DELLA CESA (Dalla Cesa, Della Chiesa), Pompeo
Fu figlio di un Vincenzo, del quale si ignora il mestiere.
Il padre P. Morigia (Nobiltà di Milano, Milano 1595) non cita il D. nel libro quinto, dove ricorda, oltre a pittori, scultori, architetti, anche i "virtuosi in diverse sorti di virtù...", evidentemente perché il D. non era nativo della città: egli infatti afferma di avere scritto "per dare splendore à molti spiriti, che sono stati di natione Milanesi". Se il D. non era milanese, il predicato "Della Cesa" dovrebbe essere di provenienza, ma ormai, come chiariscono le testimonianze documentarie, bene acquisito come cognome; in questo caso sarebbero da considerare almeno le due frazioni di nome Chiesa, situate una nel Bresciano e l'altra nel Bergamasco.
Otto documenti degli anni tra il 1572 e il 1593 attestano l'attività del D. come armaiolo regio a Milano presso la corte del governatore di Filippo II, al Castello. L'11 ott. 1572 (non 1571, come erroneamente lesse Baudi di Vesme, 1928) il D. scriveva al duca Emanuele Filiberto di Savoia, a proposito di un'armatura commissionatagli, firmandosi "Pompeo dalla Cesa Armarolo". Nel 1578 (13 dicembre) scriveva a Torino al marchese Filippo d'Este, generale della cavalleria sabauda, a proposito di un'altra commissione per il duca Emanuele Filiberto e si firmava "Pompeo della Cessa armarollo" (Beltrami, 1919, pp. 22 s.). Il 6 marzo 1585 il mercante Giovanni Antonio Perego, in Milano, chiedeva al governatore della città di poter esportare a Siviglia dodici coppie di morione e rotella, fatte fabbricare a "D. Pompeo de la Cesa armarolo della corte di V. Ecc.a" (Angelucci, 1890, p. 123). Nel 1586 (3 febbraio), "maestro Pompeo della Cesa, maestro d'armi, del fu Vincenzo" della parrocchia di S. Tecla, "che abita in Corte del Principe governatore di questo Stato", fa da compare al battesimo del figlio di Giovanni Battista Bossi, "armirolo", nella chiesa di. S. Michele al Gallo in Milano (Gelli-Moretti, 1903, p. 23). Nel 1586 (28 ottobre) vengono saldati dalla corte di Parma "A Pompeo della Cesa Armarolo in Milano scudi 351, soldi 21, den.i 1 per resto di scudi 842 soldi 17" per un'armatura fatta al duca Alessandro Farnese (Angelucci, 1890, p. 123). Nel 1592 (28 luglio) da Marmirolo (Mantova) il duca Vincenzo I Gonzaga fa comandare al presidente del Maestrato di Mantova di saldare "a Pompeo della Chiesa armarolo regio in Milano" 140 ducatoni per armature fattegli sino ad allora (Bertolotti, 1885). Nel 1593 (3 gennaio) si annota in Parma che un Pier Antonio Crasso deve avere 720 scudi "per valuta di Ducatoni 500 a soldi 114 per Ducatone di Milano, et in Parma a lire 7 soldi 4 l'uno, pagati a Pompeo Cesa Armarolo della Corte" per una armatura fatta per il duca Alessandro Farnese, morto esattamente un mese prima (Angelucci, 1890, p. 123). In un documento senza data "Pompeo della Cesa armarolo de V. ecc. a" chiede al governatore di Milano di poter esportare a Genova "una armatura con doij corpi e tre cellate per il s.r Antonio Cavalino" da lui fatta.
Questi otto documenti riguardano direttamente l'attività del D., ma ad essi se ne può aggiungere un altro, molto posteriore certo alla sua scomparsa: nel 1643, il 25 ottobre, tra quanto viene consegnato in Guadalajara dal duca del Infantado al suo nuovo armiere maggiore, si cita un'armatura specificando che "éste arnés es de Pompeyo" (Documentos inéditos..., 1882). Il 25 agosto del 1584, infine, un agente di Giovanni Battista Rovero, capitano del duca di Savoia Carlo Emanuele I, "havendo fatta fare un'armatura per la persona desso Ill.mo S.r Gio. Batta Dal Armarolo di V. Ecc.a", ne chiede al governatore di Milano la esportazione (Gelli-Moretti, 1903, p. 24); il documento già citato del 1585 attesta che in quel periodo l'armaiolo di corte era appunto il Della Cesa.
Tra i suoi alti committenti erano i Savoia, i Farnese, i Gonzaga e gli Este: fabbricava armi costose, apprezzate ed esportate anche Oltralpe. Nel 1572 doveva già essere ben affermato, e aveva almeno trentacinque anni; nessuna armatura tra quelle da lui firmate può essere datata oltre gli ultimi anni del secolo, perciò si deve ritenere che egli sia stato attivo nell'ultimo quarantennio del sec. XVI, con particolare prestigio dal 1565 circa in poi.
Il problema degli effettivi contenuti dell'attività del D. va però senz'altro affrontato, specie sulla base dei documenti del 1572 e del 1578.
Nel primo (1572), di ritorno a Milano dopo un viaggio alla corte del duca di Savoia, cui aveva lasciato una "mostra" (un pezzo d'armatura decorato, tale da rendere l'idea del prodotto finito), scriveva di averne "fatto far un'altra ... alla quale se gli è fatto un'altro ornamento" per confrontarle. Precisava che "per la mia fantasia sarebbe meglio che V. Alt.a pigliasse la prima che io portai adorata tutta d'or' masenato" (mentre la seconda, che riunisce al lavoro a oro macinato anche la "agemina", avrebbe complicato l'impegno e reso difficile una buona riuscita almeno per i pezzi di maggior superficie). Inoltre, avvertiva che "per non perdere tempo, ho incominciato à far fare diversi pezzi dell'arm.ª che V. Alt.ª m'ha comandato".
Nel secondo (1578) scrive di non avere "in casa" un'armatura adatta al duca di Savoia ma di averne "trovato una adorata da cavallo legiero" e anche "un altra lavorata ala agemina de argento... da cavallo legiero et de homo d'arme et per combatere di torneo", mandando le "mostre" di entrambe.
Questa lettera prova che il D. non si sottraeva, al caso, a ricercare presso terzi armature per un'alta committenza cui teneva e che lo stimava. Non è dubbio che qui si tratti di armature altrui già decorate; le osservazioni sulle loro misure confermano la destinazione immediata di un prodotto finito. Ciò però non fa del D. un intermediario abituale o un mercante; era "armaiolo regio" di Filippo II, lavorava in Castello, è citato come "maestro" in un atto pubblico, "fabbrica" o "fá" armature come si legge negli altri documenti. La lettera del 1572 chiarisce invece il processo produttivo: le espressioni "hò fatto fare", "se gli è fatto", "ho incominciato à far fare" si riferiscono al proprio lavoro in Castello; le preoccupazioni sulle difficoltà operative parlano chiaro e si spiegano solo per un impegno diretto.
Qui si tocca un punto essenziale, l'autografia dell'opera, tenendo conto che nessuna arma era mai stata fatta da un solo artefice e che essa era sempre il prodotto di un gran numero di interventi e di capacità. Per un'armatura, l'intervento del maestro stava nel capire e orientare il committente ("per la mia fantasia" dice al duca), nel progettare o scegliere le forme dell'insieme e dei singoli pezzi, nell'inventare soluzioni, nel decidere e condurre, o saper direttamente eseguire, sia la struttura sia i decori; ogni maestro aveva un passato di capacità manuali e progettuali comprovato, e doveva intervenire a risolvere i problemi e a correggere i suoi lavoranti. All'impegno più diretto in senso operativo avranno, come sempre, concorso altre motivazioni: il desiderio e l'importanza del committente, il piacere personale di fare o di ricercare, le condizioni del momento. Ciò che esce dall'officina del D. "è", quindi, opera sua e a lui ne risalgono responsabilità e merito.
Che egli fosse uno stilista di armature non è dubbio. I suoi prodotti hanno molte caratteristiche strutturali specifiche che fecero scuola e mostrano che egli ebbe occasione e capacità di studiare gli antichi esempi del Quattrocento italiano, certo in qualcuna delle armerie principesche praticate, come per le buffe, i guardabracci, il modellato degli arnesi, le articolazioni in fondo alle schiniere. Altre particolarità minori, ma non meno significative, si ritrovano sovente nella battuta della ventaglia sulla barbozza dell'elmetto o nell'uso di schiniere aperte al quarto posteriore interno. Più in complesso, colpiscono il rinnovo della linea italiana di libertà e monumentalità delle forme, e la scelta di mantenerle morbide quando altrove predominano geometrismi e spigolosità. Un ulteriore contributo del D. agli svolgimenti dell'armatura, e non solo italiana, sta nell'averne definito il tipo di "guarnitura" negli ultimi decenni del secolo. Questo apparato consisteva in un paio di insiemi di base che, con lo scambio o l'aggiunta o diminuzione di pezzi, si trasformavano per essere utilizzati secondo le circostanze (di guerra, di gioco guerresco, o quotidiane). Il D. preferiva la cosiddetta "piccola guarnitura": un'armatura da portare a cavallo e in guerra, integrabile per il torneo a cavallo, e un corsaletto da piede - con zuccotto - trasformabile in uno per il gioco della barriera; il tutto con pochi pezzi di scambio. Solo molto di rado compaiono i pezzi supplementari per la giostra a campo aperto. Infine, il D. sembra apprezzare anche la variante della armatura da cavallo, dove scarselle e gambiere venivano sostituite - sul vecchio esempio tedesco dello Harnasch - da ginocchiali a crosta di gambero che scendevano dalla vita al ginocchio adattandosi al bacino e all'arto; talora essi si potevano un poco scorciare eliminando il ginocchiello, per cui si trasformavano (usando un copricapo aperto sul volto) in un vero e proprio corsaletto per ufficiale di fanti a piedi.
Accanto agli interessi tecnici e strutturali, il D. qualificò nettamente la decorazione dell'armatura italiana del secondo Cinquecento. Mentre nella Milano del tempo Lucio Piccinino portava a termine negli anni Ottanta il lungo processo dell'armatura di lusso sbalzata e ageminata preziosamente, il D. raccoglieva l'eredità della decorazione a liste incise, rinnovandone i contenuti, i mezzi espressivi e il messaggio. Le vecchie liste annerite, sulle quali spiccavano grottesche e rozzi trofei politi, e quelle delle armature di qualità, con le liste dorate ornate di girali e trofei, trovarono col D. una nuova organizzazione formale. Egli non disdegnava i vecchi moduli, specie nei primi lavori, ma ben presto il lessico e la sintassi decorativa mutarono. Le liste decorate si alternavano come prima a quelle lisce (che restavano polite o erano azzurrate), sventagliandosi dal basso verso l'alto su petto e schiena e adattandosi sugli altri pezzi a seconda dei loro andamenti plastici. Cambiava il modulo, perché le liste incise si componevano a loro volta secondo due temi (alcune a trofei e altre a girali, per esempio). Il D. riprese anche il gusto dei sottili nastri bicolori (bianco e oro, nero e oro, bianco e nero) che si intrecciavano in nodi molto complessi e delineavano formelle mistilinee o prendevano in mezzo ovati entro cui si disponevano figure allegoriche o classicheggianti, imprese, grottesche. Su altre liste i trofei si alternavano a nuovi ovati, nei quali apparivano soggetti o temi diversi dai precedenti. In questo modo i due sistemi di liste si configuravano come insiemi alternativi ma compresenti, e si aprivano ad ogni fantasia decorativa.
La tecnica del D. era rapida e robusta, talora poco raffinata, ma l'effetto complessivo di prim'ordine; la ripetizione dei moduli era scontata, ma le varianti organizzative offrivano sempre qualche cosa di nuovo, fino a rendere evidente il nesso strettissimo tra queste soluzioni dell'apparecchio militare e guerresco e quelle analoghe e sincrone delle liste e dei galloni del costume civile. Le forme del busto, le linee di spalla e di vita, il garbo dei fianchi di armature e corsaletti si modellavano come nell'abito quotidiano. Si tratta del resto di un processo comune in tutta Europa a partire dai primi anni del Cinquecento: il venire progressivamente meno a necessità funzionali riapriva l'armamento ai canoni della moda civile.
In parallelo a questo linguaggio, il D. approfondì altre possibilità espressive, certo anche sullo spunto di consimili esperienze tedesche: quelle dello svolgimento di decori liberi sull'intera superficie disponibile. Proseguendo su questa via - ma sempre sperimentando al contempo i sistemi a liste - il D. compì un altro passo decisivo: trasferì sulle superfici d'acciaio i motivi dei velluti "cesellati", dove un reticolo di larghi spartiti sinuosi, argentati o dorati, variamente definiti mediante un lessico fitomorfo stilizzato, racchiudeva contro fondi azzurri o bronzati altre formelle mistilinee contornate da racemi e caricate da piccole figure.
Infine, sempre il D. portò al limite questa riconquista delle superfici tenendo fermo l'intento ma modificando il mezzo espressivo. Il richiamo naturalistico, mediato, però ancora presente, nelle soluzioni precedenti, cedeva alla compattezza di ricorsi orizzontali di formelle mistilinee e di arcatelle, ciascuno sfalsato sulle mezzerie dei due che lo comprendevano, riempiendo le campiture di emblemi araldici o di imprese. Di nuovo, quindi, il D. si conferma stilista creativo.
La sua produzione certa è quella che ne reca inciso il nome "Pompeo" per esteso o variamente abbreviato. La segnatura compare al sommo del petto, su uno dei listelli che contornano lo scollo, oppure in cartellette ovate o mistilince sotto lo scollo o sotto la più alta delle figurazioni della lista mediana del petto. Di rado il nome è ripetuto a metà altezza della schiena; non compare altrove.
Si è assai discusso, alla luce di alcune fra le cose prima ricordate e di questo tipo di segnatura, se il D. non fosse unicamente un incisore e decoratore, ma l'ipotesi è da scartare per quanto visto a proposito della manifesta progettualità tecnico-strutturale delle sue opere. Inoltre va detto che, a differenza degli armaioli d'Oltralpe, nell'Italia del Cinquecento si "marcava" al punzone assai di rado (e quasi sempre sui pezzi "da munizione" andanti), mentre quando si segnavano le armature di qualità - e anche questo non costituiva la regola - lo si faceva incidendo per esteso il nome o restringendosi alle iniziali (e qui più probabilmente compariva proprio l'incisore piuttosto che l'armaiolo). È comunque da sottolineare che N. Silva, i Negroli e il D., vale a dire il meglio degli armaioli milanesi, furono contemporaneamente artefici e decoratori dei loro prodotti. Ancora: che la decorazione a sbalzo e cesello comportava senz'altro una più personale partecipazione dell'armaiolo al prodotto finito, anche se fosse partito da un armamento predispostogli - su suo progetto - da altri lavoranti, o se alcuni di questi avessero poi potuto rifinirlo in qualche parte.
Il catalogo delle opere firmate dal D. si è assai allargato negli ultimi trent'anni e va aggiornato e corretto. Per comodità lo si può dividere secondo il tipo di decorazione, ma confrontando le datazioni certe e quelle possibili si vede che in non pochi casi le diverse esperienze sono sincrone. Possiamo dividere le sue opere nelle seguenti tipologie: a) liste strette annerite, dove spiccano i cosiddetti trofei, alternate ad altre lisce e polite: si tratta di otto insiemi (armature, corsaletti o loro resti) con altrettante firme;
b) liste annerite, con figure, emblemi e grottesche, alternate ad altre lisce e polite: un insieme con una firma;
c) liste dorate, con motivi di base politi e/o anneriti ripetuti, talora con nodi e arabeschi, alternate ad altre lisce, polite o colorite: quattro insiemi - uno dei quali corrisponde al documento del 25 ott. 1643 - con altrettante firme;
d) liste dorate, ornate di formelle con o senza figure, senza nodi, alternate ad altre più strette, polite o colorite: sei insiemi con sette firme;
e) liste adiacenti separate solo da listelli - operati o politi - le une con un motivo di base e le altre a trofei: due insiemi con quattro firme;
f) liste adiacenti separate solo da listelli politi, le une con nodi e formelle a figure ed emblemi, le altre ancora a trofei: sette insiemi con otto firme; g) liste adiacenti separate solo da listelli politi, le une con intrecci di formelle, le altre a trofei e grottesche con ovati a figure: un insieme con una firma;
h) superfici completamente coperte a racemi, con altri ornati o grottesche: due insiemi e un elmetto separato - corrispondente al documento del 28 luglio 1592 - con due firme;
i) superfici completamente coperte a motivi di tessuto "a rete" con formelle e spartiti o trofei e figure: tre insiemi con quattro firme;
l) superfici completamente coperte a ricorsi di piccole campiture sfalsate arcuate al sommo, contenenti emblemi: due insiemi con due firme.
Si passa così a individuare trentasette tra guarniture, armature, corsaletti, o loro resti separati, con quarantuno firme.
Non si può qui affrontare il tema delle possibili attribuzioni al D., ma va detto che gli si possono ragionevolmente accordare almeno altri cinque insiemi non firmati (ma uno di essi è privo del petto, dove in genere compare la firma). Uno è del gruppo decorativo tipo b, gli altri appartengono al tipo d, e uno di questi mostra la ben nota "cartelletta ovata" usata dal D. in una delle più comuni varianti della propria firma, cartelletta dove però le lettere sono abrase (ma il pezzo è un dono del governatore di Milano, duca di Terranova, all'infante di Spagna don Filippo, poi Filippo III, ed è presumibile che sia stato fatto o controllato dall'armaiolo regio). Tra i musei che conservano opere del D. o a lui attribuibili si citano: Firenze, Museo Stibbert; Torino, Armeria reale; Napoli, Museo e Galleria naz. di Capodimonte; Milano, Museo Poldi Pezzoli; Piacenza, Istituto Gazzola; Parigi, Musée de l'Armée; Londra, Wallace Collection; Madrid, Real Armería; Vitoria, Armería; Vienna, Waffensammlung; Muiden, Muiderslot Rijksmuseum; Valletta, Armeria del palazzo dei Cavalieri; Filadelfia, Kienbusch Armory; Worcester, Mass., Higgins Armory.
Partendo dall'analisi delle forme generali, sarebbe assai arduo datare gli ultimi lavori del D. oltre la fine del secolo; anzi, poiché nel 1595 egli non compare in atti che pure lo avrebbero dovuto coinvolgere, è da pensare che a tale data fosse già defunto, o almeno avesse lasciato il suo posto di armaiolo regio e non esercitasse più. Fu certo il maggiore artefice tra gli armaioli milanesi dell'ultimo Cinquecento del quale ci siano giunte opere sicure; il maestro dal Castello, il maestro IO dal Castello e il maestro LB dall'Orbe raccolsero la sua eredità sul finire del secolo, con tutta la schiera minore che concorse a proporre molti contenuti della linea italiana nei processi dell'armatura europea del tempo.
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