Popolazione
di Alfred Sauvy
Popolazione
sommario: 1. Concetti generali. 2. Misurazione dei fenomeni demografici. a) Censimenti e statistiche correnti. b) Migrazioni internazionali e interne. c) Mortalità. d) Fecondità, nuzialità e divorzi. e) Previsioni. L'era primitiva o ‛naturale'. a) La popolazione ‛naturale'. b) La capacità di moltiplicazione della specie umana. c) La preistoria. d) Guerra e popolazione. e) Sovrappopolazione e regime sociopolitico. f) Lento accrescimento della popolazione. g) Censimenti e statistiche. 4. Dottrine e atteggiamenti sino a Malthus. 5. La prima rivoluzione demografica. a) Caduta della mortalità. b) Resistenza della natalità. c) La controversia Marx-Malthus sulla sovrappopolazione. d) Due tipi di popolazioni. e) Le migrazioni dall'Europa. f) L'invecchiamento demografico. g) L'optimum di popolazione. h) Saturazione demografica e invecchiamento. 6. La seconda rivoluzione demografica. a) La ‛distorsione' delle tecniche. b) Atteggiamenti e reazioni. c) L'evoluzione in 25 anni. 7. Fattori economici e sociali. a) La mortalità. b) La fecondità. 8. Alcuni dati sulla popolazione mondiale. 9. I paesi socialisti. a) L'URSS dopo la guerra. b) Le democrazie popolari. c) La Cina. 10. Migrazioni. a) Diverse specie di migrazioni. b) Migrazioni internazionali. c) Carattere e costo delle migrazioni internazionali moderne. d) Selezione naturale o volontaria. e) Sesso e stato matrimoniale. f) Vantaggi e svantaggi economici per i due paesi. g) Migrazioni dei cervelli. h) Migrazioni interne. i) Migrazioni temporanee. 11. Politica della popolazione. a) Mortalità. b) Natalità. c) Nuzialità. d) Migrazioni. e) Ripartizione sul territorio. f) Effetti qualitativi. □ Bibliografia.
1. Concetti generali
Si definisce ‛popolazione' un insieme di persone, di animali o anche di oggetti, non necessariamente identici, che evolve e si rinnova secondo certe leggi. Con il termine ‛popolazione' senza altre specificazioni s'intende, però, correntemente, la ‛popolazione umana'; la parola, che un tempo designava un fatto dinamico, l'azione del popolare (vale a dire il popolamento), ha oggi valore statico, e designa un insieme di individui in un momento dato. Invece le parole ‛spopolamento' e ‛ripopolamento' hanno conservato l'idea di movimento.
La scienza della popolazione o ‛demografia' si divide in due parti ben distinte: a) la ‛demografia pura' o ‛analisi demografica', che studia i meccanismi di mutamento di una popolazione (fecondità, mortalità, ecc.) senza preoccuparsi dei fattori economici e sociali, o prendendo in considerazione solo quei fattori che intervengono direttamente (come il matrimonio); essa s'intreccia talvolta con la biologia (e particolarmente la genetica) e con la nosologia; b) la ‛demografia in senso lato' che studia le relazioni reciproche tra i fenomeni demografici e i fenomeni economici e sociali; essa s'intreccia con diverse scienze, e particolarmente con l'economia, la sociologia, la storia, la geografia, il diritto, la scienza politica, la biologia, la medicina, la tanatologia.
Una popolazione umana subisce ogni anno tre tipi di mutamenti: a) le entrate: la popolazione aumenta a causa delle nascite, vale a dire a causa degli individui di età zero (ed eventualmente anche a causa dell'arrivo di immigranti, di età diverse); b) le uscite: la popolazione diminuisce a causa dei decessi di età diverse e della partenza di emigranti (anch' essi di età diverse); c) l'invecchiamento: ciascun individuo che sopravvive invecchia di un anno.
Per sorprendente che possa sembrare, quest'ultimo fattore, così importante e così certo, è dimenticato o trascurato in gran parte dei ragionamenti e delle valutazioni, i quali si fondano esclusivamente sul numero, tralasciando la composizione per età della popolazione.
Qualsiasi perturbazione delle nascite (in più o in meno) si ripercuoterà, negli anni che seguono, per circa un secolo, perché modificherà via via il ‛normale' numero di scolari, di lavoratori, di riproduttori, ecc. Il fenomeno può essere paragonato a un'ondata che si propaga nel mare, esaurendosi a poco a poco.
Si definisce ‛popolazione stabile' non già una popolazione costante, ma una popolazione il cui ammontare aumenta o diminuisce costantemente nella stessa proporzione in tutte le classi d'età. Mantenendo la stessa struttura per età, la popolazione stabile è dunque sempre simile a se stessa, nel senso geometrico del termine (varia soltanto la sua dimensione).
Un caso particolare è poi la popolazione ‛stazionaria', la quale rimane identica a se stessa nel tempo (in ciascuna classe di età il numero di individui resta costante conservando quindi invariato anche il suo ammontare complessivo).
Per indicare e descrivere i problemi cui può dar luogo una popolazione in movimento, proviamo a immaginare e a descrivere una popolazione in equilibrio perfetto indefinito, tale, cioè, da non presentare alcun ‛problema'.
Una popolazione siffatta (che ricorda un poco la Repubblica di Platone) è stazionaria, e non subisce dunque alcun mutamento, in nessuna classe di età. Come la natalità e la mortalità, anche la nuzialità è costante. Ogni anno lo stesso numero di giovani di età n sposa ragazze di età p.
Quanto alla ripartizione geografica della popolazione, è anch'essa costante. Possono darsi migrazioni internazionali o interne, ma il loro flusso è costante in intensità e traiettoria, e non fa che correggere le deformazioni che potrebbero derivare da differenze di natalità o di mortalità.
I matrimoni avvengono sempre secondo le stesse leggi di consanguineità, senza alterare il patrimonio genetico.
Infine, anche la tecnica si mantiene costante, perpetuando così la suddivisione per professioni. L'assetto sociale rimane parimenti invariato.
Una tale popolazione non pone alcun problema. Non ci poniamo qui la questione di sapere se una siffatta situazione di stabilità sia auspicabile (ad esempio, la mortalità può sempre essere considerata eccessiva). Ci interessa soltanto sottolineare che, essendovi ovunque equilibrio, non esistono problemi.
Ogni mutamento anche in uno solo degli elementi crea uno squilibrio, si ripercuote in altri settori e pone dei problemi.
Facciamo qualche esempio: a) un aumento della popolazione (per diminuzione dei decessi, per aumento delle nascite o per eccesso di immigrazione) modifica l'equilibrio dei mezzi di sussistenza, della produzione, dei consumi, la ripartizione delle funzioni, ecc.; b) un invecchiamento della popolazione (più vecchi, meno giovani) pone diversi problemi, anche quando la popolazione totale rimane invariata; c) un mutamento di ripartizione geografica modifica le condizioni d'esistenza, i trasporti, ecc.; d) qualsiasi progresso tecnico distrugge il vecchio equilibrio economico e sociale; e) un mutamento delle usanze matrimoniali, che si traduca, ad esempio, in una percentuale più alta di matrimoni tra consanguinei, modifica il patrimonio genetico; f) mutamenti politici, religiosi e così via distruggono l'equilibrio interno.
Va inoltre osservato che lo stesso ambiente naturale (e particolarmente il clima) è soggetto a modificazioni a opera sia di cause fisiche sia dell'azione ripetuta degli uomini.
Per rendersi pienamente conto di questi problemi è opportuno uscire dalla teoria pura. Ripercorreremo dunque la storia degli uomini, rilevando e studiando, a mano a mano che se ne darà l'occasione, i problemi che si sono posti, i mutamenti che ne sono derivati, le decisioni prese a loro riguardo e le dottrine elaborate allo scopo di comprenderli.
2. Misurazione dei fenomeni demografici
In questo ambito, occorre procedere a due tipi di misurazione: a) misurazioni ‛statiche' (o dello ‛stato' della popolazione), per conoscere la situazione in un momento dato; b) misurazioni ‛dinamiche' (o dei ‛flussi') di una popolazione, per conoscerne i movimenti e i mutamenti.
Occorre inoltre distinguere accuratamente tra le statistiche costruite a partire dai dati noti e la loro interpretazione, per misurare le relazioni con i fenomeni biologici, economici e sociali.
a) Censimenti e statistiche correnti
Il censimento è la misurazione dello ‛stato' della popolazione. Malgrado tutte le sue imperfezioni, l'unico metodo che si sia riusciti a trovare per contare gli abitanti di un paese e classificarli secondo diversi aspetti consiste nell'identificarli uno a uno, in un giorno stabilito, nella misura più larga possibile, mediante schede individuali compilate direttamente dagli interessati (o da un parente) sotto la sorveglianza di un agente di censimento.
Per ciascun abitante (cittadino del paese o straniero) presente nel giorno stabilito viene dunque compilato un questionario che tocca diversi aspetti: luogo di nascita, sesso, età, stato civile, nazionalità, professione, ecc. Spesso viene anche chiesto di indicare il numero dei figli e la loro età, il grado di istruzione, la lingua d'uso corrente, la religione, ecc. Sarebbe allettante porre altri quesiti, concernenti ad esempio statura, peso, gruppo sanguigno, migrazioni o professioni precedenti, e così via, ma l'esperienza mostra che un numero di quesiti troppo grande nuoce alla qualità delle risposte. Per superare questa difficoltà si fa uso talvolta di questionari differenziati su certi punti (gli abitanti vengono allora suddivisi in tanti gruppi rappresentativi dell'insieme quanti sono i differenti questionari). Ma in genere il questionario è unico.
Poichè i censimenti si preoccupano anche della composizione e dell'abitazione delle famiglie, capita spesso che venga compilato un questionario per ciascuna unità familiare.
Il censimento della popolazione è un'operazione sempre laboriosa, e spesso imperfetta, per la difficoltà di raggiungere col questionario tutti gli abitanti del paese e di indurli a rispondere in maniera corretta e veritiera. Inoltre lo spoglio è preceduto da numerose operazioni preliminari non meccanizzabili: verifica dei dati e correzione eventuale in caso di inverosimiglianza, codificazione, perforazione o preparazione al trattamento magnetico. Essendo, quindi, i tempi di spoglio assai lunghi, i servizi interessati ricorrono spesso a dei sondaggi rappresentativi tra le schede (esaminandone ad esempio una su venti), allo scopo di ottenere rapidamente dei risultati su un certo numero di problemi.
Nella maggioranza dei paesi i censimenti di popolazione vengono effettuati ogni dieci anni, preferibilmente intorno alla fine del decennio. Quando i mutamenti presunti sono abbastanza importanti, si procede talvolta, nell'intervallo tra due censimenti, a ‛microcensimenti' concernenti frazioni esigue della popolazione (rappresentative dell'insieme, o al contrario, più internamente omogenee e meritevoli di un particolare interesse). Sondaggi possono essere fatti anche su campioni rappresentativi o su gruppi particolari (per es. forze di lavoro).
Il censimento fornisce, fra l'altro, la composizione per età della popolazione, la ripartizione per età, che si traduce graficamente nella ‛piramide delle età' (v. figura). A sinistra figurano i dati relativi ai maschi, a destra quelli relativi alle femmine (o viceversa); in basso le cifre dei giovani, in alto quelle dei vecchi.
Su una piramide delle età è possibile leggere in parte il passato di una popolazione (e particolarmente gli effetti delle guerre, delle calamità e simili) e, in una certa misura, il suo avvenire. Quando, per una qualsiasi circostanza, nella piramide si determina una rientranza, essa si prolunga per un ampio tratto di tempo risalendo verso il vertice, sino all'estinzione della o delle generazioni colpite.
Nella maggior parte dei paesi le nascite, i decessi, i matrimoni e talvolta i divorzi sono registrati nei municipi. Contrariamente al censimento, questa rilevazione statistica ha di mira un obiettivo amministrativo di controllo individuale, sì che i conteggi dell'insieme dei vari fenomeni demografici ne sono soltanto una sorta di ‛sottoprodotto'.
In alcuni paesi europei (Svezia, Belgio, Italia, ecc.) i municipi tengono dei registri della popolazione che permettono di conoscere in ogni momento la popolazione domiciliata in ciascun comune. Un miglioramento del sistema dei registri potrebbe condurre alla costituzione di uno schedario permanente degli abitanti, il cui spoglio consentirebbe di sopprimere i censimenti. Ma soltanto una società estremamente evoluta e civilizzata (nel senso migliore del termine) può pervenire a un risultato del genere.
In numerosi paesi poco sviluppati la registrazione è invece incompleta, particolarmente nelle campagne, e quindi le cifre sono inferiori al reale. Ne derivano parecchi errori di interpretazione. Nell'Annuario demografico delle Nazioni Unite, principale fonte d'informazione internazionale, le cifre ritenute sufficientemente sicure sono contrassegnate con (C) e le altre con (U).
I certificati di stato civile recano diverse informazioni: 1) per una nascita, la data e il luogo, il sesso del neonato, l'età della madre e del padre, la professione della madre e del padre, la loro nazionalità, talvolta il loro livello d'istruzione, il reddito della famiglia, ecc.; 2) per un decesso il certificato reca data e luogo del decesso medesimo, la sua causa, sesso, professione e nazionalità del deceduto, ecc.; 3) per un matrimonio, informazioni analoghe sugli sposi; nel caso di un divorzio viene anche annotata la data del matrimonio.
Quando gli atti di stato civile sono ben tenuti, le statistiche delle nascite, dei decessi e così via sono preferibili ai risultati del censimento, giacché questo dà luogo a omissioni e a doppioni che non si compensano reciprocamente né al livello dei totali né al livello della ripartizione.
b) Migrazioni internazionali e interne
Le migrazioni internazionali presuppongono il passaggio di una frontiera e pertanto si prestano a essere misurate. È tuttavia raro che questi passaggi siano tutti controllati e, a maggior ragione, censiti. È inoltre difficile distinguere con precisione la ‛migrazione permanente' da altri tipi di movimento, o anche dal semplice turismo. Le statistiche sono migliori quando il posto di frontiera è un porto marittimo. In linea generale, l'immigrazione è conosciuta meglio dell'emigrazione, il che può dar luogo a errori quando si voglia ricavare l'eccedenza dell'una sull'altra o viceversa.
Conoscendo i dati della popolazione di due censimenti successivi (P e P′), e le nascite (N) e i decessi (D) verificatisi nell'intervallo, è possibile calcolare per differenza le migrazioni nette (I - E, cioè immigrati meno emigrati), secondo la formula
I −E = P′ − P − N + D.
Ma questo calcolo differenziale può dar luogo a errori relativi abbastanza cospicui.
Le migrazioni interne, non dando luogo ad alcun passaggio di frontiera controllata, si prestano ancora meno di quelle internazionali a essere misurate. Ma il confronto fra due censimenti successivi (come descritto più sopra), i registri della popolazione (quando esistono), le informazioni talvolta richieste nelle schede di censimento sulle migrazioni precedenti e la comparazione particolareggiata dei dati dei censimenti su luogo di nascita, luogo di residenza precedente e luogo di residenza attuale forniscono al riguardo indicazioni tanto più preziose in quanto le migrazioni dalle campagne alle città assumono in tutti i paesi, come vedremo, un'importanza considerevole.
c) Mortalità
Lo spoglio delle schede di morte fornisce il numero complessivo dei decessi e la loro ripartizione secondo criteri diversi. Si tratta di utilizzarli. Il primo - e principale - problema consiste nel poter mettere a confronto l'intensità della mortalità nelle popolazioni di due paesi o di due regioni diversi, o anche in una stessa popolazione in epoche diverse.
Lo strumento più semplice è il ‛quoziente generico di mortalità', che si ottiene dividendo il numero dei decessi per l'ammontare della popolazione totale. Esso viene espresso in genere su mille abitanti, ed è compreso il più delle volte tra 5 (vale a dire 5 decessi per 1.000 abitanti in un anno) e 40.
Ma il quoziente generico di mortalità può dar luogo a interpretazioni errate, giacché si tratta della risultante di due fattori nettamente diversi: la composizione per età della popolazione e il suo stato sanitario.
In un convitto i cui allievi subiscano maltrattamenti e cattive cure, la mortalità sarà comunque inferiore che in un ospizio per vecchi, i cui pensionanti siano colmati di ogni possibile attenzione. Analogamente, in una popolazione (giovane) di un paese poco sviluppato, la mortalità è spesso inferiore a quella della popolazione (anziana) di un paese evoluto. Ad esempio, la mortalità a Hong Kong, a Puerto Rico e altrove è dell'ordine del 6‰, mentre nei paesi dell'Europa occidentale supera l'11‰.
Per superare questi due fattori così diversi la procedura più usuale è la costruzione di una ‛tavola di sopravvivenza'. Essa permette di seguire una generazione di 100.000 nascite che avrebbe, in ciascuna classe di età, il medesimo tasso di mortalità (o il medesimo tasso di sopravvivenza) della popolazione in questione. In tal modo si isola il fattore che possiamo chiamare ‛stato sanitario'.
La tavola di sopravvivenza può essere costruita in due modi: a) ‛trasversale', mediante i tassi di mortalità per età osservati in un certo anno (o durante un periodo da tre a cinque anni); b) ‛longitudinale' o ‛retrospettivo', seguendo nel tempo il cammino di una generazione. La prima tecnica è la più utilizzata, perché fornisce risultati rapidi.
Per valutare l'effetto della composizione per età si può, mediante opportune procedure di calcolo, attribuire alla seconda popolazione la composizione per età della prima, e osservare quindi di quanto varia il suo quoziente di mortalità generale.
d) Fecondità, nuzialità e divorzi
Il rapporto tra il numero delle nascite e la popolazione totale dà il ‛quoziente generico di natalità'. Come nel caso del quoziente di mortalità, esso dipende dalla composizione per età, e pertanto non fornisce un'idea adeguata della fecondità della popolazione, cioè della sua capacità intrinseca di procreare.
Gli indici proposti al riguardo sono numerosi e gli specialisti conducono da mezzo secolo a questa parte ardue discussioni. Limitiamoci a elencare i procedimenti più usuali.
Il ‛tasso lordo di riproduzione' è il rapporto fra i numeri di individui di due generazioni successive. Se, per esempio, 100 donne della popolazione studiata, che hanno la stessa fecondità, in ciascuna età, mettono al mondo nel corso della loro vita 120 figlie, il tasso lordo di riproduzione sarà di 1,2. Esso corrisponde più o meno a due figli e mezzo per ciascuna famiglia, tenendo conto che in media il numero dei figli maschi, all'incirca, eguaglia quello delle figlie femmine.
Ma poiché occorre tener conto della mortalità, si suppone che il numero effettivo di queste 100 donne si riduca a poco a poco secondo la tavola di sopravvivenza. Si ottiene allora il ‛tasso netto di riproduzione'. Come per la tavola di sopravvivenza, si distingue poi il ‛tasso di riproduzione del momento' (lordo o netto), ottenuto mediante i tassi in ciascuna classe di età osservati durante un periodo molto breve (trasversale), dal ‛tasso di riproduzione di una generazione', osservato retrospettivamente.
Quando le popolazioni subiscono mutamenti accidentali o profondi, la situazione del momento può non esprimere correttamente il fenomeno che chiamiamo fecondità. Si introduce allora la durata dei matrimoni, oppure si calcola la discendenza finale di una determinata generazione (tasso di generazione). Questo indice rappresenta meglio l'evoluzione, ma è tardivo e non atto a esprimere le variazioni più recenti.
La verità è che non esiste uno strumento di misura perfetto, per la semplice ragione che non disponiamo di una vera definizione della fecondità.
Il numero dei matrimoni o dei nuovi coniugati può essere rapportato all'insieme della popolazione, oppure al numero delle persone in età matrimoniale. Il numero dei divorzi va rapportato al numero dei matrimoni precedenti da cui derivano. Si usa misurare in particolare la percentuale dei matrimoni sciolti nel giro di cinque, dieci e quindici anni.
e) Previsioni
La parola ‛previsione', spesso impiegata nella pratica, è in effetti impropria, a meno di aggiungervi l'aggettivo ‛condizionale'. Si suppone in genere che la popolazione in esame conservi in avvenire gli stessi tassi di mortalità e di fecondità per età, oppure che questi tassi evolvano secondo una legge determinata. E poiché i tassi di fecondità sono più incerti id quelli di mortalità, vengono spesso impiegate a loro riguardo due o tre ipotesi delimitanti una zona di verosimiglianza (ad esempio un'ipotesi forte, un'ipotesi media e un'ipotesi debole). Molto discusse prima della guerra, le previsioni sono oggi cosa corrente. Le Nazioni Unite ne elaborano per la popolazione di tutti i paesi e per la popolazione mondiale nel suo complesso.
Nel fare previsioni per i singoli paesi sul futuro ammontare della loro popolazione, in molti casi non si tiene conto delle migrazioni internazionali, trattandosi di fenomeni troppo aleatori che dipendono inoltre in misura abbastanza ampia dalla politica che sarà seguita.
Le previsioni possono concernere anche ‛sottopopolazioni': ad esempio la popolazione attiva, la popolazione agricola, la popolazione ospedaliera, la popolazione scolastica, ecc. Il metodo utilizzato, in questi casi, consiste sia nel ragionare direttamente sulla sottopopolazione in questione (ad esempio la popolazione ospedaliera), formulando a suo riguardo un'ipotesi sulle entrate e sulle uscite per ciascuna classe di età, sia nel muovere dalla popolazione totale applicando a ciascuna classe di età dei tassi appropriati (tasso di attività, tasso di scolarità, ecc.).
3. L'era primitiva o ‛naturale'
Prima di seguire il corso delle trasformazioni storiche, sarà utile fornire alcune definizioni o dati di base.
a) La popolazione ‛naturale'
Chiamiamo ‛popolazione demograficamente primitiva' o ‛naturale' una popolazione che non è in grado di lottare efficacemente né contro la morte né contro la propria capacità di procreare. Per evitare confusioni con le popolazioni primitive nel senso etnografico del termine, utilizzeremo di preferenza, malgrado i suoi difetti, il termine ‛naturale'.
In tutti i tempi gli uomini hanno temuto la morte e hanno cercato di evitarla. Ma i procedimenti terapeutici impiegati contro le malattie erano, nel loro insieme, inefficaci (almeno dal punto di vista della mortalità). Ancora nel XVIII secolo, prima del vaccino di Jenner, o perlomeno prima dell'inoculazione del vaiolo, l'azione dei medici abbreviava in realtà un numero di vite non inferiore a quello che riusciva a prolungare.
Ma la definizione della popolazione naturale presta il fianco a un'obiezione: il modo di vita, le pratiche igieniche hanno indubbiamente subito variazioni nel corso dei secoli, e non sempre in senso favorevole. Le condizioni economiche, e particolarmente quelle alimentari, hanno anch'esse giocato il loro ruolo. In linea generale, le popolazioni naturali si nutrivano in modo inadeguato.
La lotta contro la natalità, nel senso qui inteso, è la prevenzione delle nascite, fattore che gioca ai giorni nostri un ruolo importante. A questo riguardo si impone ovviamente la distinzione tra intenzione ed efficacia. E quest'ultima che ci sta a cuore, e che interviene nella definizione della popolazione naturale. Le popolazioni, anche assai remote nel tempo, che hanno fatto ricorso a procedimenti contraccettivi o aborti sono certo numerose. Ma il più delle volte la frequenza di queste pratiche era assai modesta e la loro efficacia trascurabile. Va peraltro osservato che presso certe popolazioni i procedimenti abortivi hanno potuto effettivamente impedire delle nascite, e anche provocare casi di sterilità.
Data l'inefficacia, nella grande maggioranza dei casi, dell'azione contro la morte e contro la capacità di procreare, potremmo parlare di popolazione naturale in senso proprio se non fosse per l'esistenza di consuetudini matrimoniali (magari ridotte ai soli limiti di età) che differenziano le popolazioni umane dalle popolazioni animali. Queste diverse usanze in materia matrimoniale hanno una loro incidenza sulla fecondità e, per questa via, sulla capacità di moltiplicazione della specie. Una speciale incidenza hanno anche i vari metodi di allattamento.
b) La capacità di moltiplicazione della specie umana
Pur rilevando l'esistenza di alcune divergenze tra gli autori e di certi elementi non perfettamente chiariti, possiamo tuttavia fornire i seguenti elementi di valutazione: una coppia umana che si sposi all'inizio della pubertà, rimanga unita sino alla menopausa della donna (senza quindi nè mortalità nè separazione) e ricorra all'allattamento materno avrà in media circa dodici figli nati vivi, secondo la tabella che segue. Tralasciamo qui la mortalità intrauterina, elevatissima nelle prime settimane. Il numero dei concepimenti, avvertiti e no, ne risulterebbe circa tre volte più alto.
Da questa cifra di 12 figli non bisogna concludere che la capacità di moltiplicazione della specie umana sia da 1 a 6 in una generazione (giacché 12 figli subentrerebbero a una coppia di genitori; ciò avverrebbe solo in una popolazione in cui tutte le coppie avessero 12 figli, il che corrisponderebbe a un incremento di circa il 6,5% all'anno e a un effetto moltiplicatore da 1 a 543 in un secolo). Occorre infatti tener conto della mortalità e di altri possibili ostacoli.
In una popolazione naturale il tasso di sopravvivenza femminile dalla nascita all'età procreativa media è inferiore al 50%. Occorrerà poi tener conto della mortalità del coniuge maschio. La capacità di moltiplicazione si troverà pertanto ridotta a un valore di circa 2 (raddoppio nel giro di una generazione), che corrisponde a una crescita di circa il 2,5% all'anno dell'intera popolazione. Ma questa cifra presuppone poi l'esistenza di condizioni economiche favorevoli e può essere ulteriormente ridotta da fattori di ordine sociale (celibato totale, età matrimoniale più tarda, separazione dei coniugi).
Un'altra tecnica di misurazione, più diretta, è a nostra disposizione: l'utilizzazione dei tassi di natalità e di mortalità così come sono osservabili in una popolazione naturale. Un tasso di natalità compreso tra il 40 e il 50‰ è stato rilevato presso numerose popolazioni, presenti o passate, non praticanti la limitazione delle nascite; eccezionalmente (Canada francese nel XVIII secolo) sono stati riscontrati anche tassi superiori al 60‰.
Quanto alla mortalità, le cifre variano in modo più sensibile. Una vita media di 25 anni (un valore che si ritrova spesso) corrisponde, in una popolazione stazionaria, a un tasso di mortalità del 40‰. Ma questa vita media di 25 anni (o anche meno) è condizionata, come vedremo più oltre, dalla presenza di alcuni fattori accidentali, o quanto meno di cospicue deficienze alimentari. Una vita media di 30 anni e un tasso di mortalità del 33 (o anche del 30‰) sembrano corrispondere meglio alle condizioni fisiologiche normali, ma è raro trovarli realizzati su lunghi periodi.
In pratica possiamo ritenere che il tasso di moltiplicazione della specie umana, se non è contrastato da qualche ostacolo, si aggiri intorno all'1 o all'1,5% all'anno (in assenza di qualsiasi azione efficace contro la morte).
Se l'ambiente naturale resta invariato (si pensi ad esempio a una popolazione che vive in uno spazio determinato), l'aumento della popolazione incontra, dopo un certo tempo (restando costante la tecnica), la resistenza di questo ambiente e si determina una ‛pressione demografica'. Tale pressione può avere due conseguenze ben distinte: a) l'uomo cerca nuovi mezzi per trarre un miglior partito dall'ambiente naturale, e vi riesce: è il progresso tecnico; b) sprovvista di nuovi mezzi, o essendo questi insufficienti, la popolazione umana soffre e si ritrova vittima dei tre flagelli che san Giovanni chiama i ‟tre cavalieri dell'Apocalisse": fame, epidemie e guerre (e che sono lungi dall'essere reciprocamente indipendenti).
c) La preistoria
Descriveremo ora, a grandissime linee, l'evoluzione della popolazione naturale, la quale copre un periodo che dalla preistoria arriva sino alla fine del XVIII secolo, quando il passaggio a una nuova fase è segnato dai nomi di Jenner (per la mortalità) e di Malthus (per la natalità).
Malgrado sia ancora conosciuta assai male, la storia delle popolazioni cosiddette preistoriche riceve costantemente nuovi lumi dallo sviluppo continuo delle ricerche. Attraverso l'alternarsi di progresso e di arretramento, la scomparsa di certe razze e le molteplici catastrofi, è possibile tuttavia constatare un aumento complessivo della popolazione umana, in particolare connesso all'elaborazione di mezzi tecnici migliori (caccia, pesca) per procurarsi il cibo di cui essa ha bisogno per vivere.
È stato possibile poi calcolare la popolazione, almeno in certe regioni (anche se in modo estremamente approssimativo), a partire dal numero di giacimenti ossei o di stazioni e dalla tecnica impiegata. Non meno di un milione di anni prima della nostra era, sulla Terra potevano esserci circa 125.000 Australopitechi. Intorno all'8000 a.C. la Terra era popolata da circa 5 milioni di uomini (secondo alcuni invece non più di un milione). La crescita era dunque stata estremamente lenta: una media inferiore allo 0,4% ogni millennio.
All'epoca dell'uomo neandertaliano occorrevano da 5 a 10 km2 per persona (e doveva trattarsi di regioni favorevoli) per trarre gli elementi di sostentamento.
La mortalità è stata misurata partendo dall'età dei crani, specialmente di quelli rinvenuti negli ossari. Utilizzando i rilevamenti compiuti nella necropoli di Columnata, in Algeria (circa 600 a.C.), J. N. Biraben ha stimato a 21 o 22 anni la durata della vita media, valore che corrisponde, in una popolazione stazionaria, a una natalità del 46-47‰. Noi saremmo tentati di considerare questa vita media come leggermente inferiore a quella reale. Va del resto precisato che le misurazioni dell'età di uno scheletro vanno sempre accolte con cautela. Come ha mostrato C. Masset, il metodo delle suture craniche fornisce, per es. nel caso di persone anziane, età inferiori alla realtà (lo scarto raggiunge non di rado i dieci anni).
È ragionevole poi supporre che sullo sviluppo o sull'estinzione di certe popolazioni abbiano agito anche fenomeni genetici. Ma su questo punto, malgrado lo studio dei denti abbia portato a rilievi interessanti, sappiamo ancora poco.
In epoca neolitica (circa 6000 a.C.) la lavorazione della terra consentì una maggiore produzione alimentare, aprendo alla crescita della popolazione nuove e rilevanti possibilità. Queste sono peraltro limitate: la popolazione aumenta, ma sempre entro i limiti sopra indicati, giacché la capacità di moltiplicazione della specie umana non può essere mai pienamente utilizzata.
Limitiamoci a considerare la popolazione dei territori che costituivano l'Impero romano. Alla nascita di Cristo essa poteva aggirarsi attorno ai 50 milioni di abitanti. Orbene, se avesse beneficiato di un tasso di moltiplicazione dell'1% all'anno, intorno al 1800 si sarebbe trovata moltiplicata 60 milioni di volte, e avrebbe dato un totale 800.000 volte più elevato della popolazione mondiale attuale. Di fatto non si è moltiplicata che per 10 o 12 volte circa (aumento peraltro incomparabilmente maggiore del precedente).
Tale sproporzione, riscontrabile in Cina non meno che nel bacino del Mediterraneo, conferma che ostacoli rilevanti si sono opposti alla moltiplicazione naturale, i quali non sono poi altro che i tre flagelli già citati. Poiché il ritmo del progresso tecnico è sempre stato assai inferiore rispetto alla crescita della popolazione, questi flagelli hanno infierito spietatamente, come mostrano gli accenni seguenti.
1. Le carestie. Le carestie gravi non vanno confuse con la sottoalimentazione cronica, pur se ambedue hanno un effetto limitativo sulla popolazione (soprattutto per via di un incremento della mortalità). Le carestie costellano la storia dell'umanità in tutte le regioni, ma noi conosciamo soprattutto quelle concernenti l'Europa occidentale e l'Estremo Oriente (Cina, India, Giappone). La popolazione non può oltrepassare durevolmente il totale corrispondente al cibo ch'essa è in grado di strappare alla terra. La curva sale per qualche tempo, ma ricade poi come il macigno di Sisifo.
2. Le epidemie non vanno confuse con le malattie ordinarie o endemiche: esse infuriano d'un colpo, il più delle volte in conseguenza dell'arrivo in un porto di nuovi germi. Quando le epidemie si sviluppano in una popolazione indebolita, i loro effetti sono particolarmente micidiali: così avvenne, ad es., con la peste nera del XIV secolo che decimò le popolazioni europee.
3. Le guerre e i massacri hanno svolto un ruolo importante, dal punto di vista demografico, più attraverso le devastazioni imposte alle popolazioni civili che non attraverso le perdite strettamente militari. Conviene quindi esaminare in modo più generale i rapporti tra guerra e popolazione.
d) Guerra e popolazione
Secondo una tesi suggestiva e largamente diffusa, le guerre deriverebbero essenzialmente dalla sovrappopolazione, la quale spingerebbe a ricercare presso altri popoli mezzi di sussistenza e maggiori ricchezze.
Questo movente ha potuto certamente svolgere un ruolo importante nei tempi primitivi, e forse sino al Medioevo. Tra le tante testimonianze ricordiamo la celebre esortazione di Urbano Il ai crociati in occasione della prima crociata: ‟Non lasciatevi trattenere da alcuno dei vostri possedimenti, poiché questa terra ove vivete [...] è troppo ristretta per la vostra vasta popolazione [...]. Essa fornisce appena abbastanza cibo per chi la coltiva [...]. Prendete la strada del Santo Sepolcro, strappate la terra alla razza iniqua e prendetene possesso
Ma generalizzare sarebbe oltremodo ingannevole. Anche durante il Medioevo vediamo i sovrani europei cercare di conquistare territori ‛insieme con i loro abitanti', al fine di dominarli e di sfruttarli, e non già di distribuire nuove terre ai propri sudditi. In seguito il nesso tra sovrappopolazione e guerra diviene ancora meno pronunciato. I territori conquistati sono sempre stati conquistati ‛con i loro abitanti' (con l'eccezione degli accordi di Potsdam del 1945, in seguito ai quali venne allontanata dal proprio territorio una parte delle popolazioni tedesche). La guerra del Vietnam e gli attuali pericoli di guerra non hanno alcuna base demografica.
Infine, va rilevato che anche lo spopolamento di un territorio o la depressione demografica possono essere una causa di guerra, giacché esercitano un effetto di attrazione sugli abitanti di un paese soggetto a una pressione più forte. Come nel caso dei venti, la guerra è generata non da una pressione, ma da una differenza di pressioni. Il problema è insomma assai più complesso di quel che appaia a prima vista.
e) Sovrappopolazione e regime sociopolitico
Uno stato cronico di sovrappopolazione non ha prodotto dappertutto lo stesso regime sociopolitico. Nei paesi dominati dal sistema tribale - e particolarmente nell'Africa nera - la densità della popolazione è rimasta scarsa, congiuntamente a un'insufficienza dei mezzi di sussistenza dovuta a pratiche agricole tali da comportare un grande consumo di suolo (debbio, seguito da erosione, mutamenti frequenti di terre). È d'altronde difficile dire se la scarsa densità, dovuta a qualche causa biologica, sia responsabile della distruzione del suolo, o se, al contrario, sia il tipo di coltivazione impiegato (estremamente estensivo) che impedisce la crescita della popolazione.
In un paese che tende alla sovrappopolazione permanente, la pressione conduce a una gerarchia sociale verticale. Il signore - o il proprietario fondiario - preleva una parte dei raccolti, riduce i coltivatori a una situazione di sottoalimentazione, e per questa via nutre domestici, artigiani e operai che lavorano per suo conto. In un tale regime ‛verticale' la popolazione è nutrita male, ma è più numerosa che in un sistema ‛orizzontale'. In quest'ultimo caso, infatti, gli uomini in eccedenza sarebbero stati eliminati.
f) Lento accrescimento della popolazione
Anche se le tecniche impiegate in agricoltura per lo sfruttamento della terra non fossero minimamente progredite, la popolazione sarebbe egualmente aumentata, nel corso dei secoli, grazie alla progressiva applicazione di tali tecniche, particolarmente grazie al dissodamento di nuove terre e a migliorie di varia natura. A un certo punto, tuttavia, la popolazione sarebbe arrivata a un livello di saturazione, e avrebbe quindi oscillato, in un alternarsi di espansioni e di catastrofi, attorno a una posizione di equilibrio.
Nel XVIII secolo una pittoresca controversia oppose, su questo punto, uomini di grande valore. Montesquieu in Francia e Wallace in Inghilterra credettero a uno spopolamento progressivo. Secondo Wallace la popolazione dell'italia antica ammontava a 48 milioni di abitanti e il mondo era popolato, mille anni dopo la sua creazione, da 1.610 milioni di esseri umani. Voltaire e Hume combatterono questa opinione (ch'era imparentata con il mito della degenerazione e del ‛buon tempo antico'). Di fatto, dal tempo di Cesare la popolazione della Francia e dell'Inghilterra si era pressappoco quadruplicata. Al progresso tecnico e ai nuovi dissodamenti si sono aggiunti poi gli effetti della politica del territorio, del commercio estero e della scoperta del Nuovo Mondo.
g) Censimenti e statistiche
L'idea di calcolare la popolazione mondiale emerse poco tempo dopo le grandi scoperte geografiche. La sua evoluzione ha seguito più o meno le tappe riportate nella tabella seguente.
Censimenti ebbero luogo però già nell'antichità. Il più delle volte avevano fini fiscali o militari, il che contribuiva a farli temere dalla popolazione. Dopo la caduta dell'Impero romano e lo sfaldarsi dell'autorità poterono effettuarsi conteggi soltanto riguardo a piccole unità, a livello di abbazia, signoria o città.
Nel XVII secolo il consolidarsi dell'autorità centrale rese a un tempo possibili e necessari i censimenti su scala nazionale. Essi furono intrapresi però solo all'inizio del secolo successivo e non ancora come censimenti degli individui, bensì dei ‛focolari' (vale a dire dei nuclei familiari), il cui numero veniva poi moltiplicato per un coefficiente appropriato, il più delle volte 4 o 5.
A partire dal XVI secolo, e in qualche caso anche da date precedenti, nella maggior parte dei paesi cristiani le nascite, i decessi e i matrimoni venivano registrati nelle parrocchie. Ma lo scopo di tale misurazione era religioso, non statistico. Fu solo nel XVII secolo, e soprattutto nel XVIII, che gli atti di nascita o di morte cominciarono a essere utilizzati per scopi statistici; e fu appunto utilizzando i registri dei decessi che in Inghilterra nel 1662 J. Graunt formulò la prima tavola di mortalità (quella di Ulpio, elaborata sotto Alessandro Severo, non poggiava su una documentazione attendibile).
4. Dottrine e atteggiamenti sino a Malthus
Dal giorno in cui la società cominciò a organizzarsi ebbero luogo le prime discussioni sull'opportunità di una popolazione molto numerosa (discussioni certamente anteriori a Socrate o a Confucio, vale a dire alle nostre prime testimonianze in materia). Nell'insieme, le democrazie sono state e sono, per ragioni che vedremo più oltre, meno favorevoli delle autocrazie al gran numero di abitanti.
Nel Medioevo la questione cadde nell'oblio, oppure si colorò di considerazioni prevalentemente spirituali. Fu soprattutto a partire dal XVI secolo che si cominciò ad assistere, in particolare in Francia e in Italia, alla fioritura di dottrine politiche ed economiche attente al problema della popolazione.
I fautori dell'assolutismo si collocavano dal punto di vista del sovrano, e gli auguravano un gran numero di sudditi. ‟Non c'è ricchezza e forza se non d'uomini", affermava J. Bodin. In Italia gli autori erano più prudenti (soprattutto Machiavelli); ma l'esistenza dei vasti territori del Nuovo Mondo e la possibilità di emigrarvi non permettevano che la nozione di sovrappopolazione prendesse davvero piede.
Il mercantilismo fu il naturale prolungamento del popolazionismo politico. Secondo questa dottrina, la crescita della popolazione è a un tempo un beneficio in sé e una delle manifestazioni più certe della prosperità economica. Ma in Italia (con Genovesi) e in Inghilterra (con Davenant) il mercantilismo è stato alquanto meno ottimista in materia di popolazione di quanto lo sia stato in Francia o in Spagna.
Nel XVIII secolo il mercantilismo contava ormai solamente pochi fautori in ritardo rispetto ai tempi. Il franco-irlandese Cantillon formulò in quegli anni interpretazioni più sottili, dimostrando che le dimensioni della popolazione dipendono dal modo in cui le classi ricche impiegano i propri redditi. A seconda che esse consumino uomini (domestici, artigiani, ecc.) o merci, il numero degli uomini sarà più o meno grande. Queste intuizioni geniali, che hanno ancor oggi una loro validità, particolarmente in materia di disoccupazione, sono state purtroppo perse di vista in seguito, malgrado gli sforzi di Effertz, di Landry e di Sauvy per riproporle all'attenzione degli studiosi.
Lo scozzese Law, e soprattutto il suo discepolo Dutot, elaborarono una teoria estremamente ottimistica, secondo la quale emettendo moneta è possibile aumentare indefinitamente l'attività economica e la popolazione, ricorrendo se necessario all'immigrazione.
Secondo Quesnay, il padre della fisiocrazia, l'accrescimento della popolazione è auspicabile, ma costituisce solo un risultato. Il numero degli uomini si determina in proporzione ai mezzi di sussistenza, sicché occorre far fruttare la natura (e particolarmente la terra), fonte di ogni ricchezza, attraverso delle ‛anticipazioni' (che oggi chiameremmo ‛investimenti'). La libertà di commercio è necessaria. A differenza di Cantillon, Quesnay raccomanda il consumo dei prodotti della terra. La loro scarsità ne farà salire i prezzi, e ciò inciterà a compiere nuovi dissodamenti, consentendo per tal via di accrescere ulteriormente la popolazione.
Il liberalismo di Adam Smith trascurò invece quasi completamente il problema della popolazione. Essa doveva, come tutto il resto, essere regolata da meccanismi automatici.
5. La prima rivoluzione demografica
Nel 1798 si verificarono, simultaneamente, due grandi avvenimenti: Jenner vaccina il giovane James Phipps contro il vaiolo e Malthus pubblica il suo Saggio sul principio di popolazione. Siamo agli inizi della prima rivoluzione demografica.
a) Caduta della mortalità
La vaccinazione contro il vaiolo costituì il primo passo della lunga e difficile lotta per l'allungamento della vita. Sino a quel momento, per millenni, e anche centinaia di millenni, la vita media dell'uomo non aveva registrato mutamenti. Ed ecco che il macigno che pesava sulla testa degli uomini comincia a sollevarsi, dando luogo a una situazione interamente inedita. La seguente tabella mostra, per le popolazioni europee, la successione delle grandi tappe della speranza di vita alla nascita.
Risulta dunque che la speranza di vita alla nascita di ciascun essere umano, costante per un lunghissimo periodo, si è più che raddoppiata in un secolo e mezzo.
Va d'altronde rilevato che in quegli stessi anni le carestie e le grandi epidemie sono scomparse dall'Europa (con l'eccezione della carestia irlandese nel 1847), e che le guerre succedutesi tra il 1815 e il 1914 hanno fatto relativamente pochi morti. Il quoziente di mortalità raggiunge così valori che l'umanità non aveva mai conosciuto. Dal 35‰ e talvolta il 40, scende nell'Europa occidentale al 22‰ nel 1850 e sotto il 15 all'inizio del XX secolo.
b) Resistenza della natalità
Questo crollo verticale della mortalità non è stato accompagnato da una diminuzione corrispondente della natalità. Quest'ultima aumenta anzi addirittura in alcuni paesi a causa di un abbassamento dell'età matrimoniale. Nel 1875 la Gran Bretagna, ch'è in tanti campi all'avanguardia, ha ancora un tasso di natalità del 35‰. Gli sforzi propagandistici dei neomalthusiani per contrastare questa situazione (F. Place, R. Carlile) si rivelano non particolarmente efficaci.
Tuttavia la mentalità comincia a modificarsi. Nel 1875 H. Cook, libraio a Bristol, è condannato a due anni di lavori forzati per aver venduto opere neomalthusiane corredate di illustrazioni. Ne nacque un processo-scandalo contro i suoi difensori, Ch. Bradlaugh e A. Besant, i cui effetti propagandistici furono assai più efficaci dei libri stessi. A partire da quell'epoca la natalità cominciò a diminuire rapidamente, prima in Inghilterra e poi sul continente.
Tra la diminuzione della mortalità e quella della natalità passa circa un secolo. Da questo scarto deriva un aumento della popolazione senza precedenti. Ecco, a titolo di esempio, le cifre della popolazione in alcuni paesi nel 1815 e nel 1914 (in milioni di unità):
Questo considerevole aumento, di proporzioni senza precedenti, si è verificato malgrado un'intensa emigrazione oltremare. Ancora agli inizi del XX secolo lasciavano l'Europa due milioni di persone ogni anno.
Questa prima esplosione demografica costituisce una ricca fonte di insegnamenti, particolarmente ai fini dello studio della seconda esplosione, di cui parleremo più avanti.
c) La controversia Marx-Malthus sulla sovrappopolazione
Il XIX secolo segnò anche l'inizio di un dibattito aspro e di grande portata sul problema demografico, le cui conseguenze si fanno sentire ancora oggi in modo acuto sulla scena mondiale.
Per Malthus e i suoi seguaci (approvati in ciò da una parte della classe dirigente) la miseria operaia non era dovuta allo sfruttamento degli industriali, ma all'eccesso di popolazione. La responsabilità veniva così rovesciata sulle spalle dei poveri, accusati implicitamente di imprevidenza.
Questo atteggiamento sollevò contro i malthusiani i socialisti di tutte le scuole (R. Owen, Ch. Fourier, P. J. Proudhon, K. Marx, L. Blanc, ecc.). Proudhon affermava, per es., che ‟sulla terra c'è un solo uomo di troppo, ed è il signor Malthus". Ma il più severo fu certamente Marx, che si espresse nei confronti di Malthus in termini estremamente violenti. A suo giudizio la miseria nasceva dall'esistenza della proprietà privata, e non dalla pretesa sovrappopolazione.
Che cosa pensare oggi della sostanza del dibattito che oppose Marx a Malthus e che proseguì ancora a lungo negli anni successivi, in particolare tra le diverse correnti del movimento operaio? L'Europa era davvero sovrappopolata nell'Ottocento e questo stato di sovrappopolazione era la causa della miseria operaia, particolarmente pesante nella prima metà del secolo? Quale che sia la risposta che si ritiene corretta, è certo che questo problema storico centrale costituisce una fonte di insegnamenti per l'intera questione della popolazione. Dapprincipio il progresso dell'industria non è stato certo sufficiente ad assorbire convenientemente il surplus demografico esistente nelle città, e meno ancora quello rurale. La povertà dei contadini era del resto ancora più grave di quella operaia, giacché essi abbandonavano le campagne e non vi facevano più ritorno. Senza voler giustificare nè la proprietà privata nè il regime dell'epoca, è lecito ritenere che una minore pressione demografica sarebbe stata più favorevole ai salari e che, per converso, senza l'emigrazione oltremare la situazione sarebbe stata ancora più difficile. D'altronde, il progresso economico è stato indubbiamente accelerato dalle difficoltà. Ed è anche probabile che se nell'epoca preistorica l'uomo avesse limitato le nascite per ridurre le sue sofferenze, l'umanità sarebbe scomparsa, o sarebbe ancora a uno stadio preagricolo.
È comunque opportuno separare rigorosamente la questione di fatto dalla questione morale, e in particolare dalla ricerca delle colpe di questo o di quel gruppo sociale. Lo studio della prima non deve essere influenzato dal giudizio che ciascuno di noi può dare sulla seconda. Ma è raro che la distinzione sia fatta con la nettezza che sarebbe desiderabile.
d) Due tipi di popolazioni
Il compimento della prima rivoluzione demografica rende possibile distinguere, alla vigilia della seconda guerra mondiale, due specie di popolazioni: a) le popolazioni evolute, caratterizzate da bassa mortalità (circa 15‰) e bassa natalità (da 18 a 25‰), e localizzate principalmente nell'Europa occidentale e nei paesi anglosassoni. Il loro ritmo di incremento demografico è ancora abbastanza rilevante, ma l'aumento deriva, per una parte cospicua, dal fenomeno che potremmo chiamare della ‛velocità acquisita', o forse, meglio, della ‛lentezza acquisita'. Inoltre, queste popolazioni risultano già colpite dall'‛invecchiamento', di cui parleremo più avanti; b) le popolazioni non evolute, rimaste più o meno allo stato di popolazioni naturali, caratterizzate da forte mortalità (oltre il 35‰) e da forte natalità (circa il 40‰). Esse comprendono ancora la maggioranza dell'umanità.
Si possono però trovare anche popolazioni collocate in una posizione intermedia rispetto a queste due categorie estreme: in corso di evoluzione, esse risultano però attardate, particolarmente dal punto di vista della natalità. Tra queste popolazioni sono però riscontrabili differenze abbastanza accentuate, soprattutto per quanto concerne il tasso di accrescimento. Ad esempio, in Giappone, dove la mortalità era caduta, prima dell'ultima guerra, al 20‰ (livello quasi europeo), la natalità era ancora del 33‰, il che comportava un aumento piuttosto rapido (1,3% all'anno), il quale a sua volta ha ispirato una politica imperialistica di conquiste.
e) Le migrazioni dall'Europa
Senza essere necessariamente la conseguenza di un vero e proprio stato di sovrappopolazione, le migrazioni dall'Europa verso il Nuovo Mondo mostrano che - al momento della partenza - gli emigranti trovavano maggiori opportunità economiche nei paesi nuovi. Lo spirito d'avventura spingeva poi nella stessa direzione del bisogno.
È significativo inoltre il cambiamento progressivo del paese d'origine degli emigranti: nel corso del XIX secolo sono i paesi più evoluti (Gran Bretagna, Svezia, Germania, ecc.) che, insieme ai paesi marittimi tradizionali che attraversano una situazione particolarmente difficile (Spagna, Portogallo e Irlanda), forniscono i contingenti di emigranti più numerosi. Ma a poco a poco i paesi evoluti sono sostituiti da altri, più continentali e meno avanzati: Italia, Paesi baltici, Russia, Austria-Ungheria, Balcani.
Questo spostamento progressivo mostra chiaramente che, considerato nel suo insieme, il processo di sviluppo economico (alla cui base c'è la crescita della produttività) ha aumentato e non diminuito il numero dei posti di lavoro, contrariamente a quanto affermato dai pregiudizi che legavano la disoccupazione alle macchine e al progresso tecnico. Lo stato di sovrappopolazione è stato combattuto efficacemente proprio dal progresso della produttività.
f) L'invecchiamento demografico
Anche questo importante fenomeno si presta a essere meglio studiato attraverso l'osservazione diretta che non attraverso la teoria pura.
L'invecchiamento demografico si risolve in - o si definisce come - un aumento della percentuale delle persone anziane (ad esempio degli individui di età superiore ai 60 anni, o ai 65). Nel 1910 la popolazione francese contava già una percentuale di vecchi più alta di quella degli altri paesi di eguale livello economico. Ecco le percentuali delle persone di età superiore ai 60 anni in alcuni paesi.
Senza le migrazioni (emigrazione da Inghilterra e Germania, immigrazione in Francia), lo scarto registrato sarebbe stato ancora più cospicuo.
La causa di questa differenza e, in particolare, dell'invecchiamento della popolazione francese (6,5% di sessuagenari alla vigilia della Rivoluzione) va ricercata nella caduta della natalità, che restringe la piramide delle età alla sua base. Contrariamente alle apparenze, e anche a un'idea largamente diffusa, la caduta della mortalità - vale a dire l'allungamento della vita - non ha contribuito all'invecchiamento (v. demografia).
Questa diminuizione di mortalità ha infatti riguardato in maggior parte i giovani, e specialmente i giovani durante il primo anno di vita. In 150 anni la durata della vita è passata da 28 a 50 anni. Di questi 22 anni guadagnati, la metà è dovuta alla caduta della mortalità infantile. Ora una diminuzione della mortalità al disotto dei 30 o 35 anni di età ha per effetto un ringiovanimento della popolazione; soltanto al di sopra di queste età una minore mortalità contribuisce all'invecchiamento. In effetti è accaduto che questi due fenomeni si sono pressappoco equilibrati (con il che non vogliamo enunciare una legge della popolazione, ma soltanto fare una constatazione relativa a questa epoca e alla successiva).
Alla vigilia della guerra, nei paesi dell'Europa occidentale diversi dalla Francia, l'invecchiamento era ai suoi inizi. Invece nei paesi poco evoluti la piramide delle età conservava la sua forma tradizionale, larga alla base e stretta al vertice.
L'invecchiamento prematuro della popolazione francese ha esercitato un effetto sfavorevole sullo sviluppo economico del paese, contribuendo a rallentare l'ampliamento delle innovazioni tecnologiche portatrici di progresso.
g) L'optimum di popolazione
I teorici della popolazione si sono in ogni epoca divisi in popolazionisti e antipopolazionisti, differenziati spesso più da semplici atteggiamenti che non da ragionamenti, giacché le basi scientifiche delle diverse posizioni erano, nella maggior parte dei casi, inadeguate. Qualcuno inclinava anche verso una posizione più sfumata, utilizzando la nozione di ‛giusto mezzo'.
Alla fine del XIX secolo questa nozione prese una forma scientifica, e per essa venne adottato il termine di ‛popolazione ottimale'. Dato un certo territorio - affermavano i sostenitori di questa concezione - solo un determinato numero di uomini assicura il livello di vita più elevato possibile. Esso è appunto l'optimum. Al di sopra di tale numero si ha sovrappopolazione, al disotto sottopopolazione. Ormai - proseguivano i fautori di questa tesi - le controversie dottrinali divengono inutili: basterà calcolare, per un paese dato, il numero ottimale dei suoi abitanti. La teoria è quindi sostituita da un problema di osservazione empirica. Spetterà poi al potere politico decidere se prendere oppure no le misure atte ad avvicinare la popolazione a tale livello ottimale, vale a dire, secondo i casi, ad aumentarla o a diminuirla.
Come accade spesso agli innovatori, i fautori dell'optimum pensavano di aver concluso in modo definitivo un dibattito millenario. E tuttavia, sin dalla nascita di questa teoria, le critiche non sono mancate: a) innanzitutto il calcolo della popolazione ottimale si è rivelato un problema assai complicato, e anzi tanto complicato da non esser stato risolto per nessun paese; b) in secondo luogo, la nozione è troppo statica. Una popolazione è costantemente in movimento. Anche se si riuscisse a realizzare un calcolo abbastanza sicuro, rimarrebbe ancora da determinare il ritmo su cui regolare la marcia di avvicinamento all'optimum; c) in terzo luogo, non si può agire sulla popolazione di un paese senza modificare la piramide delle età, il che può provocare varie difficoltà; d) in quarto luogo, il numero ottimale degli abitanti può variare a seconda del grado di sviluppo tecnico. Esso è, ad esempio, più elevato per una popolazione industriale che per una popolazione agricola a tecnica rudimentale. L'optimum può inoltre essere modificato anche da diversi fattori di ordine economicò o sociale; e) infine, è stata discussa l'opportunità stessa di ricercare l'optimum, giacché, si è detto, il problema è innanzitutto di sapere se è il caso di avere un numero minore di uomini per farli più ricchi, o, in termini più generali, se il tenore di vita è l'unico obiettivo che valga la pena di proporsi. È questa un'obiezione che ritroveremo in seguito a proposito del problema attuale della popolazione mondiale (v. anche demografia).
Sempre a questo proposito conviene ricordare che in molti casi, tra gli obiettivi perseguiti dai governi, figura l'accrescimento della potenza del paese. Il termine ‛potenza' non va preso qui necessariamente nel senso militare, ma vale a designare qualsiasi sforzo intrapreso a fini collettivi (navigazione spaziale, ricerca scientifica, ecc.). La potenza massima si ottiene lasciando a ciascun individuo soltanto il minimo vitale, mentre il resto viene impiegato a fini collettivi. Questa potenza è la più elevata possibile quando la produzione di un individuo addizionale è esattamente eguale al minimo vitale. È facile mostrare che la popolazione che consente tale potenza massima (optimum di potenza) è costantemente superiore a quella che consente il tenore di vita massimo (optimum economico), il che spiega come mai i dittatori o i regimi autoritari siano inclini a ricercare una popolazione numerosa più delle democrazie, le quali sono invece più preoccupate del benessere dell'individuo.
Queste concezioni, che hanno preso corpo alla fine del XIX secolo, erano in realtà già largamente superate, perché troppo statiche. Esse corrispondevano abbastanza bene alle esigenze di un'economia agricola, caratterizzata dall'assenza di progressi tecnici di rilievo, ma non erano adeguate alle esigenze di un'economia industrializzata.
h) Saturazione demografica e invecchiamento
Quando il Colorado, ultimo territorio fuori dei confini federali, divenne uno Stato dell'Unione, gli Americani sentirono di vivere ormai in uno spazio finito. Alla fine della prima guerra mondiale questa impressione di compiutezza, di limitazione, suggerì loro l'idea di regolamentare l'immigrazione, sino allora libera. Ne risultò la legge restrittiva del 1923-1924. L'esempio degli Stati Uniti venne poi seguito da diversi paesi latinoamericani.
Sopprimendo intense correnti migratorie consolidate nel corso dei secoli, la legge americana esercitò un'influenza, a tutt' oggi sottovalutata, sulle difficoltà economiche degli anni venti. Lungi dal ridurre il numero dei disoccupati negli Stati Uniti, essa ne provocò piuttosto un aumento e questa evoluzione sboccò nella crisi del 1929, le cui cause non furono certo puramente monetarie.
Durante questi stessi anni venti la caduta della natalità registra nei paesi di civiltà europea un'accelerazione tale che durante la grande crisi del decennio successivo il tasso di riproduzione netto (concetto elaborato intorno al 1925) scende in numerosi paesi al disotto di 1. In altri termini, le generazioni non assicurano più la propria sostituzione, o perlomeno questo avverrebbe se la situazione fosse destinata a conservarsi. La popolazione continua certo ad aumentare, ma soltanto nelle generazioni anziane. E poiché il prolungarsi di questa situazione condurrebbe a uno spopolamento progressivo, vengono formulate da più parti previsioni pessimistiche e parecchi autori annunciano il declino fatale della razza bianca europea.
Ma anche senza arrivare a queste conclusioni estreme, il pessimismo dell'epoca si manifesta in due modi: a) incorrendo in un grave errore ancor oggi diffuso, la disoccupazione viene spesso interpretata come un segno di sovrappopolazione; b) la diminuzione della natalità è considerata come un fenomeno ineluttabile, profondo, irreversibile, le cui cause sono legate alla civiltà stessa. Ogni politica mirante a rovesciare tale tendenza sembra una chimera. La società - si dice - non torna mai indietro.
In realtà la diminuzione della natalità è meno profonda, e soprattutto meno fondamentale, di quanto pensino i contemporanei della crisi: è semplicemente accaduto che, sotto l'effetto delle difficoltà economiche, molti matrimoni sono stati rinviati e molte famiglie hanno ritardato l'arrivo del secondo o del terzo figlio (ma non per questo vi hanno rinunciato definitivamente).
Come abbiamo visto, già nel XIX secolo una parte della classe dirigente borghese diviene malthusiana, rompendo con il popolazionismo tradizionale. Questa posizione si consolida poi sotto l'influenza del fenomeno della disoccupazione e del crescere degli oneri sociali. Ma una parte della classe dirigente resta popolazionista per attaccamento alla famiglia e alle tradizioni, per nazionalismo o per motivi religiosi. Quanto all'opposizione socialista, anch'essa è divisa tra il malthusianesimo dei socialdemocratici e l'atteggiamento antimalthusiano dei comunisti.
Si delineano dunque, in campo demografico, quattro tendenze sociopolitiche: a) conservatori materialisti, prudenti in materia di aumento della popolazione; b) conservatori tradizionali, più legati alla famiglia e natalisti; c) socialisti riformisti, favorevoli alla limitazione delle nascite; d) socialisti rivoluzionari (comunisti), che rifiutano questa limitazione in quanto politica.
Il prolungarsi della diminuzione della natalità, il timore della disoccupazione, l'idea, più o meno apertamente espressa, di sovrappopolazione (o almeno di saturazione demografica), l'invecchiamento della popolazione, accentuatosi dopo la prima guerra mondiale: tutti questi fattori hanno esercitato un'influenza notevole sull'evoluzione sociale. La preoccupazione per la sicurezza è andata sempre più affermandosi, conducendo in particolare alla creazione di un sistema di pensioni di vecchiaia. La dissoluzione della grande famiglia tradizionale, l'urbanizzazione e, in numerosi paesi, la distruzione del risparmio ad opera del rialzo dei prezzi hanno anch'essi concorso a promuovere queste misure di previdenza collettiva. Anche il passaggio da un'economia puramente liberale a un'economia più coordinata è stato stimolato dall'evoluzione demografica.
Va del resto osservato che in effetti la disoccupazione ha fatto la sua comparsa non già nella società, ma nelle statistiche. Essa era sempre esistita anche nel passato, e in misura notevole, in genere nella forma di sottoccupazione. Marx, per es., parlava a questo proposito dell' ‟esercito di riserva" dei lavoratori. Solo in questi anni però il fenomeno della disoccupazione è stato riconosciuto ufficialmente ed è stato oggetto di interventi pubblici di aiuto, e questo ha indotto molti a credere che in diversi paesi vi fosse una sovrappopolazione.
Ma la realtà ha provveduto a smentire le concezioni troppo statiche in materia di popolazione, ad es. sulla crescita ottimale. I plafonds ripetutamente assegnati dopo la guerra, particolarmente in termini di posti-lavoro, alla Germania, all'Olanda, al Giappone e ad altri paesi, sono stati largamente superati, in barba a tutte le teorie in vigore.
In un'economia industriale ciò che conta non è tanto l'optimum di popolazione, quanto la velocità di crescita ottimale: una popolazione che aumenta troppo velocemente è schiacciata dal peso degli investimenti demografici, vale a dire degli investimenti atti ad assicurare agli abitanti addizionali i necessari mezzi di produzione (attrezzature, terra, vie di comunicazione, ecc.) e di consumo (abitazioni, scuole, ospedali, ecc.). All'opposto, una popolazione che non aumenta, o aumenta con grande lentezza, va incontro a diversi inconvenienti, meno visibili, meno misurabili e molto meno studiati dagli economisti e dai demografi, legati sia a ragioni materiali (e particolarmente alla maggiore difficoltà di adattare strutture stabili a condizioni mutevoli), sia a ragioni morali (mancanza di vitalità e di spirito d'iniziativa, ecc.). Va comunque rilevato che la storia non ci ha dato sinora un solo esempio di paese economicamente prospero che fosse contemporaneamente demograficamente depresso. La disoccupazione colpisce con forza almeno eguale (e forse superiore) le popolazioni ad accrescimento molto lento.
Infine, non bisogna dimenticare che una popolazione la cui mortalità diminuisca non può rimanere costante senza invecchiare. Tutte le popolazioni del mondo sono poste di fronte al dilemma: crescere o invecchiare. Dopo la guerra, l'evoluzione dell'economia ha smentito le previsioni dei pessimisti, tanto che, nonostante la crescita della popolazione, numerosi paesi dell'Europa occidentale hanno dovuto fare ricorso all'immigrazione (v. cap. 10). In seguito si è riaffermata la tendenza di fondo alla diminuzione della fecondità nei paesi occidentali e oggi le generazioni non garantiscono più il loro rinnovamento.
6. La seconda rivoluzione demografica
a) La ‛distorsione' delle tecniche
Quando una civiltà avanzata trasmette le proprie tecniche a una civiltà meno avanzata, queste tecniche non si diffondono con la stessa velocità. Possiamo distinguere tre gruppi di tecniche: le tecniche per combattere la morte, le tecniche per limitare le nascite e le tecniche economiche (atte ad accrescere la produzione dei mezzi di sussistenza).
Di queste tre specie di tecniche, quelle che si sono diffuse più rapidamente sono certamente le prime (si tratta qui beninteso delle tecniche applicabili su scala di massa, come la vaccinazione, l'antisepsi o l'uso dell'acqua potabile, e non, per es., della cardiochirurgia), perché non richiedono nè capitali di rilievo nè personale altamente specializzato, e soprattutto perché non hanno bisogno del concorso attivo della popolazione. Esse sono, in un certo modo, subite passivamente.
A causa di questa distorsione nella diffusione delle tecniche, l'equilibrio tradizionale si è rotto: il tasso di mortalità, che, anche al di fuori dei periodi di carestia, delle grandi epidemie e delle guerre, superava il 35‰, è passato in media al 15‰, e anche, in certi paesi, assai al disotto di questo valore. All'opposto, la natalità si è mantenuta ai vecchi livelli, ed è anzi leggermente aumentata a causa della caduta della mortalità puerperale, stabilizzandosi nella maggioranza dei paesi poco sviluppati tra il 40 e il 5‰.
Il tasso di accrescimento, un tempo così modesto, ha superato quasi dappertutto il 2%, raggiungendo talvolta il 3,5, valore considerevolmente superiore alla capacità di moltiplicazione naturale che è stata più sopra illustrata. La zona interessata dal fenomeno comprende pressappoco tutte le popolazioni tropicali.
In diversi paesi la speranza di vita alla nascita è salita più rapidamente nel corso di una sola generazione di quanto fosse avvenuto nelle popolazioni europee durante un secolo. Una speranza di vita alla nascita di 60 anni, vale a dire il livello europeo anteguerra, si trova oggi spesso superata, e con un tenore di vita molto più basso. Le tecniche mediche hanno permesso di far vivere più a lungo popolazioni più povere. È così comparso sulla terra un terzo tipo di popolazione: una popolazione a natalità elevata e a mortalità bassa.
b) Atteggiamenti e reazioni
La reazione dei paesi ricchi a questo fenomeno è stata assai simile a quella delle classi ricche del XIX secolo: sulle orme di Malthus, essi hanno temuto che questa moltiplicazione dei poveri mettesse in pericolo il loro benessere e il loro modo di vivere.
In seno alla Commissione per la popolazione presso le Nazioni Unite, il delegato degli Stati Uniti e quello dell'Unione Sovietica hanno per lungo tempo difeso posizioni opposte, il primo pronunciandosi a favore della limitazione generale delle nascite e il secondo avversando qualsiasi azione in tal senso. Il conflitto tra Marx e Malthus si è così riprodotto a un secolo di distanza, stavolta su scala mondiale.
Ma gli occidentali non erano unanimi nel sostenere il punto di vista malthusiano. Tra di essi era possibile individuare, in materia di produzione e di risorse, due distinti atteggiamenti: a) l'atteggiamento degli ottimisti, i quali avevano fiducia nelle possibilità della scienza e nella diffusione delle tecniche occidentali. In questo gruppo figuravano, per ragioni rispettivamente religiose e ideologiche, i cattolici e i comunisti; b) l'atteggiamento dei pessimisti, secondo i quali la crescita in progressione geometrica avrebbe superato ogni limite, con l'ulteriore effetto di contrastare, in una popolazione miserabile e non istruita, la diffusione delle tecniche.
Più precisamente, era - ed è tuttora possibile distinguere due valutazioni contrapposte: a) la limitazione delle nascite favorirà lo sviluppo economico, e deve dunque avere la priorità; b) lo sviluppo economico e culturale creerà le condizioni per la limitazione delle nascite, la quale si produrrà quasi spontaneamente.
c) L'evoluzione in 25 anni
Nè le previsioni di abbondanza, formulate dagli ottimisti, nè quelle di carestia, annunciate dai pessimisti, si sono realizzate. In 25 anni il reddito medio per abitante è in media leggermente aumentato (meno però di quanto facciano credere i calcoli del prodotto interno lordo), ma il consumo alimentare è rimasto più o meno lo stesso. In altre parole, l'evoluzione nell'ultimo venticinquennio è stata caratterizzata dalla moltiplicazione nella miseria.
Le iniziative intraprese in numerosi paesi per limitare le nascite si sono scontrate in qualche caso con la resistenza dei governi, ma più spesso con le difficoltà che le coppie povere e analfabete incontrano nell'applicare tecniche contraccettive che esigono una certa attenzione e continuità di sforzi. In particolare, i provvedimenti adottati in India dopo il 1950, sostenuti dall'impiego di mezzi ingenti, non hanno ancora dato risultati apprezzabili, e la tecnica più largamente adottata - la spirale intrauterina - dopo aver acceso grandi speranze è ora in ribasso. Eppure, malgrado questi fallimenti, si può affermare che la diminuzione della natalità, secondo atto della rivoluzione demografica, è ormai avviata anche nel Terzo Mondo.
1. In numerosi paesi (Hong Kong, Singapore, Formosa, Puerto Rico, ecc.) è stata registrata una diminuzione notevole della natalità (il fenomeno risale agli anni cinquanta, e ha già raggiunto una certa ampiezza). In questi paesi il movimento è stato accompagnato - e anzi, il più delle volte, preceduto - da una diminuzione della mortalità infantile, il che conferma l'importanza della puericoltura e, in senso generale, del fattore culturale in questo ambito.
2. In altri paesi la diminuzione è stata sensibile soltanto nelle classi superiori e medie della popolazione, e non è ancora riuscita a ripercuotersi sul tasso nazionale di natalità perché è stata compensata da fattori operanti in senso contrario (diminuzione della mortalità degli adulti, e in modo particolare della mortalità puerperale).
Il centro del problema sta tutto nell'ampiezza dello scarto tra la prima fase (diminuzione della mortalità) e la seconda (diminuzione della natalità). Nel corso della prima rivoluzione demografica, tra la prima vaccinazione ad opera di Jenner e la diminuzione della natalità in Inghilterra e altri paesi passarono tre quarti di secolo. Nel caso attuale, uno scarto altrettanto ampio comporterebbe un aumento enorme della popolazione del Terzo Mondo (qualcosa come una decuplicazione), perché la natalità è in queste regioni più elevata di quanto non fosse nell'Europa dell'Ottocento, e perché la caduta della mortalità vi è stata molto più rapida e massiccia. Ma la misura dello scarto - e con essa quella della crescita - sarà indubbiamente assai diversa da un paese all'altro. L'omogeneità demografica è già oggi meno certa nel Terzo Mondo che nei paesi occidentali (la situazione dei paesi socialisti sarà esaminata a parte). (Quanto al problema della popolazione mondiale e delle risorse del pianeta, v. demografia).
7. Fattori economici e sociali
Già dall'esposizione sistematica dei fatti si è potuto constatare come i fenomeni demografici dipendano in larga misura da fattori economici e sociali. Soffermiamoci sinteticamente sui nessi principali.
a) La mortalità
Nelle popolazioni che vivono in un economia di sussistenza le condizioni economiche giocano un ruolo importante (in modo particolare l'alimentazione e le condizioni ambientali). Non solo le epidemie trovano negli individui sottoalimentati un terreno favorevole, non solo le carestie hanno (e minacciano di avere per il futuro) effetti micidiali, ma, oltre a ciò, la mortalità ordinaria è incrementata dalle difficoltà di vita, dalla tubercolosi, dalle malattie dell'apparato digerente, da carenze di diverso ordine, ecc. Quanto alle cure mediche, sono anch'esse, almeno per le popolazioni rurali e per il proletariato urbano, insufficienti.
Nei paesi sviluppati le condizioni economiche non svolgono più un ruolo di questa importanza. La maggior parte delle persone dispone oggi di un'alimentazione, di un sistema di riscaldamento e di un vestiario sufficienti, come mostrano le inchieste sul livello di vita delle famiglie. E tuttavia la mortalità varia considerevolmente nelle diverse classi sociali. A titolo d'esempio, negli Stati Uniti il numero dei decessi per influenza e polmonite negli anni 1965-1968 è stato di 24,2 su 100.000 tra i Bianchi e di 45,1 tra i non bianchi. Questo scarto, rilevabile in tutte le classi di età, deriva dalle condizioni sociali e non dal fattore razziale. In Giappone (1954-1956) il tasso di mortalità su 100.000 è stato, nella classe d'età compresa tra i 20 e i 24 anni, di 114 per i quadri superiori e di 523 per i minatori e i cavapietre. Nella classe d'età tra i 55 e i 64 anni lo scarto è minore: 1.036 contro 2.828.
Le osservazioni condotte in diversi paesi evoluti mostrano che queste differenze si attenuano gradatamente, e che sono connesse non tanto al reddito quanto al livello culturale. È vero che i due fattori sono spesso legati; ma laddove è possibile separarli (ad es. considerando i maestri di scuola e i commercianti) la conclusione è netta.
Nelle classi di età elevate accade addirittura che la mortalità sia più alta nei ceti sociali superiori. Numerose osservazioni confermano poi che nei paesi evoluti l'alimentazione è troppo ricca, almeno al disopra dei quarant'anni.
In fatto di mortalità il sesso femminile è il sesso forte. Se per i primi mesi di vita la differenza deve essere attribuita a fattori biologici, dopo i vent'anni le cose cambiano. In linea generale, la sovramortalità maschile si accentua di pari passo con il grado di sviluppo, e dopo la guerra è aumentata in tutti i paesi evoluti. Essa dipende dunque dal genere di vita, anche se non è stato possibile indicarne con precisione le cause (tabacco e alcool non possono certo spiegare tutto).
b) La fecondità
In questo ambito occorre distinguere accuratamente tre specie di popolazioni o, se si preferisce, tre stadi evolutivi: a) le popolazioni che non ricorrono alle pratiche anticoncezionali; b) le popolazioni in fase di transizione, che passano cioè dal primo stadio al terzo; c) le popolazioni che ricorrono largamente alle pratiche anticoncezionali e sono pervenute a una fase di relativa stabilità.
Le popolazioni dette naturali, poco evolute socialmente e culturalmente, presentano in generale un'elevata fecondità. I fattori economici e sociali non hanno al riguardo un'influenza considerevole. Essi agiscono soprattutto per il tramite della nuzialità (percentuale degli sposati, età matrimoniale, mono o poligamia), e anche di certi tabù sessuali. Le condizioni economiche conducono talvolta a spostare in avanti l'età matrimoniale, o anche al celibato (si pensi al caso degli operai agricoli). Inoltre le migrazioni separano spesso i sessi. Ma è anche vero che talvolta la miseria genera l'imprevidenza e favorisce il matrimonio precoce. Dal punto di vista fisiologico i fattori economici non hanno effetti di rilievo, almeno per quanto concerne l'attitudine a concepire (fecondabilità). Ma condizioni difficili accrescono la mortalità intrauterina e per questa via diminuiscono il numero delle nascite; inoltre una forte mortalità adulta diminuisce il numero delle coppie.
Nelle popolazioni in trasformazione demografica e socioeconomica la limitazione delle nascite è praticata innanzi tutto dalle categorie più agiate e più colte. Più previdenti, esse sono inoltre in grado di applicare meglio i metodi contraccettivi. La vita urbana è anch'essa favorevole alla limitazione delle nascite. All'opposto, la miseria è feconda, come mostra del resto l'etimologia ('proletariato' ha la stessa radice di ‛prolificare').
Il problema di sapere se il tenore di vita (e particolarinente il reddito) abbia un'influenza maggiore del grado di istruzione non può comunque considerarsi risolto, giacché i due fattori sono spesso strettamente legati, e ciò rende difficile l'osservazione. Saremmo tuttavia inclini a pensare che il fattore determinante sia la cultura.
La limitazione delle nascite è legata più o meno strettamente alla mortalità infantile, alle conoscenze in materia di puericoltura e, in modo particolare, all'istruzione e all'emancipazione della donna.
Le condizioni di abitazione esercitano anch'esse un'influenza sulla fecondità, ma non sempre nel senso che comunemente si crede. A un certo stadio dello sviluppo culturale ed economico la ristrettezza dell'abitazione è un fattore di limitazione delle nascite, ma a uno stadio anteriore l'affollamento e il disagio possono sortire l'effetto opposto. Del resto, nel corso della fase di transizione, il comportamento degli uomini non si conforma a una logica semplice, come mostra il fatto che coloro che hanno meno figli sono gli stessi che hanno migliori possibilità materiali di allevarli.
Nelle popolazioni in cui la limitazione delle nascite viene praticata già da tempo e in cui anche le categorie collocate ai livelli inferiori della scala sociale beneficiano di un certo grado di istruzione e di un tenore di vita sufficiente, la gerarchia sopra illustrata non è più rilevabile. La fecondità tende a livellarsi, indipendentemente dalla classe sociale (i valori minimi si osservano spesso nelle classi medie: impiegati d'ufficio, piccoli funzionari). In questa situazione si riscontra invece una natalità più elevata nelle classi superiori.
Certe professioni sono più o meno favorevoli al matrimonio e alla vita di famiglia, il che costituisce un'altra fonte di differenze.
L'impegno professionale della donna è in generale un fattore limitativo del numero dei figli. Indagini condotte in diversi paesi hanno mostrato infatti una correlazione inversa tra il numero dei figli e l'impegno professionale della donna. E tuttavia va fatta una riserva per quanto concerne l'ordine dei fattori nel nesso causale: potrebbe cioè essere che la causa sia talvolta la fecondità e la conseguenza il debole impegno professionale, o anche che certe donne siano più fertili di altre e si trovino perciò nell'impossibilità di esercitare una professione, o, infine, che alcune donne abbiano una vera e propria vocazione di madri di famiglia (il che le porrebbe nelle medesime condizioni delle precedenti).
8. Alcuni dati sulla popolazione mondiale
Sotto tutti i profili - si tratti della densità, della natalità, della mortalità, del ritmo di accrescimento o della ripartizione per età, per non parlare delle dimensioni degli Stati - sono osservabili disparità considerevoli tra i diversi paesi.
La natalità oscilla tra il 10-12‰ in certi paesi occidentali (il Lussemburgo, le due Germanie, la Svizzera) e il 50‰ in Algeria o nel Pakistan (le cifre sono incerte, ma comunque superiori al 45‰), con un rapporto quasi di 1 a 4.11 ventaglio è destinato a ridursi in avvenire, ma solo lentamente.
La mortalità oscilla tra il 5-6‰ (Formosa, Hong Kong) e il 35‰ in certe regioni africane, con un rapporto quindi di 1 a 6 e anche più. Nelle popolazioni evolute i tassi sono in genere superiori al 10‰.
L'accrescimento naturale della popolazione varia dallo 0,2% all'anno nell'Europa occidentale al 3,2 in Venezuela, vale a dire con un rapporto di a 16.
La scarsa, e anche scarsissima densità (Canada, Svezia, Algeria ecc.) non è sempre significativa, giacché occorre tener conto delle regioni desertiche. Le variazioni di densità sono tuttavia considerevoli anche nelle regioni temperate (9 in Argentina e 21 negli Stati Uniti, contro circa 300 in Belgio e nei Paesi Bassi).
La tab. I, costruita in base ai dati delle Nazioni Unite, presenta la ripartizione per grandi regioni e la sua evoluzione dopo il 1950. La tab. 11, per le stesse regioni, fornisce i dati concernenti la natalità, la mortalità e il tasso di accrescimento naturale.
9. I paesi socialisti
La dottrina marxista in materia di popolazione e la politica demografica dei regimi che a essa si sono ispirati non hanno sempre coinciso: la seconda è stata, nei fatti assai più elastica della prima e più attenta alle differenze di situazione.
La dottrina marxista in materia di popolazione è stata profondamente segnata dalla reazione di Marx e dei socialisti ottocenteschi contro la posizione di Malthus (v. cap. 5, § c). In questo quadro, il principio fondamentale è che in un regime socialista non può esserci sovrappopolazione. Di conseguenza, la forte riduzione della natalità verificatasi nei paesi capitalistici prima della guerra fu giudicata come il risultato di un comportamento borghese. Come vedremo subito, questi due atteggiamenti hanno però dovuto essere modificati, se non al livello della dottrina ufficiale, almeno nella pratica.
Se, dopo la prima guerra mondiale, in Unione Sovietica fu autorizzato l'aborto, la scelta fu dovuta a ragioni etiche e individuali, e non a motivi economici. Ma la diminuzione delle nascite, giudicata eccessiva (sembra che nel 1934 la natalità fosse del 25‰), e soprattutto le perdite dovute alla seconda carestia degli anni 1931-1934 (circa otto milioni di persone) ebbero come conseguenza la soppressione della precedente liberalizzazione. Il risultato fu che nel 1937 la natalità era arrivata, con una notevole impennata, al 36‰.
a) L'URSS dopo la guerra
Nel 1945 i vuoti enormi causati dalla guerra (la sovramortalità rispetto al livello normale dà 23 milioni di decessi in più, e la diminuzione della natalità 11 milioni di persone in meno, il che fa un totale di 34 milioni) ispirarono, indipendentemente da qualsiasi posizione dottrinale, una politica fortemente natalistica. Contemporaneamente l'atteggiamento sovietico alle Nazioni Unite sui problemi demografici internazionali rimaneva rigorosamente avverso alla limitazione delle nascite, almeno in quanto mezzo per migliorare il tenore di vita.
Durante l'epoca staliniana la pubblicazione di dati statistici era proibita, indubbiamente anche per non consentire sguardi troppo indiscreti sul potenziale bellico.
L'aborto é stato poi ripristinato nell'URSS e i vantaggi materiali accordati alle famiglie (del resto modesti) sono stati ridotti. La natalità è gradualmente diminuita, ma in modo assai ineguale da regione a regione. Dal 13‰ della Lettonia, dal 14 della RSFSR e dal 14 dell'Ucraina si passa al 33,5 dell'Uzbekistan, al 34,7 del Tagikistan e al 35,2 del Turkmenistan. Il grado di evoluzione e la religione giocano dunque un loro ruolo, non diversamente che nei paesi capitalistici. Per l'insieme dell'Unione Sovietica il tasso è del 16,5‰,. Il tasso di riproduzione netta è dell'1,05 per l'insieme della popolazione sovietica, ma scende considerevolmente nella parte europea dell'Unione.
Il fatto più sorprendente è la ripresa della mortalità per il sesso maschile. La speranza di vita alla nascita è diminuita da 66,3 anni nel 1964-1965 a 65,0 nel 1969-1970, malgrado una leggera diminuzione della mortalità infantile. Ne segue che la sovramortalità maschile è la più forte del mondo intero (9,2 anni di vita media in meno delle donne). Il fenomeno non ha ancora trovato una spiegazione.
b) Le democrazie popolari
Nel 1945 i paesi divenuti socialisti adottarono la dottrina e le opinioni sovietiche sia sulle questioni interne che su quelle internazionali. Ma emersero presto alcune contraddizioni. Tutti i paesi - ma in particolare la Polonia - si sono trovati dinanzi al problema degli investimenti demografici, che abbiamo illustrato più sopra. Le conseguenze di una natalità elevata erano ulteriormente accentuate dalla diminuzione della mortalità infantile e dall'afflusso della sovrappopolazione rurale verso le città. Il problema degli investimenti di crescita si poneva dunque in termini assai pesanti; e i Polacchi hanno riconosciuto, in contrasto con la dottrina marxista, che le ragioni dell'economia imponevano loro di favorire la diminuzione della natalità.
Di fatto tutte le democrazie popolari, limitate nel loro sviluppo industriale dalla mancanza di materie prime (esse dipendono a questo riguardo dall'Unione Sovietica), sono ricorse alla pratica dell'aborto per limitare il numero delle nascite (e anzi, nella maggior parte dei casi, in misura assai larga).
La natalità è così fortemente diminuita, cadendo talvolta al di sotto del livello che assicura la sostituzione delle generazioni (Ungheria, Repubblica Democratica Tedesca, e anche la Romania nel 1966). Da questa realtà derivano due insegnamenti: 1) è possibilissimo che quando una pratica anticoncezionale perfettamente efficace si generalizza, il comportamento dell'insieme delle famiglie conduca, in un paese evoluto, a un numero di nascite che non è in grado di assicurare il ricambio delle generazioni e che provoca, prima o poi, una progressiva riduzione di popolazione (l'esempio del Giappone suona del resto come una conferma); 2) diversamente da quanto alcuni pensano, l'aborto sottintende un atteggiamento meno liberale delle pratiche contraccettive. Nelle repubbliche popolari, e in particolare in Cecoslovacchia (senza parlare del caso eccezionale della Romania nel 1967), il governo utilizza l'aborto come regolatore della natalità rendendo più o meno liberali le norme che lo rendono possibile. Questa procedura, utilissima ai governanti, è dura per gli individui, poiché aumenta le gravidanze non desiderate. La gestione dell'aborto favorisce una politica della natalità non soltanto globale, ma anche differenziata (ad esempio a seconda del numero dei figli precedenti).
c) La Cina
Questo paese ha sempre occupato un posto a sé in materia di demografia. Sin dall'antichità è citato come sovrappopolato, o perlomeno come molto popolato. Nei tempi moderni è rimasto, in mancanza di censimenti adeguati, fuori delle statistiche. Il primo censimento vero e proprio è stato effettuato dalla Repubblica Popolare Cinese nel 1953, e ha dato un numero di 582 milioni di abitanti per la Cina continentale (ma la cifra è certamente inferiore alla realtà, che doveva essere vicinissima ai 600 milioni). I tassi di natalità e di mortalità pubblicati sino al 1957 danno un accrescimento per anno leggermente superiore al 2%. Dopo il 1957 non è più stata resa pubblica alcuna cifra (in particolare, sono rimasti segreti i risultati del censimento del 1964). È però ragionevole supporre che nel 1972 siano stati superati gli 800 milioni di abitanti. I dati della produzione di cereali fanno pensare che la popolazione non possa essere sensibilmente superiore a questa cifra.
Ne segue che il tasso di accrescimento per anno deve esser diminuito più di quanto sia stato detto, e che in realtà non debba superare l'1,3 o l'1,4% all'anno. E poiché la mortalità è certamente diminuita in misura considerevole (malgrado la penuria di medici qualificati), ne deriva che la diminuzione della natalità deve essere stata ancora più rilevante. Si possono ragionevolmente suggerire tassi rispettivi del 10-12 e del 20-22‰ (in luogo del 16 e del 37 di quindici anni prima).
La dottrina e la politica in materia di popolazione hanno conosciuto ripetuti mutamenti. A un primo periodo ortodosso, di condanna della limitazione delle nascite, fece seguito nel 1956 una politica malthusiana, interrotta a sua volta, sulla base di statistiche agricole di gran lunga troppo ottimistiche, in occasione del ‛balzo in avanti'. La politica di limitazione delle nascite è stata poi ripresa intorno al 1960, in modo meno spettacolare rispetto al 1956, ma con risultati più duraturi. Le autorità politiche hanno più volte citato la cifra di due figli per famiglia come un obiettivo auspicabile; ma le difficoltà incontrate nella diffusione delle tecniche contraccettive (l'aborto solleva qualche opposizione, soprattutto in campo medico) hanno portato a considerare come fattore importante l'innalzamento dell'età matrimoniale.
I Cinesi hanno avuto l'abilità - o la civetteria - di non invocare le difficoltà in fatto di mezzi di sussistenza o di posti di lavoro (ciò che sarebbe stato contrario alla dottrina marxista), ma di mettere l'accento sulla salute della donna e anche sulla necessità per essa di partecipare alla vita attiva e alla costruzione del socialismo.
Malgrado la diminuzione della natalità, e anche se l'obiettivo dei due figli per famiglia venisse raggiunto, la popolazione cinese è destinata, come tutte le popolazioni giovani, a crescere per un lungo periodo, in virtù del suo stesso potenziale e della sua ‛inerzia'. Prima del 2000 essa supererà il miliardo di unità.
10. Migrazioni
Nella sua accezione generale la migrazione è il passaggio di un certo numero di individui da una popolazione a un'altra. Il caso più frequentemente richiamato è quello dello spostamento geografico (migrazione territoriale), riguardo al quale il termine migrazione può essere impiegato da solo; ma può trattarsi anche di migrazioni professionali, sociali, ecc.
Le migrazioni territoriali possono avvenire all'interno di un paese (migrazioni interne), oppure da un paese a un altro (migrazioni internazionali).
a) Diverse specie di migrazioni
Le migrazioni possono inoltre presentare numerose caratteristiche, che si riportano qui appresso.
1. Forzate o volontarie. La distinzione non va presa sempre in senso assoluto, giacché esistono per un individuo gradi diversi di libertà: anche senza subire alcun ordine autoritario, egli può trovarsi obbligato ad abbandonare la sua professione, il suo paese, la sua residenza, e così via, perché le condizioni di vita divengono troppo difficili. Tra la deportazione vera e propria e la partenza che sia frutto di una scelta pienamente libera si dà un gran numero di situazioni intermedie. Inoltre, può esserci costrizione per quanto concerne la partenza (espulsione) e non per il punto di arrivo.
2. Massicce o individuali. Una migrazione, anche rilevante, può esser costituita da spostamenti singoli ma numerosi.
3. Organizzate o no. Questa caratteristica non si identifica in modo assoluto con le due precedenti. Una migrazione territoriale o professionale può, ad esempio, essere organizzata o favorita anche se tutto poggia sull'iniziativa dell'individuo.
4. Temporanee o definitive. Si tratta qui più di intenzioni che di fatti, giacché un individuo che pensi di abbandonare definitivamente il suo paese o la sua regione (o anche la sua professione) non è mai assolutamente certo che riuscirà, e che non sarà obbligato a tornare al suo punto - o alla sua situazione - di partenza. Ma possiamo dire che la maggioranza delle migrazioni temporanee (turismo, migrazioni stagionali, giornaliere, ecc.) non dà luogo a insediamenti definitivi.
5. Interne o internazionali. Le prime avvengono all'interno di un paese, le seconde da un paese a un altro.
6. Per lavoro o per diporto. Nel primo caso la causa è di natura economica, nel secondo la migrazione mira a consumare, non a produrre.
b) Migrazioni internazionali
In ogni epoca, e particolarmente nell'alta preistoria, gli uomini hanno fatto ricorso alle migrazioni. Il più delle volte il loro problema era di trovare migliori condizioni di vita. La causa che li muoveva era in generale di natura economica, politica o religiosa. Del resto, il desiderio di conquistare nuovi territori si è spesso combinato con il fanatismo religioso (conquiste degli Arabi, crociate, ecc.).
Nel XVI secolo la scoperta dell'America e degli altri continenti apre un'era nuova. Poiché l'Africa oppone l'ostacolo (reale o presunto che sia) del suo clima, e l'Asia quello della sua densità di popolazione, è soprattutto l'America che beneficia della corrente proveniente dall'Europa. Il flusso scorre regolarmente dal Vecchio al Nuovo Mondo per quattro secoli (ancora nel 1913 la sua consistenza era di 2 milioni di persone l'anno).
Poi a poco a poco si verifica un rovesciamento della corrente migratoria. Le partenze dall'Europa divengono assai meno frequenti, a causa sia delle restrizioni poste dai paesi verso cui tende il flusso migratorio, sia del fatto che contrariamente a un'opinione diffusa, è divenuto più facile per i lavoratori trovare un impiego nel loro paese.
Così numerosi paesi europei ch'erano tradizionalmente paesi d'emigrazione diventano paesi d'immigrazione (torneremo su questo punto tra breve).
c) Carattere e costo delle migrazioni internazionali moderne
In certe regioni poco sviluppate le migrazioni avvengono ancora sotto la pressione della miseria o di conflitti etnici. Nelle regioni sviluppate le cose vanno invece diversamente. Oggi le migrazioni sono regolamentate e, il più delle volte, organizzate. Il Bureau International du Travail ha moltiplicato le raccomandazioni in questo senso. L'immigrante deve trovare certe condizioni di accoglienza, particolarmente in fatto di abitazione e di lavoro. Ne segue che una migrazione è assai più costosa che per il passato, soprattutto se concerne un'intera famiglia e se è definitiva. Mentre un tempo il suo costo si esprimeva in termini di vite umane, oggi si esprime in termini monetari. L'insediamento in un nuovo paese oltremare di una famiglia di emigranti può causare al paese ospitante una spesa che si aggira attorno ai 20.000 dollari. Certe migrazioni sono fortemente frenate da questo costo elevato. La Francia ha fatto marcia indietro dinanzi alle spese considerevoli che avrebbe comportato l'insediamento in Guyana (pochissimo popolata) di famiglie della Martinica o della Guadalupa (fortemente popolate). Quando unificò Egitto e Siria nella Repubblica Araba Unita, Nasser elaborò un piano che prevedeva l'emigrazione in Siria di due milioni di Egiziani. Uno studio sommario della questione bastò a ridurre il numero a 800.000 unità, ma in realtà nessuna migrazione ha mai avuto luogo.
Analogamente, la coesistenza di una Giava sovrappopolata e di una Sumatra quasi vuota perpetua una situazione apparentemente paradossale. Ma il costo di una migrazione organizzata da un'isola all'altra, già elevatissimo, è ulteriormente accresciuto dalle resistenze sociologiche o etniche.
d) Selezione naturale o volontaria
Una migrazione volontaria di carattere economico, vale a dire l'immigrazione moderna classica, è sottoposta a una doppia selezione: a) i migranti volontari sono, in linea generale, il frutto di una selezione fisica e, sotto certi profili, morale. Malati, alienati, storpi e simili non cercano di espatriare: quelli che partono sono in generale uomini giovani, forniti di un certo spirito d'iniziativa e d'intraprendenza; b) il paese ospitante pone inoltre condizioni di età, di salute, di professione, di moralità (fedina penale), ecc.
È raro che un paese accetti immigranti di età superiore ai 40 o 45 anni, a meno che non posseggano un patrimonio sufficiente. Questa età è infatti precisamente quella in cui il valore dell'uomo per la società si annulla in termini attuariali. In altre parole, tenuto conto della sua pensione di vecchiaia, l'uomo di questa età consumerà tanto quanto produrrà, senza fornire nulla in più alla nazione. Il paese d'emigrazione si priva così di produttori giovani che versano quote alla sicurezza sociale, mentre conserva quelli che le ricevono.
Si è posto il problema di sapere se la selezione fisica alla partenza dai paesi europei, accompagnata da un'eliminazione dei deboli a opera della durezza delle condizioni di trasporto e d'insediamento, non abbia contribuito alla superiorità atletica evidente nelle popolazioni di diversi paesi americani, e particolarmente degli Stati Uniti. Ma su una questione così complessa è difficile prendere posizioni nette.
Quanto poi alla selezione secondo certi caratteri intellettuali e morali, sono stati avanzati argomenti in un senso e nell'altro, e le numerose discussioni svoltesi sulla questione sono rimaste senza risultati. Più sopra abbiamo parlato di spirito d'intraprendenza. Ma è anche vero che talvolta esso può esser spinto troppo oltre, e allora qualcuno potrebbe parlare, in senso negativo, di spirito di avventura.
Comunque stiano le cose, la selezione si rivela, nell'insieme, un fattore positivo. Il caso più notevole al riguardo è quello delle due Germanie dopo la guerra. Durante tutto il tempo in cui la migrazione è stata, di fatto, libera, le partenze dalla Germania Orientale hanno fortemente indebolito la popolazione e l'economia di questo paese, mentre la Repubblica Federale se ne avvantaggiava. Dal giorno in cui l'edificazione del muro di Berlino ha arrestato l'emorragia (1961), la Germania Orientale ha registrato un forte slancio. Più oltre discuteremo la questione della ‛migrazione dei cervelli' (v. § g).
e) Sesso e stato matrimoniale
La migrazione economica, motivata da ragioni professionali, concerne soprattutto il sesso maschile. Quando è temporanea, e il migrante rientra nel suo paese nel giro di qualche anno, la migrazione non ha conseguenze demografiche sul paese ospitante. Si tratta, in questo caso, di una semplice migrazione di lavoro. Invece nel paese di partenza può esserci una diminuzione di natalità, a causa sia di un rinvio nel tempo del matrimonio, sia di una separazione degli sposi.
Quando l'immigrante fa venire la sua famiglia e s'insedia definitivamente, il carattere demografico dell'immigrazione è pienamente evidente in ambedue i paesi. Nel paese ospitante si registra un aumento della popolazione accompagnato da un suo leggero ringiovanimento. Nel paese di partenza si registrano variazioni inverse.
Oggi le migrazioni internazionali avvengono spesso dai paesi poco sviluppati verso i paesi industriali, sotto l'influenza delle seguenti cause: I ) nei paesi poco sviluppati (Portogallo, Algeria, Iugoslavia, ecc.) manca il lavoro e i salari sono bassissimi; 2) nei paesi industriali i lavoratori giovani del posto evitano le mansioni più ingrate o peggio remunerate; 3) l'insicurezza cui vanno incontro i capitali in diversi paesi (soprattutto a causa delle possibili nazionalizzazioni) si oppone al movimento inverso, cioè a quello dei capitali verso una manodopera abbondante e poco esigente in fatto di salario.
La Svizzera è il paese più segnato da questo fenomeno, essendo arrivata a contare sino a 800.000 lavoratori stranieri nel 1964, vale a dire più del 25% della sua popolazione attiva. Gran Bretagna, Germania, e Francia hanno circa 2.000.000 di lavoratori stranieri ciascuna. In questi paesi attualmente l'immigrazione è cessata. La stessa Olanda, che dopo la perdita dell'Indonesia aveva messo a punto un vasto piano di emigrazione, presenta oggi una bilancia attiva in termini di popolazione. Negli Stati Uniti si registra, per via legale o illegale, una forte affluenza di Messicani.
Queste migrazioni pongono numerosi problemi sociali e politici: una densità eccessiva di stranieri può superare una certa soglia di tolleranza e provocare sentimenti xenofobi, se non addirittura opposizioni violente presso la popolazione del paese ospitante; inoltre gli immigrati vivono spesso in condizioni disagiate, soprattutto in fatto di abitazioni.
Poiché l'emigrazione è un atto doloroso, che provoca uno sradicamento e determina spesso spese preliminari a carico dell'interessato, lo sviluppo economico di un paese ha su di essa notevoli effetti di freno, al punto che la si può considerare come un buon test del sottosviluppo. Così l'Italia ha visto le regioni di emigrazione spostarsi dal Nord al Sud, per ridursi fortemente in seguito. La Spagna ha registrato un fenomeno analogo, e oggi fornisce all'emigrazione pochissimi catalani o baschi.
f) Vantaggi e svantaggi economici per i due paesi
Come abbiamo rilevato, il paese di partenza sembra a prima vista svantaggiato, giacché perde uomini giovani completamente formati. Ma in realtà la questione è alquanto più complessa. Se questi uomini giovani completamente formati nel loro paese non trovano lavoro, la loro produzione (in termini marginali) è nulla.
I vantaggi e gli svantaggi per i due paesi (di partenza e di arrivo) possono essere riassunti come segue: a) per il paese di partenza i vantaggi, reali o potenziali, sono la riduzione della disoccupazione, la diminuzione del fabbisogno alimentare e di consimili necessità (degli uomini sono nutriti sensa pesare più sulla collettività), i risparmi che l'emigrante porta al suo ritorno, la capacità professionale acquisita durante il soggiorno all'estero. Sul lato opposto, gli svantaggi sono - o possono essere - costituiti da perdite di produzione, da una perdita di vitalità causata dalla partenza dei più giovani, da una selezione a rovescio, da un invecchiamento della popolazione, da una certa demoralizzazione; b) per il paese d'arrivo il vantaggio è dato dalla produzione realizzata dal lavoratore straniero o, più esattamente, dal guadagno realizzato su di essa, dalla riduzione della disoccupazione ad opera di una migliore ripartizione professionale, dagli introiti addizionali della sicurezza sociale. La perdita valutaria causata dall'invio di risparmi nel paese d'origine è più che compensata (almeno sembra ragionevole supporlo) dalle esportazioni addizionali realizzate (gli operai immigrati lavorano spesso in industrie di punta, come ad esempio l'industria automobilistica), e anche dalla corrente di scambi che viene a crearsi tra i due paesi. C'è infine un vantaggio culturale.
I due paesi trovano evidentemente entrambi un vantaggio economico nell'operazione, come avviene del resto in tutte le transazioni tra una parte ricca e una parte povera. Ma questo vantaggio economico pone un problema di ripartizione, e non deve far dimenticare gli inconvenienti di natura sociopolitica.
g) Migrazioni dei cervelli
Non si tratta di un fenomeno assolutamente nuovo. Alla fine del XVII secolo l'espulsione da parte di Luigi XIV dei protestanti francesi, all'avanguardia nel campo della tecnica, fu all'origine a un tempo di un sottosviluppo industriale in Francia e di progressi in vari altri paesi (orologeria a Ginevra, industrie diverse in Germania e Cecoslovacchia). Ma oggi si tratta di una selezione volontaria ad alto livello, determinata inoltre dalla richiesta del paese ospitante.
Dopo la guerra il fenomeno ha assunto un carattere sistematico. Quando una grande impresa americana viene a sollecitare un giovane (magari sin dentro le facoltà univertane) offrendogli un contratto, essa causa, nel pieno rispetto della legalità, una perdita al paese d'origine. Quando un giovane asiatico o africano viene a seguire i suoi studi superiori in Europa o negli Stati Uniti, e vi rimane a studi finiti, arreca al suo paese, così povero di uomini qualificati, un danno che è tanto maggiore in quanto il fenomeno concerne esclusivamente gli elementi migliori.
Se un paese s'impadronisse di grano, di rame o di macchine che appartengono a un altro paese, la cosa sarebbe giudicata molto severamente. Se l'oro di una banca nazionale prendesse il volo, senza contropartita, verso un altro paese, la censura sarebbe ancora più violenta. Quando invece si tratta di uomini, la cosa non può essere giudicata allo stesso modo, giacché (almeno nei paesi non socialisti) l'uomo conserva intatta la sua libertà di spostamento, e anche perché la perdita subita dalla nazione non può essere misurata agevolmente.
Il carattere fortemente selettivo di questo movimento fa sì ch'esso concerna soprattutto gli uomini di scienza (fisici, biologi, ecc.) e il personale medico, o anche genericamente sanitario. È stato fatto osservare, per es., che negli Stati Uniti ci sono più medici iraniani che in Iran, dove il bisogno di medici è peraltro grande.
Le Nazioni Unite si sono vivamente interessate per un breve periodo a questo fenomeno, ma sono state poi avanzate delle controargomentazioni, in verità assai discutibili, che hanno bloccato ogni iniziativa. Era stato proposto di rimborsare al paese di partenza il valore degli studi compiuti dal migrante. Ma il risarcimento sarebbe stato, rispetto al danno causato, irrilevante. In effetti non disponiamo di alcun mezzo capace di stimare, anche in modo approssimativo, il guadagno realizzato da un paese che acquista un futuro premio Nobel (o anche un uomo di livello intellettuale meno elevato).
h) Migrazioni interne
Come abbiamo già visto, le migrazioni interne sono meno facilmente misurabili delle migrazioni internazionali, perché è praticamente impossibile registrarle. E tuttavia i movimenti di grande ampiezza sono percepibili attraverso il raffronto dei dati forniti dai censimenti. Il movimento più importante è la migrazione dalle campagne alle città (che non va confusa con la diminuzione della popolazione agricola, anche se i due fenomeni sono strettamente collegati).
In tutti i paesi del mondo la popolazione urbana cresce più velocemente della popolazione rurale, a causa sia delle necessità industriali, commerciali e amministrative delle città, sia del fatto che nelle campagne gli uomini non trovano più le condizioni economiche e sociali adatte per vivere.
Ecco come sono variate nel mondo dopo il 1920, e come sono verosimilmente destinate a variare sino al 2000, la popolazione urbana agglomerata (località da 20.000 abitanti in su) e la popolazione rurale o delle piccole città, secondo i dati e le previsioni elaborati dalle Nazioni Unite (in milioni di abitanti).
Le previsioni più recenti danno in realtà per la popolazione mondiale cifre più elevate (quelle sopra riportate vanno considerate come un'ipotesi per difetto). Tra il 1960 e il 2000 la popolazione agglomerata sarà dunque più che triplicata, mentre la popolazione delle campagne e delle piccole città non sarà aumentata che del 69%.
Nei paesi poco sviluppati il movimento è più rapido. Ecco la proporzione della popolazione urbana agglomerata, in percentuale sulla popolazione totale, nelle due categorie di paesi.
Il ritardo delle regioni poco sviluppate è, su questo punto, considerevole, ma mostra la tendenza a diminuire. La pressione demografica nelle campagne, infatti, fa sì che l'effetto di espulsione sia assai rilevante. Certo, il migrante non ha alcuna certezza di trovare un posto in città, ma ha ciononostante interesse a tentare la fortuna: ad esempio, il secondo o il terzo figlio di un piccolo agricoltore non può, sulla terra di famiglia, nè accrescere la produzione nè guadagnarsi da vivere, mentre in città potrà perlomeno sperare in qualche briciola del banchetto.
i) Migrazioni temporanee
Le ‛migrazioni giornaliere' dal domicilio al luogo di lavoro sono considerevolmente aumentate, negli ultimi quarant'anni, in tutti i paesi, favorite il più delle volte dalle sovvenzioni accordate ai trasporti pubblici e dalle facilitazioni concesse ai trasporti individuali. Per questa via è stato possibile condurre la manodopera nel luogo più favorevole alle imprese, mentre il gioco del mercato della forza lavoro avrebbe obbligato queste ultime a disperdersi.
Anche il turismo ha compiuto notevoli progressi. Questa migrazione, che riguarda in particolare i paesi ricchi, apporta a certi paesi poveri introiti di rilievo, soprattutto nel senso che fornisce loro valuta pregiata. Il movimento non può che estendersi ulteriormente, con un duplice risultato: da un lato legami economici più stretti, dall'altro situazioni economicamente più fragili, perché esposte alle variazioni congiunturali e alla moda. (v. migrazioni umane).
11. Politica della popolazione
Questa espressione genera spesso malintesi. Di una politica della popolazione si può parlare in due modi: a) nel senso più ristretto essa è una politica cosciente, volontaria, mirante a incidere sul numero degli abitanti di un paese: ad esempio una politica ‛natalista', che si proponga di aumentare questo numero, o una politica malthusiana, che si proponga invece di ridurre se non il numero degli uomini, almeno la natalità, e per questa via il ritmo di accrescimento della popolazione; b) nel senso più largo può dirsi politica della popolazione l'insieme delle leggi e delle misure che esercitano - direttamente o no, volontariamente o no - una influenza sulla popolazione, dal punto di vista sia quantitativo che qualitativo.
Quando si pone a persone di questo o quel paese la domanda: ‟Avete una politica della popolazione? e quale?", si riceve spesso una risposta negativa, le cui formulazioni - di poco differenti l'una dall'altra possono essere: ‟Il nostro governo non si occupa di questo problema", oppure: ‟Le nostre leggi e la nostra politica sono neutrali in materia demografica". E tuttavia in questi paesi esistono pure, quanto meno, una politica fiscale, una politica doganale, una politica agraria e simili, come anche una regolamentazione dell'immigrazione, senza parlare di una legislazione matrimoniale e di numerose altre leggi che hanno influenza sul numero degli uomini, sulla loro condizione e la loro ripartizione territoriale. Una persona può dire che non ha una ‛politica del fegato', e anzi ignorare persino l'esistenza del proprio fegato. Ma non per questo non avrà certe precise abitudini alimentari. Ciò che può mancare è insomma non già una politica demografica, ma soltanto il carattere intenzionale o cosciente delle leggi concernenti il mutamento della popolazione.
Di fatto nessuna società, anche se crede fermamente nell'equilibrio naturale, può fare a meno di leggi che interessino lo sviluppo della popolazione. Ogni società che sia appena un poco sviluppata è fornita di un sistema fiscale, di un codice civile, ecc.; come tutte le leggi, anche il codice fiscale e quello civile hanno come sottoprodotto - se non come obiettivo deliberato - una certa azione demografica.
Tra queste due concezioni estreme possono trovar posto numerose definizioni intermedie. In particolare, l'azione qualitativa può essere concepita sia in senso strettamente fisico (salute), sia in un senso più largo, che comprenda la cultura, il lavoro ecc. Dal punto di vista quantitativo una popolazione può variare soltanto in tre modi: mortalità, natalità, migrazioni. E tutti e tre questi fattori sono più o meno dipendenti dalla politica.
a) Mortalità
Le legislazioni di tutti i paesi contemplano degli sforzi per ridurre la mortalità, e tuttavia in nessun paese questo obiettivo è assolutamente prioritario rispetto a tutti gli altri.
Nei paesi sviluppati la mortalità dipende in piccola misura dal reddito degli individui, mentre, come abbiamo visto, è legata soprattutto al loro grado di istruzione e al loro modo di vivere (oltre che, beninteso, alle cure ricevute). Ogni politica nazionale mira, in linea di principio, ad allungare la vita. La quota del reddito nazionale consacrata alla salute aumenta ogni anno, e non conosce alcun limite teorico. In pratica tuttavia la politica non colloca questo obiettivo al primo posto. Altri imperativi entrano, più o meno discretamente, nel gioco. Ad esempio: a) spese che potrebbero essere orientate verso la salute pubblica sono consacrate ad altri obiettivi, talvolta anche di secondaria utilità. In qualche caso le cure alle persone molto anziane o quelle connesse a certe malattie sono estremamente costose, e la società indietreggia dinanzi alla loro generalizzazione; b) la politica nei confronti dei tossici (alcool, tabacco, droghe) può essere condotta più o meno energicamente, ma urta spesso contro interessi privati o considerazioni di carattere fiscale; c) la prevenzione degli incidenti (e particolarmente di quelli stradali) si trova sempre limitata dalla pressione degli individui e degli interessi privati; d) la lotta contro il suicidio per mezzo di servizi preventivi è praticata soltanto in alcuni paesi, e non sistematicamente.
Nei paesi poco sviluppati, a economia di sussistenza, la mortalità sta in un rapporto più diretto con il reddito, l'abitazione e l'alimentazione; in questi casi, miglioramenti nelle tecniche agricole possono modificare la dieta delle popolazioni e per questa via ridurre la mortalità.
Supponiamo che in uno di questi paesi un governo perfettamente competente e disinteressato si proponga l'obiettivo della maggiore longevità possibile. Non per questo il problema è risolto. Certuni sosterranno che val meglio concentrare tutti gli sforzi iniziali sullo sviluppo economico, giacché l'abbandono di una vita umana oggi ne salverà dieci domani. Oppure si dirà, presentando la stessa argomentazione in forma rovesciata, che salvare nell'immediato un'esistenza al prezzo di un eroico sacrificio finanziario significa, su un tempo più lungo, condannarne due. Si manifesta così il conflitto tra presente e avvenire, ovvero il classico conflitto economico tra investimenti e consumi si ritrova trasposto in termini di vite umane. Ma i calcoli relativi sono estremamente difficili e, a quanto sembra, non sono mai stati tentati seriamente. Del resto, se anche fosse possibile eseguirli correttamente, i risultati sarebbero troppo crudeli.
b) Natalità
Questo fattore agisce non soltanto sul numero, ma anche sulla struttura delle età. Certi paesi hanno una politica atta a incoraggiare la natalità, altri a ridurla. In ambedue i casi questa politica può essere ‛positiva' o ‛repressiva'.
Una politica natalista può utilizzare infatti incentivi positivi (sussidi, agevolazioni fiscali, abitazioni, insegnamento, nidi d'infanzia, prolungati congedi per maternità, facilitazioni in materia d'impiego, esenzioni dal servizio militare, ecc.), o anche mezzi repressivi (proibizione dell'aborto e della sterilizzazione chirurgica, divieto della produzione e della vendita di contraccettivi, ecc.).
Una politica antinatalista può anch'essa articolarsi in azioni positive o repressive. I mezzi positivi più largamente impiegati sono l'innalzamento dell'età matrimoniale, la gratuità delle tecniche antinatali (contraccettivi, aborti, sterilizzazione chirurgica), la propaganda in favore di tali tecniche. Occorre anche menzionare mezzi indiretti, spesso più efficaci, come migliori conoscenze in tema di puericultura, la lotta contro la mortalità infantile, l'istruzione, l'emancipazione della donna e, in una certa misura, l'urbanizzazione.
I mezzi repressivi sono stati sino a oggi impiegati in misura assai minore. Essi possono consistere in penalizzazioni fiscali, e persino in tasse sui figli oltre un certo numero. Alcune organizzazioni internazionali o americane propongono misure tali da condurre facilmente a una politica antiumana. Per far rinunciare a un desiderio di paternità la legge punirebbe esseri già viventi e perfettamente innocenti (con un'efficacia spesso dubbia).
Senza arrivare a questi estremi, la legge può rifiutare compensazioni legittime (ad esempio in materia di abitazioni), mantenendo così per intero il pesante carico dell'alloggio sulle spalle delle famiglie (ma anche qui l'efficacia è scarsa). Tra gli effetti indiretti o non volontari possiamo citare anche le misure che favoriscono il lavoro della donna (che in generale ha un'influenza restrittiva sul numero dei figli).
c) Nuzialità
In linea generale, le legislazioni non sono ispirate da preoccupazioni quantitative, ma esercitano tuttavia degli effetti anche in questo senso.
In tutti i paesi del mondo esiste una legislazione matrimoniale che, nella grande maggioranza dei casi, fissa un limite minimo di età. La determinazione di questo limite è in generale ispirata da ovvie considerazioni di opportunità e di maturità, ma talvolta può porsi come obiettivo di rendere i matrimoni meno fecondi. Il sistema fiscale può penalizzare o avvantaggiare le coppie legittime (imposta sul reddito). Le legislazioni di numerosi paesi prevedono il divorzio, o, più esattamente, la possibilità di risposarsi dopo separazione. Una grande facilità di divorzio ha per effetto di ridurre la fecondità.
d) Migrazioni
Nel corso della storia l'immigrazione è stata spesso favorita da governi preoccupati di accrescere la popolazione. Anche altre cause hanno concorso a determinare forti flussi migratori: di natura storica, religiosa, politica, sociale, fisica. Così, per es., trattati internazionali seguiti a guerre hanno causato migrazioni da territori trasferiti da un paese a un altro; così, ancora, l'immigrazione nello Stato di Israele è un esempio di come possa giocare l'influenza di alcuni di questi fattori. Anche in questi casi si possono produrre effetti quantitativi di un certo rilievo sull'ammontare della popolazione.
Oggi la politica in materia di immigrazione è dettata soprattutto da preoccupazioni di ordine economico, e anzi, più esattamente, occupazionale. Ma essa ha sempre, anche quando non è ispirata da considerazioni demografiche, conseguenze di carattere demografico. Del resto anche nel caso di un'immigrazione di lavoro possiamo avere, riguardo all'ammissione delle famiglie, una politica più o meno liberale.
L'emigrazione è soggetta a regolamentazione (talvolta severa) soltanto nei paesi socialisti. La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo consacra il diritto dell'individuo a lasciare il proprio paese, ma l'Unione Sovietica non ha votato questo articolo.
Al di là della migrazione, può porsi il problema di una politica di assimilazione, di cui la naturalizzazione è soltanto l'aspetto giuridico.
e) Ripartizione sul territorio
Gli investimenti, il sistema fiscale, i regolamenti possono favorire la concentrazione o la dispersione degli abitanti, il popolamento di questa o quella regione, ecc.
f) Effetti qualificativi
Ci muoviamo qui in un campo più incerto. In numerosi paesi si parla di migliorare la ‛qualità della vita'. Si tratta il più delle volte della lotta contro l'inquinamento nelle sue diverse forme (inquinamento atmosferico, inquinamento delle acque, rumore, ecc.) e di interventi su elementi che non entrano nella contabilità corrente.
Se passiamo a esaminare gli individui, vediamo che dal punto di vista qualitativo la legislazione ha di mira essenzialmente la salute e l'istruzione (cultura generale o tecnica). Ma essa può a questo scopo impiegare mezzi diversissimi (reddito, occupazione, abitazione, ferie, attrezzature sanitarie, ecc.). La politica delle pensioni di vecchiaia e, più in generale, la legislazione concernente le persone anziane hanno obiettivi qualitativi.
Abbiamo già accennato alla politica genetica; ebbene, la sua azione è più qualitativa che quantitativa.
Se affrontiamo ora il problema degli effetti qualitativi della legislazione, ci rendiamo conto che la maggior parte delle leggi sortiscono effetti del genere (senza che essi corrispondano necessariamente a una deliberata intenzione), e che non sempre si tratta di effetti favorevoli. Il giudizio sulla qualità è del resto spesso soggettivo: ad esempio a proposito del sistema di insegnamento le opinioni possono divergere, e così anche sulla politica di assimilazione o di adattamento nei confronti degli stranieri. Per determinare gli effetti, voluti o no, della legislazione, occorre procedere, per ciascun paese, a un'analisi particolareggiata di ogni singola legge.
Ricordiamo infine che la migrazione selettiva esercita un effetto qualitativo. Ad esempio la legge sull'immigrazione negli Stati Uniti, concepita inizialmente (1923-1924) a fini etnici, concentra oggi la sua attenzione sulle qualità intellettuali e scientifiche (migrazione dei cervelli).
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