DALLA TORRE, Poncino
Nacque a Cremona all'inizio della seconda metà del sec. XVI ed esercitò il mestiere di notaio presso lo studio di un procuratore di questa città. Divenne famoso per una raccolta di facezie pubblicata per la prima volta nel 1585 con il titolo Le piacevoli e ridicolose facetie di M. Poncino dalla Torre Cremonese. Nelle quali si leggono diverse burle da lui astutamente fatte, di non poca dilettatione, e trastullo a' lettori. Nella prefazione Tommaso Vacchello, "libraro" cremonese, ci informa che egli stesso ha commissionato al D., "nobile e giovine letterato", la scrittura delle facezie per poter divulgare le spassosissime novelle, patrimonio di pochi amici.
Carattere comune delle facezie è quello di essere ambientate a Cremona e di avere l'autore come soggetto narrante. Dato il carattere delle narrazioni, la prontezza di spirito, l'argutezza e il saper "ben parlare" fanno risolvere a favore del D. tutte le situazioni con derisione di chi per propria sventura si trova sulla strada del narratore. Questo testo è un prezioso ritratto d'epoca dove è possibile ritrovare i costumi, le tradizioni locali e la vita di tutti i giorni. Nelle quaranta facezie che compongono il testo c'è sempre un lieto fine e le burle non hanno mai conseguenze gravi o particolarmente dannose per le persone che subiscono le "attenzioni" scherzose. Il D. godeva di uno status giuridico tale che si poteva permettere di prendere di mira non solo i contadini e gli ebrei, secondo gli schemi canonici di questo genere, ma anche dottori, procuratori e perfino podestà. Ovviamente è ben diverso il trattamento per i primi da quello usato nei confronti dei secondi. Questi ultimi infatti sono visti con un occhio di riguardo e non subiscono particolari maltrattamenti. I più colpiti, pur nella moderazione di fondo, sono ovviamente i contadini che per la loro ingenuità e semplicità subiscono le angherie del brillante cittadino Dalla Torre. Due mondi si contrastano: i cittadini e i non cittadini e i perdenti sono sempre questi ultimi. Questo atteggiamento si riallaccia ad un vero e proprio genere letterario particolarmente diffuso durante il Medioevo: la satira contro il villano. A disprezzare i contadini non sono più i nobili o il prete ma i cittadini che ad essi si sono sostituiti nella gerarchia sociale.
Nella facezia contro gli ebrei (XI nell'ordine narrativo, intitolata "Dei tre gobbi") il motto conclusivo (ogni facezia ne ha uno alla fine) dice: "Chi si piglia diletto di far frode non si dee lamentar s'altri s'inganna"; anche questo appare esser bene in sintonia con l'antisemitismo diffuso grazie anche alla complicità della Chiesa cattolica che aveva indicato da sempre gli ebrei come nemici di Cristo. E del resto nella società cristiana caratteri che contraddistinguevano gli ebrei erano l'infedeltà e l'antisocialità: gli stessi con i quali il D. presenta l'ebreo della XV facezia ("Delle mandorle"). Lo stesso atteggiamento denigratorio colpisce le donne, che nella facezia XXVI ("Della ruggiada") sono accusate di essere per natura leggere e poco oneste e quindi degne di ricevere "honeste burla di vergogna", come già nella facezia XXI ("Delle schizzate") dove l'autore aveva concluso sentenziando: "merita peggio chi per donne abbandona la dolce conversazione delli amici", rientrando questa indicazione in pieno con la tradizione letteraria che vedeva la donna come essere inferiore rispetto all'uomo.
Appare per certi versi originale la facezia XIII ("Del manto") nella quale, grazie alla abilità oratoria, il giudice dà ragione ad un pover'uomo che era stato truffato da un mercante. Senza bisogno di commento appare a questo proposito il motto finale: "Èlecito alle volte rubbando ristorarsi de' danni irragionevolmente patiti".
Nella facezia XVI ("Della lepre") il contadino viene chiamato Calandrino: anche il D., dunque, fa riferimento e ben conosce il repertorio boccaccesco, dal quale hanno attinto a piene mani tutti i narratori di facezie; il D. però rinuncia ad una delle peculiarità che caratterizzano questo repertorio, all'uso cioè del codice erotico ricco di doppi sensi e di allusività. Alla moderazione di fondo egli unisce infatti una rilevante dose di autocensura. E questo certamente permise che le sue facezie avessero una particolare diffusione specialmente con l'edizione del 1627, stampata a Venezia. Nella prefazione di questa edizione viene chiaramente evidenziato l'aspetto moralistico delle facezie; laddove si parla dei fine del libro si dice infatti: "... accioché i lettori nell'hore più noiose possano prenderne ricreatione, e passarsene il tempo, e trarne etiandio qualche morale documento": al "delectare" fine a se stesso si sostuisce il "prodesse" di controriformistica istanza.
L'edizione veneziana stampata presso Girardo e Iseppo Imberti comprendeva sette facezie in più rispetto all'edizione cremonese ed era intitolata: Le piacevoli et ridicolose facetie di M. Poncino dalla Torre Cremonese. Di novo ristampate con l'aggionta d'alcun'altre che nella prima impressione mancavano.
Nulla ci è dato sapere sulla data di morte del D., ma dalla prefazione dell'edizione del 1627 possiamo ritenere che a quel tempo fosse già morto.
Bibl.: F. Arisi, Cremona literata, II, Parma 1711, p. 166; F. Albertazzi, Il romanzo, Milano 1902, p. 102.