, proseguite il giorno dopo, portarono ad un armistizio di quattro mesi, con la promessa dell'amnistia per i Colonna. Il giorno 22 il C., rimasto sempre "in sella fra le genti sue", si ritirò con tutte le truppe a Grottaferrata.
Era profondamente insoddisfatto, poiché il suo intento non era stato soltanto quello di umiliare il papa, ma di deporlo e magari ucciderlo. Era infatti opinione comune, secondo quanto afferma il Guicciardini (V, p. 79), che il C. mirasse ad "occupare con le mani sanguinose e con l'operazioni scelerate e sacrileghe la sedia vacante del pontefice".
Questa volta neanche Clemente VII aveva intenzione di serbare i patti e, riunito agli inizi di novembre un concistoro, inviò al C. un monitorio con l'ingiunzione di venirsi a discolpare su quanto aveva operato. Da Napoli, dov'era occupato a far gente, il C. rispose con la proposta di riunire un concilio in Germania. Prima della fine di novembre il papa fece assaltare le case dei Colonna a Roma ed i loro possedimenti nella Campagna romana, privò il C. della porpora, della carica di vicecancelliere e di ogni dignità e rendita ecclesiastiche.
In effetti il C. pareva ritornato al suo antico mestiere di soldato. Ai primi di dicembre egli accolse al suo sbarco a Gaeta il Lannoy, venuto a difendere il Regno. All'inizio del 1527 partecipò ad un fatto d'arme vicino a Frosinone e rimase in campo fino al 15 marzo, quando il papa, premuto dagli eventi, ratificò l'armistizio del settembre. Com'è noto i lanzi, guidati dal Borbone, che scendevano verso Roma non si curarono di questo armistizio e pare che dal Borbone stesso il C. fu pregato di provvedere ad artiglierie ed approvvigionamenti.
Partito da Fondi, il C. giunse nell'Urbe qualche giorno dopo l'inizio del sacco, facendo strada a parecchie migliaia di villani, che rastrellarono "quel poco di povertà" rimasta, cavando "fino le ferramenta dalle case et muraglie" (Sanuto, XLV, col. 167).
Gli storiografi sono concordi nell'attribuire al C. sentimenti di desolazione e di dolore per quanto stava avvenendo alla città e alla cittadinanza. Egli si adoperò per proteggete in qualche modo quanti poté, molti ricoverò nella sua casa e per molti presi prigionieri si interpose, tanto che su questo argomento Pietro Alcionio compose un'Oratio pro S.P.Q.R. ad Petrum Columnam de Urbe servata, dedicata al segretario del C., Umberto Strozzi (Bibl. Apost. Vat., Vat. lat. 3436, cc. 42r - 54r).
Dopo aver fatto bruciare una vigna del papa, cui questi teneva molto, il 1° giugno il C. fu ricevuto dal pontefice stesso. I due nemici mescolarono le loro lacrime sulle conseguenze della politica dell'uno e della fedeltà dell'altro all'imperatore, giunta fino alla ribellione al Papato. Certo è che da quel momento il C. prese a cuore la sorte, di Clemente VII, gli procurò denari e gli servì da tramite nelle trattative per la sua liberazione. Il papa a sua volta emanò il 6 dicembre più brevi, in cui riconosceva questi meriti del C. e gli concedeva la legazione della Marca d'Ancona. Non essendo stato però accettato dagli Anconetani quale legato, il C. il 18 genn. 1528 fu fatto governatore a vita di Tivoli. Nel febbraio del medesimo anno il C., che aveva, dopo averli portati a Grottaferrata, liberato quasi subito i due cardinali ricevuti in ostaggio alla ratifica degli accordi fra il papa e i lanzi alla fine dell'anno precedente, richiese al pontefice il suo parere sull'eventualità che egli - come era richiesto - si portasse nel Regno presso il principe d'Orange. Clemente VII lo lasciò libero di fare come credeva ed in effetti alla fine del mese il C., cui era stata restituita anche la carica di vicecancelliere, partì per Napoli. Ma non vi si fermò. Egli non approvava infatti la decisione dell'Orange di chiudersi nella città, opponendo al Lautrec una resistenza difensiva. Il C. si portò a Gaeta, dov'era al comando di 900 fanti italiani e 600 spagnoli e da qui seguì tutti gli avvenimenti successivi nel Regno, informandone anche il pontefice. Si assunse anche il compito di riscattare i consorti Ascanio e Camillo, caduti prigionieri di Andrea Doria, mentre questi era ancora al servizio dei Francesi; non riuscì però ad impedire, mentre Napoli era assediata, che i Caetani riconquistassero, con suo grande rammarico, Fondi.
Volte al meglio le fortune degli Imperiali nel Regno il C., verso la metà di settembre, raggiunse Napoli, recando soccorso di denari. Quando dopo la conclusiva vittoria dell'Orange sui resti dell'esercito francese il condottiero, divenuto viceré, si trovò a fronteggiare nel Parlamento da lui convocato la resistenza dei nobili napoletani alla richiesta di un donativo, il C. fece opera di mediazione, riuscendo a comporre la vertenza. In questo periodo diede anche prova di clemenza, interponendosi in favore di nobili perseguiti perché ritenuti filofrancesi. Minore moderazione mostrò invece quando il principe d'Orange, partito per l'assedio di Firenze, gli affidò come luogotenente il governo del Regno.
Non era una situazione facile quella che doveva affrontare il C.: il Regno era straziato dal banditismo, dal pericolo delle scorrerie corsare, dalla piaga di truppe mal pagate e quindi indisciplinate e soprattutto da uno stato economico rovinoso, causato, oltre che dal sistematico sfruttamento spagnolo, dalla guerra e dalle epidemie appena superate.
Il C. credette di poter fronteggiare la situazione non con qualche riforma strutturale, ma soltanto con la fermezza e la durezza, che in fondo manifestavano mancanza di idee e timore di non rivelarsi all'altezza del compito. Commise, inoltre, l'errore di non tenere nella dovuta considerazione i diritti acquisiti dalla nobiltà napoletana nei confronti del potere spagnolo. Alla morte dell'Orange (3 ag. 1530) la luogotenenza gli fu rinnovata per tre anni e la sua speranza di divenire viceré di diritto aumentò.
Il 14 dicembre del medesimo anno, per volere di Carlo V, cui abbonò così un debito di 15.000 ducati, al C. fu concesso il ricco arcivescovato di Monreale. Aveva ottenuto i vescovati di Nicotera dal 30 ott. 1528 fino al 5 dic. 1530, di Aversa dal 20 apr. 1529 al settembre dello stesso anno e di Sarno dal 24 ag. 1530, ma aveva ceduto di nuovo nell'agosto 1529 Rieti, tornata a lui per la morte del nipote Scipione; avrebbe avuto poi il vescovato di Giffoni, il 6 sett. 1531.
Il governo del C. incontrò una forte opposizione. Tra l'altro gli si rimproverava l'appartenenza allo stato ecclesiastico, come rilevava un membro del Consiglio di S. Chiara in una sua relazione del novembre 1529 sullo stato del Regno. Sostanzialmente negativo era anche il giudizio su di lui espresso in un'altra relazione all'imperatore, del 1531, di Iñigo Lopez de Mendoza, vescovo di Burgos. Decisiva, infine, fu la sua lotta contro il Parlamento, nei confronti del quale cercò di imporsi con la stessa durezza esibita nell'amministrare la giustizia nella città - e non solo nella città - di Napoli.
Al Parlamento riunito l'11 giugno 1531 il C. richiese a nome di Carlo V un donativo di ben 600.000 ducati. Una somma che una provincia stremata non era effettivamente in grado di fornire ed una richiesta che non teneva conto dell'apporto dato dai Napoletani alla guerra contro i Francesi. Dal punto di vista del C. invece, l'offerta di questa somma in un tempo relativamente breve era considerata un titolo che non avrebbe mancato di fornirgli la benevolenza dell'imperatore. Il Parlamento delegò un deputato, Ottaviano Carafa, che fece al C. reiterate controproposte, che egli non volle discutere. Il Parlamento allora decise di rivolgersi direttamente a Carlo V ed elesse come ambasciatore Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, che avrebbe presentato al sovrano i capitoli delle richieste, dichiarandogli inoltre l'impossibilità di effettuare una simile elargizione e protestando per l'atteggiamento del cardinale. Costui mise immediatamente in atto una contromossa, rifiutando al Sanseverino il permesso di uscire dal Regno; inoltre ottenne di far denunciare l'elezione del principe dai rappresentanti del Popolo, offrendo in matrimonio suo figlio Giovanni, avuto da una Giulia da Fondi, ad una figlia di Gerolamo Pellegrino, influente mercante. I nobili, capeggiati dal Sanseverino, non rinunciarono ai loro propositi e dopo altri tentativi di eleggere un emissario all'imperatore, scelsero un certo Giov. Paolo Coraggio. Il C. ebbe sentore della missione, anche se essa si stava avviando in gran segreto, e corse ai ripari inviando un corriere a suo nipote Marzio Colonna, che si trovava presso Carlo V, per prevenire quest'ultimo e denunciare la disobbedienza del principe di Salerno, che accresceva il turbamento e le difficoltà del Regno.
La missione del Coraggio, che il 28 agosto riuscì ad abboccarsi per primo con l'imperatore, ebbe pieno successo. Il sovrano si dichiarò pronto ad ogni dilazione per il pagamento del donativo, espresse il desiderio di vedere il principe di Salerno, dichiarò di voler inviare un viceré nel Regno, in sostituzione del Colonna. Nei primi mesi del 1532 il Sanseverino compì la sua missione presso l'imperatore e Pietro di Toledo fu nominato viceré. Il C. non dovette sottostare però all'umiliazione di lasciare a costui le consegne del suo ufficio, perché morì a Napoli il 28 giugno: improvvisamente, tanto che si opinò che fosse stato avvelenato, e tristemente, secondo un anonimo cronista che narra come prima della sepoltura il cadavere di lui giacesse abbandonato, mentre la casa era in preda al saccheggio.
Provvide onorevolmente al suo funerale Vittoria Colonna e fu seppellito nella sacrestia prima e traslato poi nella cappella dei principi di Sulmona nella chiesa del monastero di Monteoliveto.
Oltre a Giovanni, che fu legittimato dall'imperatore prima della morte del padre, aveva avuto due o tre figlie femmine. Come si deduce dalle lettere del nunzio Fabio Arcella, aveva fatto testamento in favore del figlio, entrato già il 4 agosto in possesso dell'eredità con beneficio dell'inventario. Ben presto però i beni del C. furono posti sotto sequestro, poiché si giudicarono appartenere, salvi i diritti dei creditori, - che risultarono "infiniti" - alla Camera apostolica.
Il C., di cui nella Galleria Colonna si conservano due ritratti, uno di Lorenzo Lotto e l'altro di Agostino Carracci, esplicò anche un'attività di poeta e di scrittore e fu in contatto con i letterati dell'epoca, fra cui Francesco Maturanzio, Tamira Macaroccio, Marcantonio Casanova, Pietro da Volterra. Paolo Giovio ne scrisse la vita, De vita Leonis decimi... et Pompei Columnae, Florentiae 1548; Giano Anisio gli dedicò i suoi Varia poemata et satyrae (Neapoli 1531) e le Satyrae (ibid. 1532); Lucio Domizio Brusoni i suoi Facetiarum exemplorumque libri VII (Romae 1518); Gerolamo Balbo la De cladibus Italicis elegia e il De Pace inter christianos principes ineunda (edite in Opera, a cura di I. de Retzer, I, Vindobonae 1791, pp. 138-41; II, ibid. 1792, pp. 177-234). Versi in suo onore composero Pietro Gravina (Poematum libri, s. l. né d., pp. 4r, 13v, 14r, 15v), Pietro Corsi da Carpineto (Epigrammata, in Bibl. Apost. Vaticana, Vat. Lat. 7182, cc. 106r, 109rv, 125rv), Antonio Teobaldeo (Ibid., Ottob. lat. 2860, c. 34v), Gerolamo Borgia (Epigrammatum liber primus: Ibid., Barb. lat. 1903. c. 9v). Matteo Bandello gli dedicò la LII della prima parte delle sue Novelle.
Della sua opera di poeta si conosce un solo epigramma, pubblicato un secolo dopo la sua morte in Il Forastiero (Napoli 1634, pp. 446-55) da Giulio Cesare Capaccio, che scrisse anche una vita di lui, rimasta inedita (Vitae nonnullorum Neapoli proregum, in Bibl. Apost. Vat., Urb. lat. 971, cc. 35r-44v). Il C. fu, inoltre autore delle Apologiae mulierum (edite ora in G. Zappacosta, Studi e ricerche sull'umanesimo italiano, Bergamo-Milano-Firenze-Roma-Messina 1972, pp. 159-246), dedicate a Vittoria Colonna, che scrisse un sonetto per la sua morte. È questo un trattato filosofico-morale in latino, in cui l'autore dimostra come la natura delle donne è la stessa di quella degli uomini e che quindi queste non sono né peggiori, né migliori di quelli. Le fonti di esso, diviso in due libri e scritto sicuramente dopo il 1525, vanno da quelle classiche a quelle contemporanee all'autore, con particolare riferimento a Cornelio Agrippa, di cui sicuramente egli tenne presente il De nobilitate et praecellentia foeminei sexus.
Il C. dunque, che nelle azioni politiche era rimasto ancorato a una concezione sostanzialmente medievale del rapporto fra Roma ed il Papato ed aveva fallito quando si era inserito in una realtà più vasta, aggiunge alla sua personalità, con quest'opera, un tratto di modernità e di anticonformismo.
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