Pomponio Leto
Più giovane di Biondo, amico di uno dei suoi figli, Giunio Pomponio (Diano, Lucania 1428 ca.-Roma 1497; Leto è probabilmente solo il suo nome accademico) visse quasi sempre a Roma assistendo, oltre ai papati di Niccolò V, di Callisto III, di Pio II, a quelli di Paolo II e di Sisto IV, ma nell’ambiente cittadino, non nell’entourage della curia. Fece scuola animando un circolo di eruditi che sono ricordati come membri dell’Accademia romana, denominata più correttamente sodalitas, un gruppo di colleghi e di giovani allievi legati dagli stessi ideali di recupero culturale dell’antichità romana. E proprio questa tendenza, che assumeva anche forme di vistosa evocazione della città pagana, lo fece incorrere, insieme ad alcuni amici, fra cui Bartolomeo Sacchi detto il Platina, nell’accusa di eterodossia e di complotto ai danni del papa Paolo II, e lo costrinse a fuggire a Venezia. Accusato anche di sodomia, fu estradato a Roma (1468), perché nella Repubblica veneta rischiava ugualmente la condanna, e quindi carcerato e trattato con esemplare durezza.
Il medesimo amore di Biondo per la storia e per l’illustrazione dei luoghi, dei costumi e delle istituzioni come complemento fondamentale della storia, ma una tempra diversa di filologo, di ricercatore e diffusore delle conoscenze erudite, fanno di Pomponio un fortunato autore almeno fino a tutto il Cinquecento. Da un approccio schiettamente erudito alle conoscenze storiche deriva il privilegio da lui accordato agli aspetti formali, caratteristici e perfino curiosi dell’antichità e l’esclusivo interesse, un vero e proprio gusto estetico elitario, per l’evocazione dei tempi antichi, con una sorta di disprezzo del moderno. Questa adesione appassionata agli antichi poté apparire un ritorno al paganesimo e una considerazione della grandezza e centralità di Roma non quale centro della cristianità, ma dell’impero romano. Contribuirono a questa fama l’eccentricità della sua vita e del suo abbigliamento, che imitava i costumi antichi, nonché l’impegno di collezionista, cominciato negli anni Settanta, di iscrizioni e di oggetti antichi con cui adornò la sua casa. Ovviamente la passione e la competenza di antiquario in quanto collezionista possono considerarsi all’origine, pur non essendo mancati illustri esempi fra gli umanisti e i signori del Quattrocento, di un fenomeno di lunga durata, nel quale il valore di testimonianza erudita degli oggetti antichi sopravanza quello della loro validità artistica.
Ispirandosi anche lui alla tradizione varroniana del De lingua latina e delle Antiquitates, che riguardavano sia le res humanae sia quelle divinae, la ricerca di Pomponio investe sia i monumenti sia le istituzioni, il sacerdozio e le leggi. Il gran numero di notizie, excerpta, scelta piuttosto frammentaria di argomenti diversi suggeriti dalle testimonianze antiche, dipende dal modo stesso di lavorare di Pomponio e costituisce anche il suo pregio, perché riguarda molteplici questioni, linguistiche e cronologiche, di ricostruzione e di illustrazione delle antichità. Una specie di guida per il piacere del pubblico e per l’utilità dei dotti – e infatti spesso si tratta di appunti raccolti dai discepoli nei percorsi dedicati ai visitatori – sono dunque le due opere De vetustate Romae e De Romanorum magistratibus, sacerdotiis, legibus (1474), frutto di un’accumulazione continua di materiale, pur sempre dovuto all’occasionalità del rinvenimento ed esposto con criterio sintetico. Opere difficilmente recuperabili per una edizione critica in una loro redazione definitiva, dove alla dovizia di informazioni e all’apertura verso fantasiose amplificazioni non corrisponde sempre l’esattezza critica e filologica, e dove si cercherebbe invano l’organicità con la quale Biondo aveva concepito le trattazioni complementari della Roma instaurata e della Roma triumphans. La dimensione scarna della trattazione, che cade spesso nel catalogo, non esclude tuttavia un contributo al pensiero storico da parte di Pomponio; al quale, oltre che un fortunato Romanae historiae compendium (postumo 1499), prontuario di storia tardoantica che abbraccia quattro secoli, si deve la dignità di una consapevole, e non comune, definizione della storia come imitatio vivendi, imitazione della vita.