Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La pop art nasce in Gran Bretagna intorno alla metà degli anni Cinquanta, per divenire la cifra stilistica tipica della cultura americana dei primi anni Sessanta. Intorno a questa sigla vengono riuniti artisti che attingono all’immaginario popolare, ormai influenzato definitivamente dalla pubblicità, dalla televisione, dall’informazione, artisti che si appropriano anche dei meccanismi e delle pratiche dei mass media come la riproduzione e la ripetizione ossessiva, la manipolazione dei colori, delle dimensioni e delle forme degli oggetti che popolano l’immaginario collettivo.
Quando il 13 dicembre 1962 il MoMA di New York organizza un Symposium on Pop Art, invitando i maggiori critici militanti e dando l’avvio a un articolato dibattito teorico, la pop art in realtà, ha già avuto il suo pieno riconoscimento sociale e culturale, soprattutto da parte del pubblico e dei mass media. Non è una corrente definita nata da una precisa teorizzazione, né una cerchia di artisti mossi da un obiettivo comune, o dalla contiguità geografica o culturale; si tratta, piuttosto, di una “categoria artistica” o di uno “stile” riconoscibile e definito, riconducibili a un preciso ambito socio culturale occidentale.
Il concetto di pop culture nasce in Gran Bretagna intorno al 1955 con un’accezione molto diversa da quella che assumerà in seguito. Nel 1956 Richard Hamilton inserisce nel proprio collage Just what is that makes today’s homes so different, so appealing? la parola “pop” senza nessun riferimento apparente al dibattito sulla cultura popolare condotto dall’Indipendent Group (gruppo interno all’Institute of Contemporary Art di Londra costituitosi intorno al 1952 che comprende artisti, architetti, fotografi, storici e critici), di cui è attivo componente. In realtà tutto il suo lavoro, fatto di giustapposizioni e citazioni, ha chiaramente un forte legame formale con la categoria della pop culture e presenta moltissimi elementi e spunti tratti dall’immaginario della civiltà di massa, attraverso i quali dà vita a una composizione ironica e, allo stesso tempo, di forte impatto visivo. Le opere degli artisti dell’Indipendent Group, e quelle di Hamilton in particolare, saranno il punto di riferimento per tutta la seconda generazione di artisti britannici che si avvicineranno al pop, fra cui Peter Blake, David Hockney, Allen Jones, Joe Tilson.
La paternità nell’uso del termine “pop” viene solitamente assegnata a Lawrence Alloway, che nel testo dedicato allo sviluppo del british pop (in Lucy Lippard, Pop Art, 1968) sottolinea l’evoluzione linguistica soprattutto in riferimento alla successiva identificazione della pop art con l’opera di artisti statunitensi piuttosto che europei. “Il termine pop art mi viene attribuito, ma non so precisamente quando venne utilizzato per la prima volta. [...] Tra l’altro il significato che gli davo, non è lo stesso che ha oggi. Usavo questo termine, come del resto l’espressione pop culture, riferendomi ai prodotti dei mass media e non alle opere d’arte che esprimevano questa cultura popolare. Ad ogni modo, a un certo punto tra l’inverno 1954-1955 e il 1957 il termine divenne d’uso comune nelle conversazioni, in concomitanza con il lavoro collettivo e il dibattito tra i membri dell’Indipendent Group”.
Le opere prodotte in Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia e negli Stati Uniti pur appartenendo innegabilmente alla sfera del pop presentano fondamentali differenze. In Europa sono caratterizzate da una preponderante soggettività e, anche, da una più decisa e articolata ideologizzazione. Negli Stati Uniti, invece, si evidenzia uno sforzo per rendere il più possibile l’oggettività dell’opera e un’apertura verso tutto ciò che appartiene alla “banalità” del quotidiano collettivo, allo stereotipo e al luogo comune. Ma ciò che maggiormente caratterizza gli artisti pop americani è l’ammissione del fatto che l’arte “alta” può, senza esserne sminuita, entrare a far parte a tutti gli effetti del circuito dei mezzi di comunicazione di massa.
Alla luce di una mappatura della produzione artistica tra il 1955-1956 e il 1963, possiamo dire che la pop art ha avuto un periodo di prolifica incubazione a Londra per poi esplodere nella New York della fine degli anni Cinquanta. Negli Stati Uniti, intanto, il momento clou dell’espressionismo astratto sembra muovere verso un radicale stravolgimento. Il trait-d’union tra l’espressionismo astratto e il nuovo immaginario pop è rappresentato dall’opera di Robert Rauschenberg e di Jasper Johns. Oltre alla ricerca di una maggiore oggettività dei contenuti che si esprime in forme più fredde e analitiche, ribaltano la contestazione dada, a cui si erano precedentemente ispirati, attraverso l’accettazione oggettiva della realtà, senza temerne la ripetitività, la ridondanza, la routine. Con il loro lavoro, l’immaginario collettivo della middle class americana, si trova improvvisamente trasportato sulla tela. Rauschenberg propone i suoi combined paintings che uniscono gli oggetti quotidiani alla pennellata di chiara matrice espressionista, Johns una scelta di soggetti “americani” e banali quali bandiere, bersagli e lattine di birra. È un atteggiamento artistico che fonda le proprie radici nelle provocazioni dada, da cui la poetica pop riprende una serie di importanti princìpi: l’idea di immettere all’interno dell’opera pittorica elementi “trovati” che fanno parte della vita quotidiana; il gusto per la citazione; l’appropriazione di immagini tratte direttamente dai giornali, dalle riviste, dai manifesti; i continui riferimenti al cinema e allo spettacolo popolare.
È importante ricordare che tra il 1957 e il 1959 vengono pubblicati negli Stati Uniti tutti gli scritti di Duchamp, del quale gli artisti americani fanno propria soprattutto l’idea di totale sovrapposizione fra arte e vita e insieme di ironia e distacco. Tutto questo apre la strada all’esperienza della pop art nella sua espressione più “acuta” cioè quella newyorkese che si identifica soprattutto con l’opera di Jim Dine, Roy Lichtenstein, Marisol, Claes Oldenburg, James Rosenquist, George Segal, Tom Wesselmann, Andy Warhol.
Saranno proprio questi artisti che, una volta liberati gli oggetti da ogni loro possibile valenza soggettiva, e collocato in primo piano “l’uomo comune”, esploreranno in modo distaccato e rigoroso (e, apparentemente, senza nessuna mediazione personale tra l’immagine e il pubblico) il nuovo mondo dei mass media. Accoglieranno nelle proprie opere le nuove tecnologie, le icone del consumismo, gli inediti valori del kitsch, del divismo, dell’ordinario. Si approprieranno dell’iconografia della società dei consumi riproducendo mimeticamente i manufatti dell’industria di massa. Utilizzeranno gli strumenti stranianti della pubblicità attraverso varie operazioni, quali l’ingrandimento smisurato, la moltiplicazione attraverso procedimenti industriali o semi-industriali (la serigrafia di Warhol, la riproduzione in serie di Oldenburg, i calchi di gesso di Segal, il retinato di Lichtenstein) e materiali e tecniche di ogni tipo.
Il momento di maggiore consapevolezza e creatività della pop art a New York si è sviluppato intorno al 1961-1962 soprattutto grazie al lavoro, indipendente, ma legato a una serie comune di tendenze culturali e sociali, del gruppo di artisti che gravitava attorno a un nucleo piuttosto preciso di critici, di collezionisti e di gallerie: quella di Leo Castelli, di Sidney Janis, e poi la Green Gallery, la Judson Gallery a New York e la Ferus Gallery di Irving Blum a Los Angeles.
Oltre all’aspetto più propriamente artistico, la particolarità degli artisti pop è l’insolita disinvoltura con cui si muovono nel jet set attirando l’attenzione sempre più forte delle riviste non specializzate e degli ambienti alla moda. Per la prima volta il luogo da indagare e il luogo in cui mostrarsi coincidono e si identificano nei mass media.
La pop art ha scatenato sicuramente una presa di coscienza – con la violenta portata “subculturale” che le ha permesso di diffondersi – verso i nuovi valori di una società iperindustrializzata, consumista e capitalista. Una società in cui ogni tipo di operazione artistica è trasferibile da un livello intimo, individuale e privato (quello spesso venato da inquietudine e angoscia degli espressionisti astratti) al livello collettivo, pubblico e omologato dell’uomo comune. Non è stata solo la “riproducibilità tecnica” – nel senso evidenziato da Benjamin – delle opere a renderle “di massa”, ma una nuova attenzione, spesso esaltata, verso l’universo urbano (meglio, metropolitano o provinciale), verso la produzione industriale, la comune assuefazione al consumo, l’invadenza, spesso aggressiva, degli oggetti nella nostra vita quotidiana. E, non ultimo, un misto di spaesamento e ammirazione per quel linguaggio sempre più invasivo e potente dell’arte commerciale e della pubblicità. Non è un caso che la formazione della maggior parte degli artisti pop americani avvenga nell’ambito della grafica e della pubblicità. Proprio da questi ambiti, infatti, recuperano i contenuti delle proprie opere: nelle riviste, nei fumetti, negli oggetti venduti nei supermercati.
In definitiva in quella cultura del livellamento del gusto, dell’appiattimento e della creazione del bisogno che è tipica di una parte ben precisa della società occidentale. La pop art ha ampliato fino alla massima estensione due procedimenti di base del fare “moderno”: il raddoppiamento e lo straniamento, e li ha trasformati entrambi in realtà quotidiane, evidenziando quanto ampia sia la proliferazione del doppio e indicandone nei mass media i maggiori operatori e produttori.
Assolutamente nuova è, inoltre, la concezione dello spazio. L’opera si espande nella superficie che occupa (environments, assemblaggi, installazioni) e, nello stesso tempo, caduti i confini tradizionali tra i linguaggi, l’arte si apre a una continua contaminazione con ogni altro tipo di disciplina: l’happening, il teatro, la danza, la musica, il cinema (peculiare la stretta collaborazione di Robert Rauschenberg con Merce Cunningham e John Cage o quella di Andy Warhol con i Velvet Underground).
La pop art è stata sicuramente un’arte sovversiva che ha prodotto un radicale cambiamento nel modo di vedere delle persone ma, a differenza della produzione artistica che è seguita ai rivolgimenti sociali del 1968, la pop art non ha proposto nessuna presa di posizione strettamente politica. Nonostante questo, però, la rinuncia pressoché totale da parte degli artisti alla categoria dell’unicità e dell’originalità è la chiara espressione della società in cui si sono trovati a operare. È anche l’accettazione, più o meno critica, più o meno compiaciuta, della realtà artificiale, industriale e consumistica in cui qualunque cosa si trasforma in “bene di consumo” comprese la denuncia e l’opposizione. E, forse, è la definitiva consapevolezza del fatto che l’unica esperienza possibile sta, in questo momento storico e in particolare negli Stati Uniti, nell’integrare tutto nell’esperienza estetica, comprese l’esperienza anonima e collettiva e il tentativo di adeguare il linguaggio dell’arte alla nuova situazione culturale e sociale. Si cerca un originale codice stilistico che rispecchi, almeno in parte, il nuovo immaginario comune e il gusto del nuovo pubblico che vive nell’illusione di progresso e di benessere fabbricata dai mezzi di comunicazione e di informazione. Tra gli artisti che hanno gravitato attorno alla pop art, alcuni sono stati fondamentali per la definizione del nuovo fare artistico.
Roy Lichtenstein si è ispirato soprattutto al linguaggio dei fumetti, stereotipandone frammenti e frasi, utilizzando i colori a campiture piatte e la fredda resa del retino tipografico, in una operazione che forse segna la più netta alienazione dell’artista dall’idea di soggettività individuale.
Claes Oldenburg ha contraffatto i prodotti più classici della cultura popolare americana (dagli hamburger alle macchine da scrivere, dal dentifricio all’hot dog) parodiandoli attraverso la manipolazione dei materiali, delle dimensioni, dei colori in modo sempre estremamente caustico.
James Rosenquist ha raccolto gran parte degli elementi che compongono i suoi quadri dalla pubblicità. Dal linguaggio commerciale, ha ripreso anche l’uso piatto e brillante del colore e la bidimensionalità degli oggetti che ha composto e accostato in modo sempre ironico e imprevedibile.
George Segal, con i suoi calchi di gesso, ha fissato schegge di azioni banalmente quotidiane creando quella sensazione di spaesamento tipica del fermo immagine cinematografico.
Tom Wesselmann ha focalizzato la propria produzione sui great american nudes, nudi femminili in interni giganteschi, che svelano il diretto rapporto con l’immaginario dei cartelloni pubblicitari presentati in modo caricato e scenografico.
Andy Warhol è sicuramente il più pop degli artisti. Oltre a fare della cultura pop e underground la sua filosofia di vita, ha trasformato le più grandi icone della cultura di massa, compreso se stesso, in opere d’arte attraverso la serigrafia e la riproduzione seriale.