VARESE, Pompeo
– Nacque a Roma nel 1624 da Giovan Pietro e da Maddalena Tassi. La famiglia era di origini lombarde e si era trasferita a Roma nel corso del XVI secolo, impegnandosi nelle attività finanziarie.
Il nonno di Pompeo, Girolamo, possedeva un ‘banco’ e aveva ricoperto l’incarico di depositario del cardinale Ferdinando de’ Medici. Stabilita la residenza presso via Giulia, aveva sposato Giulia Arrigoni, da cui aveva avuto quattro figli maschi. Tutti erano stati nominati nel testamento dallo zio, il cardinale Pompeo Arrigoni. Giovan Pietro, padre di Pompeo, poté contare anche sui 3000 scudi della dote della moglie, sposata nel 1621.
Varese si laureò in diritto civile e canonico all’Università La Sapienza di Roma; prese anche parte alle riunioni dell’Accademia degli Intrecciati. Iniziò quindi, sotto i migliori auspici, la carriera ecclesiastica: oltre all’ascendenza Arrigoni, poteva contare sullo zio Diomede Varese, avvocato concistoriale, e sulla rete di parentele acquisita tramite la madre, nipote del vescovo di Terracina Antonio Gottifredi.
Così, Pompeo fu nominato canonico della basilica Lateranense già alla fine di novembre del 1647 e vicegovernatore di Benevento nel 1656. Divenuto referendario di entrambe le Segnature nel 1657, passò al governo di Ancona nel 1659. Nel capoluogo della Marca viene ricordato soprattutto per i lavori al fondamentale asse viario per l’accesso alla città da Roma e dalla costa: la ‘via Grande’, che prese il nome di Varesina (l’attuale via Cialdini). Fu anche governatore di Perugia dal maggio del 1660. Rientrò a Roma nel novembre del 1661, quando fu nominato assessore del S. Uffizio. I ‘ruoli’ del palazzo apostolico del 1664 lo annoverano fra i membri della ‘famiglia’ di papa Alessandro VII.
Era ormai arrivato ai vertici della carriera di giurista: il 3 dicembre 1666 fu creato uditore della Sacra Rota e, a partire dalla fine di febbraio del 1668, governatore di Roma, ufficio con preminenti funzioni giurisdizionali. La giustizia penale nella capitale dello Stato ecclesiastico, negli anni in cui Varese ricoprì la carica, toccò vertici di spietata esemplarità: il 21 maggio 1670 furono impiccati quattro delinquenti che avevano ucciso un vignaiolo; squartati, i loro resti furono depositati nella strada in cui l’omicidio era stato commesso.
Varese cercò altresì di regolamentare la vita teatrale cittadina. Il 6 gennaio 1671 emanò un bando «acciocché la tolleranza delle commedie pubbliche permesse per honesta ricreatione de’ popoli non dia occasione a dissolutezze e scandali» (cit. in Franchi, 1997). Alla fine del mese successivo, infine, egli fu nominato nunzio pontificio presso la Repubblica di Venezia, dove arrivò nella primavera del 1671, quando da poco (19 gennaio 1671) era stato creato vescovo in partibus di Adrianopoli.
Subito, rispondendo a istruzioni della Segreteria pontificia, tentò di informarsi se la Serenissima fosse disposta ad aiutare i polacchi contro i turchi, che puntavano a invadere la Podolia. Varese non poté fare altro che ricordare a Roma la consueta prudenza veneziana nei confronti della Porta: quindi, dopo l’effettivo scoppio del conflitto, nell’agosto del 1672, ottenne risultati decisamente contraddittori, dal punto di vista di papa Clemente X: Venezia acconsentì infatti a inviare gli aiuti finanziari richiesti in Polonia, ma li avrebbe fondati sui proventi di un sussidio imposto agli ecclesiastici dello Stato. Così, nell’aprile del 1673, gli giunsero da Roma chiare istruzioni di evitare tale prelievo.
Durante gli anni della sua nunziatura, Varese affrontò anche contrasti di confine sul Ferrarese, sorti in occasione di sospetti di peste e risolti poi a vantaggio dello Stato veneziano. Cooperò altresì attivamente con il S. Uffizio, cercando di ottenere un arresto dissimulato dei fratelli Girolamo e Luigi Malvasia, che avevano organizzato la fuga dalle carceri bolognesi di Giuda Vega (alias Emanuele Passarino), ebreo convertito condannato con pena capitale in contumacia per apostasia. A questo scopo, alla metà di luglio del 1674 fece richiesta in Senato di assistenza giudiziaria, ma non ottenne risposte positive. Aveva avuto migliori risultati, pochi mesi prima, nel caso di Antonio Vigliotti, colpevole di aver celebrato messa senza essere stato promosso al sacerdozio. Varese, secondo le istruzioni fattegli avere dal S. Uffizio romano, si adoperò per salvare il reo da possibili violenze da parte dei fedeli ingannati e per evitare una dura condanna da parte dell’Inquisizione veneziana. A partire dall’autunno del 1674, lo tenne particolarmente impegnato il cosiddetto affare degli ambasciatori.
L’11 settembre 1674 era stato emanato a Roma un Editto sopra l’augumento di tre per cento imposte sopra le robbe di seta e lana forestiera, che eccettuava i corredi dei rappresentanti diplomatici accreditati presso la S. Sede soltanto in occasione del loro arrivo a Roma e del loro ingresso in carica. Si trattava di un pesante attacco alla generale franchigia doganale di cui tutti gli ambasciatori avevano goduto fino a quel momento e della quale essi approfittavano per esercitare lucrosi commerci. Il cardinale César d’Estrées – incaricato di fatto del re di Francia, accanto al fratello, il duca François Annibal II, vero titolare della carica – protestò vivamente per primo contro la nuova norma; gli si affiancarono quindi i rappresentanti di Impero, Spagna e Venezia (rispettivamente, il cardinale Friedrich von Hessen-Darmstadt, il cardinale Everard Nidhard e Pietro Mocenigo).
A Venezia, Varese si presentò in Collegio in ottobre, per giustificare quanto operato dalla Segreteria pontificia. Tentava nel contempo di penetrare la sostanza dei contatti tra la Serenissima e le altre potenze coinvolte nella questione, allo scopo di minare l’unità del fronte antiromano. Si mosse nondimeno con moderazione, cosa che gli avrebbe guadagnato l’apprezzamento del doge (Nicolò Sagredo). Si era posto, infatti, l’obiettivo di appianare al più presto i contrasti tra Roma e Venezia, per volgere poi «l’applicatione comune a divertire i sconcerti che sono imminenti a tutta Italia» (decifrato del 9 marzo 1675, in Città del Vaticano, Archivio apostolico Vaticano, Segreteria di Stato, Venezia, 110, c. 343rv).
Con la rivolta di Messina, aiutata da navi da guerra francesi, il conflitto tra Francia e Spagna trovò un teatro anche in Sicilia e minacciò di allargarsi alla penisola. Così, effettivamente, la questione degli ambasciatori venne risolta nell’estate successiva. Ma la pace europea restò lontana: da Venezia, Varese non poté fare altro che trasmettere notizie sulle mosse dei principali attori in gioco (attività nella quale, peraltro, eccelleva).
All’inizio di ottobre del 1675, gli giunse notizia da Roma della sua nomina a nunzio straordinario a Parigi (il breve ufficiale avrebbe avuto la data del 12 febbraio 1676). Clemente X si era proposto già dal 1673 come intermediario per la fine della guerra dei Paesi Bassi, che opponeva alla Francia, oltre che gli olandesi, anche la Spagna e l’Impero. La durezza della citata controversia sulle franchigie doganali, tuttavia, aveva del tutto spento l’iniziativa. Varese conosceva bene l’angustia del suo spazio di azione: la mediazione per la conclusione del conflitto era nelle mani della diplomazia inglese e nella corte francese, oltre ai contrasti già in essere con il pontefice, pesavano le accuse di simpatie spagnole nei confronti del cardinal nipote, Paluzzo Paluzzi Altieri degli Albertoni. Così, Varese ebbe la prima udienza con il re soltanto il 22 maggio 1676. La morte di papa Altieri (22 luglio successivo), fece perdere altro tempo, ma almeno Varese ottenne dal successore, Innocenzo XI, la qualifica di nunzio ordinario.
Molti i temi sul terreno. La Chiesa di Francia godeva del più alto grado di autonomia. Varese vigilò per quanto poté sulla legislazione e sulle sentenze del Parlamento di Parigi che intaccavano gli interessi della Camera apostolica o la giurisdizione ecclesiastica. Nel contempo, grazie alle conquiste della guerra d’Olanda, nuovi territori erano entrati a far parte del Regno di Francia e la politica ecclesiastica di Luigi XIV ne trasse spunto per nuovi conflitti con la Sede apostolica. Così, Varese tentò di impedire la nomina regia dei vescovi delle diocesi annesse militarmente e delle badesse nei conventi di clarisse. Urtò altresì contro la Régale, cioè il diritto della monarchia di disporre delle rendite dei benefici vacanti, anche nominando i titolari del periodo di vacanza. Mediante colloqui con Simon Arnauld de Pomponne, ministro per gli Affari esteri, e con il confessore del re, il gesuita François d’Aix de La Chaize, tentò di guadagnare posizioni. Tuttavia la congiuntura dell’ultimo quarto del XVII secolo restò ancora del tutto favorevole al re Sole. Almeno, poté rivelare alla Segreteria pontificia, già nel febbraio del 1677, non solo che il re aveva intenzione «di sopprimere nel suo Regno tutti i magistrati degli eretici» (Città del Vaticano, Archivio apostolico Vaticano, Segreteria di Stato, Francia, 157, c. 107r), ma anche che immaginava una spedizione contro Ginevra, con la cacciata dei protestanti dalla Svizzera francofona.
Varese inviò altresì lettere preoccupate a Roma sul risorgere del giansenismo, dopo la chiusura della prima fase del contrasto nel 1668-69 (con la cosiddetta pace clementina). Da Roma il cardinale Alderano Cybo, segretario di Stato, gli scrisse già nell’aprile del 1677 di contare sulla sua esperienza come ex assessore del S. Uffizio per giudicare la condotta di vescovi e teologi ancora sospettati di eterodossia. Varese, nondimeno, aveva smesso i panni dell’inquisitore: spese le sue capacità d’intervento soprattutto nel sorvegliare la corrispondenza tra gli uomini di punta del movimento (tra cui il teologo Antoine Arnauld e il vescovo di Angers Henri Arnauld) e la corte di Roma.
Sempre difficili, infine, i rapporti con l’arcivescovo di Parigi, François de Harlay de Champvallon, che considerava i propri poteri (e posizione nel cerimoniale) superiori a quelli del nunzio pontificio. Se ne ebbe l’ennesima, lampante dimostrazione immediatamente dopo la morte di Varese, avvenuta a Parigi il 4 novembre 1678 per le conseguenze di un attacco di dissenteria.
Il suo corpo, infatti, per ordine dello stesso arcivescovo fu fatto trasportare nella chiesa parrocchiale competente per territorio (Saint-Sulpice). Quanto a padre Giuseppe da Firenze, il cappuccino che aveva aiutato Varese negli ultimi momenti di vita, fu addirittura arrestato, con l’accusa di essersi ingerito in atti che sarebbero spettati al curato di Saint-Sulpice. Anche il funerale si tenne sotto la regia dell’arcivescovo François de Harlay de Champvallon. Fu rispettato solo il desiderio del defunto di essere seppellito nella chiesa dei teatini di quai Malaquais (oggi scomparsa). Per reazione, il papa lasciò che fino al 1683 la nunziatura fosse retta dall’ex uditore di Varese, Giovanni Battista Lauri.
Il patrimonio di Varese, accusato dai contemporanei di straordinaria avarizia, passò al nipote Pompeo degli Atti (figlio della sorella Lavinia e di Felice degli Atti), con l’obbligo di aggiungere il cognome Varese al suo.
Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Archivio apostolico Vaticano, Segreteria di Stato, Francia, 154A, 155-159; Segreteria di Stato, Venezia, 110-115; F. de Bojani, Innocent XI. Sa correspondance avec ses nonces, Rome 1910, I, pp. 137-175, 251-297, 667-698, II, pp. 17 s., 41-45, 178-204, 546-565, 594.
Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, V, a cura di R. Ritzler - P. Sefrin, Patavii 1952, p. 69; A. Latreille, Les nonces apostoliques en France et l’Église gallicane sous Innocent XI, in Revue d’histoire de l’Église de France, XLI (1955), pp. 214-218; N. Del Re, Monsignor governatore di Roma, Roma 1972, p. 109; B. Neveu, Un rival de l’Avare: le nonce V. à Paris (1676-1678), in Journal des savants, 1982, pp. 57-76; S. Franchi, Drammaturgia romana, II, 1701-1750, Roma 1997, p. XCVI, nota 268; Ch. Weber, Genealogien zur Papstgeschichte, II, Stuttgart 2001, p. 944; M.B. Guerrieri Borsoi, Villa Arrigoni, poi Rocci e Varese, a Frascati. La costruzione e la decorazione, in Studi di storia dell’arte, 2008, n. 19, p. 106; A. Pampalone, Cerimonie di laurea nella Roma barocca: Pietro da Cortona e i frontespizi ermetici di tesi, Roma 2014, ad ind.; H.H. Schwedt, Die Römische Inquisition. Kardinäle und konsultoren 1601 bis 1700, Freiburg 2017, ad indicem.